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Racconti dall'ospizio #150: Braid, il gioiello di un genio

Racconti dall'ospizio #150: Braid, il gioiello di un genio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Un sorriso stupito che si stampa sul volto, gli occhi che si spalancano dalla meraviglia e la consapevolezza di aver provato una sensazione nuova, diversa, bellissima. Questo è quello che ho provato una decina di anni fa (sembra sia passata un’era geologica) giocando per la prima volta a Braid su Xbox 360.

Prima di Super Meat Boy, prima di Limbo, poco prima anche di Castle Crashers (di pochi giorni, per la verità) il 6 agosto del 2008 sbarca sulla console Microsoft il gioco che fa conoscere al mondo probabilmente uno dei pochi veri e propri geni del game design attualmente in attività, ovvero Jonathan Blow.

Braid racconta la storia di Tim, un ometto dai capelli rossi che deve ricongiungersi con una principessa rapita da chissà da quale entità malvagia. Questo incipit e il fatto che si tratta, a un primo sguardo, di un platform game molto classico possono trarre in inganno il giocatore che pensa di trovarsi davanti a un clone di un Super Mario a caso. Ed effettivamente ricordo benissimo il mio approccio abbastanza diffidente al titolo di Blow. Ma poi capita che utilizzi la feature su cui tutta l’esperienza si basa, ovvero il riavvolgimento del tempo, e quel sorriso ebete di cui parlavo prima si stampa a fuoco sul volto. Il tempo torna indietro, ma non tutto nello schermo ubbidisce al riavvolgimento, qualcosa continua a procedere come se nulla fosse: delle piattaforme, delle porte... e grazie a questa discrepanza temporale, è possibile superare determinati punti altrimenti impossibili.

È sempre stato difficile spiegare Braid, perché è tutto talmente visivo, talmente un’esperienza, che parlarne vuol dire tralasciare molto di quello che si percepisce giocandolo. Con l’andare dei livelli si trovano sempre più oggetti che non rispettano le leggi del tempo, addirittura, il nostro personaggio può morire e tornare in vita, utilizzando questo espediente per essere in due posti diversi contemporaneamente, tramite meccaniche che si scoprono momento per momento, livello per livello.

Ma Braid non è solo gameplay puro, no, è arte, con buona pace di tutti quelli che disquisiscono se i videogiochi possano definirsi tali o meno. Johanatan Blow si è avvalso della collaborazione di David Hellman, artista, disegnatore e fumettista, per la creazione degli sfondi, evocativi, quasi onirici. Tutto sembra essere un quadro in movimento, con colori pastello che riempiono lo schermo. Blow e Hellman hanno fatto un lavoro clamoroso anche nel rendere leggibile al giocatore cosa possa essere affetto dalla modifica del corso del tempo e cosa rimanga immutato. Pare per altro che la maggior parte dei duecento mila dollari necessari allo sviluppo di Braid sia stata necessaria a pagare proprio Hellman (spesi benissimo, direi).

Una piccola curiosità, gli sprite dei vari personaggi non sono del tutto farina del sacco dell’artista da cui poi sono stati modificati e adattati, ma in origine sono stati concepiti da Edmund McMillen, proprio lui, il creatore di Super Meat Boy e The Binding of Isaac.

Discorso diverso, invece, si deve fare per il comparto sonoro. La bellissima soundtrack non è stata composta appositamente per il gioco,  pare per motivi sia economici che qualitativi, ma è stata acquistata da Blow su licenza da Magnatune, un’etichetta indipendente, ed è composta da brani strumentali di diversi artisti. I brani non solo hanno questo mood molto tranquillo, che non annoia mai il giocatore, ma Blow li ha scelti appositamente per essere piacevoli ed ascoltabili anche al contrario, dato che, quando il tempo torna indietro, sia le immagini che la musica si riavvolgono.

La cosa che più colpisc,e però, di Braid è quello che ha significato per il mondo del videogioco indipendente. È stato il primo vero grande classico per Xbox Live Arcade, ha sicuramente aperto la strada ad altri capolavori come quelli citati prima (probabilmente Limbo non sarebbe uscito così, senza Braid) e ha consacrato Blow come stella luminosissima nel firmamento degli sviluppatori. Cosa quasi d’altri tempi, se si pensa che il designer americano ha poi impiegato ben sette anni per completare The Witnessquello che ad oggi è considerato uno dei capolavori più cristallini dell’industria videoludica attuale.

Braid è uno di quei titoli che rimangono nella storia del videogioco, sia per quello che hanno significato quando sono usciti, sia per l’eredità lasciata. Purtroppo, perle simili sono (giustamente) rare, ma sono la dimostrazione che spesso e volentieri un piccolo progetto può essere molto più importante di un grande blockbuster.

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