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Vita, morte e miracoli di Swery

Vita, morte e miracoli di Swery

Durante il Reboot Develop Blue 2019 ho avuto modo di farmi una chiacchierata con Hidetaka “Swery” Suehiro, una fra le personalità più significative esplose nell’ultimo decennio dalla scena dello sviluppo di videogiochi giapponese ed ennesima figura dal paese del sol levante ad aver tentato il balzo verso l’indipendenza. Dopo tanti anni trascorsi presso grosse aziende come SNK e Access Games, Swery ha fondato lo studio White Owls, che ha già pubblicato il suo primo gioco, The Missing: J.J. Macfield and the Island of Memories ed è attualmente al lavoro sull’opera seconda, The Good Life. Durante la nostra conversazione, abbiamo ripercorso un po’ la carriera di Suehiro e abbiamo parlato della sue scelte recenti. In questo articolo su IGN Italia, ho unito le risposte che mi ha dato a un racconto del suo intervento sul palco della GDC 2019, nell’Outcast Reportage dedicato alle interviste del Reboot Develop Blue 2019 potete ascoltare la conversazione in inglese e di seguito potete leggerne la trascrizione integrale in italiano. Inoltre, se siete temerari, potete scaricare e ascoltare la registrazione completa, con anche gli scambi in giapponese fra Swery e l’interprete, cliccando qui.

Buona lettura!

Dai tuoi giochi risulta abbastanza chiaro che sei cresciuto guardando film e serie TV arrivati dagli USA, ma vorrei sapere quali videogiochi ti piacevano da ragazzino, se amavi qualche genere o qualche titolo specifico...

Sicuramente hai ragione per quanto riguarda film e serie TV. Per i giochi... quando ero piccolo, avevo in casa un PC e ho iniziato con giochi che erano veramente solo un mucchio di puntini sullo schermo. Poi iniziarono a uscire in Giappone un po' di videogiochi e quando il Mario Bros. originale arrivò in sala giochi, io frequentavo le elementari. E in Giappone è molto comune fare dei corsi aggiuntivi, fare delle ore extra di scuola al pomeriggio. Ma io fuggivo e andavo in sala giochi per giocare a Mario e ad altre cose.

Beh, io saltavo il pranzo a scuola per conservare i soldi e usarli per comprare giochi per il Sega Master System...

Eravamo lo stesso genere di bambino!

Poi hai studiato cinema, all’università: come sei finito a lavorare nei videogiochi? Ti ci hanno spinto i tuoi studi in qualche maniera o è stato altro?

Sì, all’università ho studiato cinema, ma all’epoca, l’industria cinematografica giapponese era molto più esclusiva di oggi. C’era un sistema in base al quale se un insegnante apprezzava una sceneggiatura che avevi scritto, potevi andare a lavorare sotto di lui per quindici anni e poi, forse, avresti avuto la tua chance. Lo trovai ridicolo. Comunque, avevo studiato anche computer grafica e pubblicità, apprezzando soprattutto la prima, e cercai quindi un lavoro in cui potevo mettere a frutto quelle conoscenze.

A quel punto, hai iniziato in SNK, lavorando su The Last Blade, presso un publisher che era probabilmente all’apice delle forze. Come fu iniziare a lavorare in un luogo del genere?

Iniziare con un grosso team, in una grossa azienda, fu un’esperienza molto importante, perché fino a quel punto avevo lavorato solo con un piccolo gruppo di due o tre amici. E lì, all’improvviso, mi ritrovai a lavorare in team di venti o trenta persone. Fu molto significativo. Inoltre, all’epoca, SNK si occupava soprattutto di sale giochi, e quindi si organizzavano sessioni di test pubbliche: andavi in sala giochi e osservavi le reazioni della gente. Questo mi insegnò l’importanza del playtesting.

Ricordo che nell’epoca PlayStation 2, quando lavoravo su PSM, dal mio punto di vista esterno, giochi come Extermination e Spy Fiction erano gli sfidanti al titolo. Erano bei giochi, ma non erano Resident Evil o Metal Gear Solid. Era così che la vivevi, da underdog che affrontava la sfida ai colossi?

Dimmelo tu: perché eravamo al di sotto di quei giochi?

Beh… più che altro, un Resident Evil o un Metal Gear Solid erano serie già esistenti e di successo dalla precedente generazione di console. La gente attendeva i nuovi episodi, mentre Spy Fiction ed Extermination erano giochi nuovi, che dovevano convincere il pubblico di essere validi e meritevoli d’attenzione… ma magari non sentivi questa pressione!

Esatto. All’epoca, non percepivo proprio questo fatto di essere l’underdog. Pensavo solo a quello che volevo fare, ma gradualmente mi resi conto di stare sviluppando giochi che non sembravano interessare al “giocatore medio”. Mi resi però anche conto che rispecchiavano chi sono io. È quello che faccio, è ciò che sono bravo a fare.

E poi hai creato il videogioco più bizzarro della storia, con Deadly Premonition, e ha funzionato! Direi che hai fatto bene, a seguire la tua via personale…

Mi divertii un sacco a svilupparlo, anche perché mi resi conto subito che non c’era in giro nulla di così bizzarro.

Eri consapevole di stare facendo qualcosa di bizzarro ma ti aspettavi che potesse essere apprezzato così tanto?

Sapevo che io l’avrei comprato e mi interessava solo quello. Mi piaceva. Il mio staff, in compenso, si divertì molto poco.

Non ho avuto modo di seguire il panel sullo stato del settore in Giappone a cui hai partecipato qui al Reboot, ma pensavo che, ai tempi di PlayStation 2, la produzione di videogiochi giapponesi era molto florida, poi c’è stata una flessione, ora c’è un grande ritorno… come mai? Pensi sia semplicemente una cosa ciclica o ci sono delle ragioni precise per questa fluttuazione?

Un tempo, in Giappone, era usanza comune sviluppare il tuo motore proprietario, che ti permetteva di fare cose specifiche impossibili agli altri, e mantenerlo segreto, per avere un vantaggio sulla concorrenza. Era la cosa più importante, per uno sviluppatore. Poi, però, sempre più studi occidentali colmarono quel gap tecnologico sviluppando i propri motori e mettendoli in mano a gente di grande talento, che iniziò a sviluppare giochi molto competitivi. Il Giappone non è riuscito a tenere il passo e sviluppare motori proprietari non era più una via percorribile. Poi si sono diffusi i motori aperti, utilizzabili da tutti, e questo ha cambiato le cose. Cinque anni fa, in Giappone, si è iniziato davvero a cambiare traiettoria, a seguire nuove metodologie, e ne stiamo vedendo i frutti.

Di recente abbiamo anche visto le grosse produzioni giapponesi abbracciare il concetto di open world, che in occidente è dominante da tempo. La cosa interessante è che si vedono giochi capaci di conservare il gusto giapponese per il level design all’interno di un contesto open world.

Sì, in giochi come Metal Gear Solid V o Breath of the Wild è evidente l’approccio nipponico al level design, il modo in cui le singole situazioni si integrano all’interno del mondo di gioco.

Tornando ai tuoi giochi, hanno spesso un sapore che mescola occidente e oriente. Ci sono elementi della cultura americana, europea, giapponese… si tratta di qualcosa che insegui consciamente o accade in maniera naturale?

Non è una cosa che cerco di fare in maniera consapevole. Dipende molto da dove è ambientato il gioco, perché sulla base di quello, vado a fare lavoro di ricerca e arriva tutto da lì. E la scelta delle ambientazioni, tutte molto simili, probabilmente dipende dal fatto che quando ero bambino, mentre gli altri ragazzini giapponesi guardavano Gundam, io ero impegnato a guardare cose come 007 o A-Team.

In passato hai lavorato con Kinect e la struttura di pubblicazione a episodi. C’è qualcosa di quell’esperienza con cui vorresti sperimentare ancora? Ti interessa la realtà virtuale?

Per quanto riguarda la pubblicazione a episodi, siccome non ho potuto portare avanti D4, ho finito per deludere i giocatori, anche se indirettamente. Quindi diciamo che resto interessato a vedere come si evolvono i modelli distributivi… per esempio, potrebbe essere interessante una specie di Netflix dei videogiochi in cui puoi proporre magari un “pacchetto” da dieci episodi, cose del genere. Per quanto riguarda la realtà virtuale, in generale, amo seguire le nuove tecnologie e mettermi alla prova sfruttandole. Se dovessi trovarmi a sperimentare con un’idea che mi sembra adatta alla VR, perché no? Allo stesso tempo, però, va detto che al momento nessuno sta investendo davvero in quel settore, lato software.

Riguardo a White Owls, il tuo studio, qual è il motivo principale per cui hai deciso di diventare uno sviluppatore indipendente? Inoltre: qui al Reboot farai un intervento sui motivi per cui The Missing è il primo gioco che avete sviluppato ma io non potrò assistervi. Puoi riassumermi un talk da un’ora in due minuti?

Sostanzialmente volevo fuggire da una situazione in cui lo sviluppo di videogiochi viene visto solo come business, con in mente solo l’idea di vendere il più possibile. Voglio avere libertà creativa, voglio offrire ai giocatori opere di qualità. Riguardo a The Missing, c’erano diverse cose che volevo fare. Innanzitutto, volevo spazzare via la convinzione di molti che Swery sia uno sviluppatore che pensa solo alla storia. Poi, ho la sensazione che spesso si giochi ai videogiochi senza riuscire davvero ad empatizzare coi personaggi. E volevo dare quel tipo di esperienza. Quello era il punto di partenza, ho lavorato sulla storia in un secondo tempo. E volevo veicolare un messaggio molto chiaro, l’idea che bisogna essere capaci di accettare se stessi, che non c’è nulla di sbagliato in essere chi siamo e nel accettare la propria identità.

È un bel messaggio ed è un messaggio importante da veicolare in un ambiente come quello dei videogiochi, che per certi versi è splendido e accogliente ma allo stesso tempo contiene molte persone che, probabilmente, non lo condividono.

Tra l’altro non è solo una questione di identità sessuale. Il punto è che è importante poter essere se stessi, anche se si è “diversi” in qualche aspetto della propria identità, qualunque esso sia. Siamo tutti unici e va bene essere unici.

Riguardo all’idea che sei uno sviluppatore che pensa solo alla storia… il fatto che tu abbia voluto smentirla, è anche in parte un’ammissione di colpa? Pensi che effettivamente in passato tu possa aver dato troppo spazio a quell’aspetto, magari senza rendertene conto?

Onestamente, non saprei. Il punto, per me, era sviluppare un gioco di grande qualità con cui lanciare il mio nuovo studio.

Ultima domanda: qual è l’ultimo gran gioco a cui hai giocato e perché lo ritieni un gran gioco?

My Child Lebensborn mi ha davvero toccato, per il modo in cui sono riusciti a raccontare la guerra senza mai mostrare una singola arma che facesse fuoco.

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