Furi, Furi, Furi di tuttu l'annu
Il bello di Furi è che è ermetico e diretto allo stesso tempo. Ti nasconde quasi tutto della sua trama ma ti mostra ogni aspetto del gameplay sin dal primo scontro: una furiosa (eheh) sfida contro boss-guardiani dove i riflessi sono tutto e nulla è lasciato al caso o al becero button mashing. Che letta così può sembrare banale, ma non lo è affatto.
Così come non è banale ciò che Furi cerca di raccontare, pur se a volte troppo ermeticamente, al giocatore. Un futuristico samurai imprigionato non si sa perché deve fuggire e, come spesso il gioco vi dirà, “il carceriere è la chiave”. Insomma, il nostro deve fare a fette il guardiano per passare al piano successivo, fino ad arrivare a destinazione. Una lunga sequenza di boss fight, quindi, intervallate da sezioni da walking sim dove non è possibile far altro che avanzare verso lo scontro successivo mentre un altro fuggitivo, con tanto di maschera da coniglio che fa proprio tanto Donnie Darko, vi vomita addosso fiumi di parole quantomai ambigue.
Furi è un viaggio verso la libertà e un continuo domandarsi se il prezzo di sangue per questa sia più o meno giusto, nonostante il samurai non abbia altra scelta se non quella di combattere allo sfinimento. Tra frasi e non detti, il giocatore comincia a dubitare sempre più del senso delle proprie azioni, almeno fin quando non è tempo di menare di nuovo la katana laser e allora le nubi del pensiero si diradano, spazzate via dai venti dell’adrenalina.
Perché Furi è anche e soprattutto un action con gli attributi di acciaio, giocato tutto sulla prontezza dei riflessi e sul filo del rasoio. Ogni scontro alterna continuamente fasi a volo d’uccello, nelle quali è possibile utilizzare sia la propria lama che una provvidenziale pistola a raggi d’energia, e altre sezioni in cui la visuale si ravvicina, il raggio d’azione si fa più circoscritto e lo scontro è solo all’arma bianca. Potrei scrivere righe e righe su ogni sfaccettatura del sistema di combattimento e dei controlli di Furi, ma sarebbe noioso per voi e per me, quindi vi descriverò a grandi linee le caratteristiche principali.
Furi porta delle boss fight di stampo antico, di quelle dove è necessario prima prendere un bel po’ di mazzate per poi memorizzare gli schemi d’attacco del gaglioffo e colpire quando questo abbassa la guardia. Quindi, per prima cosa, il giocatore deve padroneggiare le manovre difensive, basate sullo scatto e ancor più sulla parata. Lo scatto può essere anche “caricato”, in modo da proiettare il samurai più lontano ed evitare così attacchi ad area; la parata, invece, va effettuata con tempismo certosino, pena inefficacia. Le “parry” sono fondamentali, in quanto non solo evitano i danni ma ricaricano persino parte della preziosa riserva di energia; una parry con tempismo perfetto, poi, romperà automaticamente la guardia dell’avversario, portando così a un contrattacco, sottolineato da tanto belle quanto non interattive piccole sequenze animate. Utilissime per avere qualche secondo di sollievo in scontri che possono essere anche piuttosto lunghi.
Sequenze animate d’attacco che è possibile attivare anche caricando al massimo il proprio fendente... manovra questa non sempre possibile, in quanto la rapidità degli avversari spesso induce a un più efficace utilizzo di attacchi rapidi. Una delle cose che più mi hanno colpito di Furi è proprio questa: l’avere un combat system di per sé semplice ma piuttosto profondo, tanto da adattarlo a boss fight dagli approcci sempre diversi e che, anzi, spesso necessitano cambi di strategie e tattiche all’interno dello stesso combattimento. Ogni scontro con un guardiano è infatti una piccola storia a sé. Non solo perché spesso il carceriere ha un background che, pur se accennato dalle solite tre frasi ermetiche, ne delinea la personalità, ma anche perché dotato di attacchi diversi dagli altri che lo rendono unico. C’è chi predilige gli attacchi dalla distanza, chi invece carica a testa bassa e chi ancora alterna i due tipi di manovre offensive: gli scontri, infatti, prevedono quattro o più fasi, durante le quali l’avversario mostrerà di volta in volta nuovi modi per farvi tanto male.
Sia il samurai che i boss hanno infatti diverse “vite”, ognuna delle quali risponde a una barra d’energia. I secondi, solitamente, ne hanno un numero maggiore di quelle del fuggitivo, ma il bello delle boss fight sta nell'abbattere avversari sulla carta più forti del giocatore, no? Una delle migliori intuizioni di Furi è legata proprio al sistema delle “health bar”: se il giocatore riesce ad azzerarne una del boss, recupera una “vita” persa; al contempo, il nemico, se azzera quella del samurai, riempe l’attuale barra in uso. Insomma: ogni sottofase dello scontro va esaurita in sé, pena la ripetizione. Se pensate agli arcade dove, inserendo un nuovo gettone, riprendevate lo scontro lì dove il boss aveva perso già metà delle sue forze, beh, Furi fa praticamente l’opposto. Per fortuna, però, che i cattivoni recuperano solo energia ma non le “vite” perse, perché altrimenti non sarebbero bastati i santi della tradizione cristiana per le bestemmie.
Perché Furi è bello tosto (ho giocato a “Normal”) e la sconfitta è un passaggio necessario per la vittoria. Il sistema di combattimento, di per sé flessibile, va comunque adattato pedissequamente alle situazioni in corso, non permettendo chissà quante improvvisazioni. Gli scontri sono infatti uno spettacolo in cui ad ogni attacco avversario deve corrispondere tempestivamente quel tipo di reazione, pensa l’avvicinarsi della sconfitta. A tratti Furi può sembrare quasi un rhythm game action, con il giocatore che deve far propria la coreografia di una danza fino a sapere con perfezione quando muoversi e perché. Ciò non vuol dire che non esistano diverse interpretazioni e sfumature, come quando ad esempio è possibile interrompere certi pattern d’attacco con un fendente ben assestato, per dire. Ma il margine di manovra di Furi è strettissimo, nei suoi combattimenti rigorosi ma mai davvero ingiusti.
Perché, come detto su, la sconfitta è parte dell’esperienza di Furi. Se si comprende ciò e si accetta che, a meno di non possedere l’autismo magico de Il Piccolo Grande Mago Dei Videogame, è necessario provare sulla propria pelle il dolore degli attacchi altrui prima di poter portare a segno i propri, Furi diventa un gioco dal quale non ne esci più fino a vedere il suo “true ending”, che arriva dopo i titoli di coda. Per poi magari proseguire in una seconda run al livello di difficoltà ancora più duro che si sblocca dopo. I combattimenti a metà tra bullet hell e action game si sposano benissimo con la narrazione da walking sim, con i nervi tesissimi che si rilassano per lasciar posto alle congetture della mente, per poi tornare al tasteggiare forsennato dello scontro successivo. La meravigliosa colonna sonora segue lo stesso percorso, con brani elettronici pompatissimi nelle boss fight e dei quasi silenzi mentre si percorre la strada verso il prossimo guardiano.
E poco importa se c’è un tearing mostruoso in alcuni filmati e se il polygon count a momenti sembra quello di un gioco per PlayStation 2. Sono problemi di cui poco ti accorgi, mentre gli occhi sono inondati dai flash delle decine di proiettili e laser a schermo o mentre, finalmente, lo stronzo che ci ha abbattuto qualche minuto prima ha interrotto il suo pattern d’attacco ed è pronto a ricevere un paio di spadate nelle gengive. Furi è un vero e proprio concentrato di stile e divertimento che, al netto di un livello di difficoltà e un modello narrativo non per tutti, consiglio quantomeno di provare. Su PlayStation 4, pensate un po’, lo trovate persino nella Instant Game Collection di luglio, dai. Non fate gli stronzi e provate quello che per me è uno dei giochi che certamente mi rimarranno più impresso in questo pur notevole 2016 videoludico.
Ho terminato Furi su PlayStation 4 a livello di difficoltà Normal, con tanto di “true ending” e sbloccando pure il trofeo “Speedrunner”, che vuol dire che sono stato piuttosto rapido. Che bravo, eh? Eppure credo che ci rigiocherò. Magari su Steam, giusto per averlo su più dispositivi.