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Headlander è una capata

Il termine capata sta a indicare, secondo il dizionario, un colpo dato con il capo. Si veda ad esempio la frase “giopep si esibisce in una capata nel monitor mentre legge come ho iniziato questa review”. Talvolta, ma più nella sua variante capatina, è utilizzato per indicare una breve visita, del tipo “vado a fare una capatina in bagno mentre scrivo la recensione”. Talvolta, per lo meno nell'Italia del sud, si utilizza esclamare “che capata” come per dire “che figata”, di cosa che stupisce o comunque convince in positivo. Ecco, l’esperienza con Headlander può essere definita come una capata in tutte e tre le accezioni sopra elencate.

La nuova opera degli ormai ben conosciuti Double Fine è ascrivibile al filone dei metroidvania, pur con alcune differenze rispetto alla formula classica delle avventure bidimensionali di Samus Aran. Tutto inizia con la rocambolesca fuga di una testa volante (l’avatar di quest’avventura) da una base zeppa di robot. Per proseguire, il capoccione spaziale deve in più di un’occasione staccare la testa ai già citati esseri robotici, per poi assumerne il controllo: la testa ha infatti poche abilità offensive, molte delle quali sbloccabili solo in seguito, mentre i suoi oppositori sono spesso dotati di gambe, arti e armi di tutto punto. Il tutto non torna utile solo nei combattimenti, però. Prendiamo per esempio un classico dei metroidvania: le porte colorate, che necessitano solitamente di una determinata arma per essere aperte. In Headlander ,invece di trovare il potenziamento per i razzi e blastare la porta con esplosioni, occorre prendere possesso di quel robot rosso in grado di fargli aprire la porta del medesimo colore. Un piccolo ma simpatico twist per una formula forse troppo abusata, che funziona anche perché suddetti robot possono subire danni fino ad esplodere, lasciando così la testa a vagare di nuovo da sola.

Ma non solo. La testa ha al suo interno un generatore, con il quale può attivare ascensori e macchinari di ogni tipo, tra cui i portali di teletrasporto per raggiungere più velocemente luoghi già esplorati. Perché, come vi ho detto, Headlander è un metroidvania, quindi articolato in mappe piuttosto estese e complesse, dove sarà necessario usare un pizzico di ingegno per risolvere degli enigmi e un pizzico di destrezza per avere la meglio in alcuni scontri, tra cui un paio di boss fight piuttosto divertenti. 

Le porte automatiche commentano fallimenti e successi del giocatore con battutine acide.

Headlander racconta di un mondo in cui gli esseri umani ormai sono del tutto scomparsi, soppiantati dai robot e da una tirannica intelligenza artificiale che tenta di comandarli; eppure, l’eroe testa volante potrebbe essere la chiave per riportare l’umanità in questo mondo futuristico e un po’ distopico. Rispetto a molti giochi Double Fine vecchi e nuovi, c’è da dire che la storia non convince appieno, risultando più un pretesto per portare avanti l’avventura che altro; d’altro canto, l’ironia tipica della casa di sviluppo è sempre ben presente, strappando qualche sorriso e contribuendo al mood “sopra le righe” del gioco, che personalmente mi ha affascinato dopo pochi minuti. 

Così come convincono la veste grafica e le animazioni, alcune delle quali davvero gradevoli. Headlander, complice anche la difficoltà di enigmi e scontri mai davvero alta, è tutto all’insegna della “scioglievolezza”, come fosse un Lindor: l’azione è sempre fluida, anche quando il ritmo rallenta per dar spazio a un po’ di backtracking, con l’appagante sensazione di essere trascinati dal gioco, che sembra quasi rispondere con naturalezza ad ogni conseguenza dettata dalle azioni del giocatore, game over compresi. Gran parte del merito va anche data ai salvataggi automatici e al buon level design, che sa appagare anche i giocatori più dediti all’esplorazione certosina senza mai essere però criptico, ma sempre leggibile, con segreti disseminati in ogni dove e mai davvero impossibili da raggiungere. Il gran merito di Headlander è forse tutto qui: nell’essere estremamente classico nella sua struttura, ma anche piuttosto moderno nel “flow” del gioco. Che non è mai difficile, ma nemmeno banale, e così scorre via con estremo piacere.

Citazioni ravvicinate del terzo tipo.

Arrivare ai titoli di coda di Headlander è roba da una manciata di ore, circa cinque. Poi, però, è possibile continuare la ricerca di potenziamenti, con tanto di scontri a fuoco aggiuntivi per chi proprio vuole continuare nell’end game di un gioco che sa giungere al suo termine prima di diventare ripetitivo. Qualcuno potrebbe dire che forse la longevità (brutta parola che mi vergogno di usare) non è elevatissima, ma per me prevale il pregio di non aver allungato forzatamente la durata, con la “Fine” che giunge proprio quando Headlander ha detto tutto ciò che doveva dire. 

Insomma, Headlander dei Double Fine è davvero una capata. Lo è perché funziona tutto a colpi di testa, perché è una “breve scappata” e, soprattutto, perché è piuttosto figo. Un gran bel metroidvania “leggero”, che saprà accontentare sia i fan più sfegatati del genere sia chi, invece, cerca un gioco semplicemente divertente ma ben realizzato.

Ho giocato a Headlander per sette ore circa, grazie a un codice Steam fornitomi dagli sviluppatori. Ho utilizzato sempre un pad, anche se il gioco permette di sfoggiare la combo mouse+tastiera. A meno che non compriate Headlander su PS4, ovviamente.