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Nostalgia: profumo e miasmi

La funzione della nostalgia mi è stata chiara molto presto nella mia vita. A undici anni. Una grave malattia colpì mio padre, generando un conto alla rovescia che sarebbe durato sette anni - più o meno gli anni della mia adolescenza. Questo conto alla rovescia personale si sovrappose a quello storico che, negli anni Ottanta, sembrava scandire l’approssimarsi della fine del mondo. Davvero! Guerra fredda. Russi e americani. Bombe atomiche. La fame nel mondo. L’AIDS. I dischi contro la fame nel mondo. I dischi a favore dell’AIDS. Segnali inequivocabili. A undici anni, pur vivendo il presente con estrema voracità perché insomma, uno a undici anni ha pur sempre undici anni, cominciai a coltivare un giardino mentale fatto di feticci del passato. Innanzitutto, il passato personale. Quello di una manciata di anni prima! Quando mi comprarono l’Amiga, dovetti farmi prestare un Commodore 64 da un compagno di classe che non lo usava più - io il mio l’avevo dato via a duecentomilalire per prendere l’Amiga suddetto. Ken il guerriero era fantastico, anche se mi ricordava che il mondo sarebbe andato tutto in merda malissimo ma proprio come inizio della storia, a prescindere da quello che poi sarebbe successo ai protagonisti. A inizio di ogni puntata me lo ricordavano. Bene, benissimo, ma datemi tregua, oh. Le repliche delle vecchie puntate di Yattaman, ecco, quelle erano una delizia. Ma anche Lupin! Che bello, Lupin, e nelle repliche, le puntate più preziose erano quelle con la giacca verde, quelle che gradatamente sprofondavano nell’oceano dove finiscono i ricordi e inizia la misteriosa fase iniziale dell’esistenza.

Man mano che passavano gli anni, la nostalgia interessava uno spazio di tempo più esteso. Nel 1990, finalmente, potei ricominciare ad ascoltare i Duran Duran e a recuperare le audiocassette con le sigle dei cartoni. L’Amiga si dotò di un emulatore dello ZX Spectrum, con cui riuscivo a giocare a Manic Miner a un terzo della velocità, perché era l’alba dell’emulazione e l’Amiga faceva quello che poteva, ma almeno riuscivo a giocarci. L’amico che ai tempi delle elementari aveva avuto lo ZX Spectrum era morto per una fatalità. Un ragazzo di cui mi fregio di aver inglobato il sense of humour grottesco - ancora oggi, su certe battute che mi vengono fuori, mi sembra di dirle con la sua voce, o perlomeno la voce adulta che non ha mai avuto. Gli penso e vive con me, e ripenso a quanto lo prendevo per il culo per quanto fosse brutto Bruce Lee su ZX rispetto a quello per 64. Quando morì, presi a giocare ossessivamente a Manic Miner. I suoi sprite, traballanti a brutalisti: la veste dei fantasmi del passato che, per un attimo, cadendo, lascia il quadro (catodico e catartico) immacolato. Quando poi scoprii il lore di Matthew Smith e l’incredibile documentario dell’Opificio Ciclope, impazzii.

Ma torniamo alla nostalgia! La nostalgia è paura della morte. Paura della nostra morte, di quella dei nostri cari, di quella della nostra generazione. Paura della morte del mondo presente. Ora, siccome per riuscire a farsene qualcosa, della paura, bisogna essere olisticamente molto ma molto fichi, è molto più semplice sublimare. Sublimare la paura si fa molto bene fruendo dei prodotti dell’industria culturale di massa. Siccome è normale avere paura, c’è da sempre una grande domanda di qualcosa che ci aiuti a sublimarla. Questo è sempre stato vero, financo potremmo dire che la cultura di massa, o almeno di massetta, sia sempre esistita. Sacerdoti babilonesi, sacerdoti greci, sacerdoti tipo Sean Connery in quel film, anche se non era proprio un sacerdote. E man mano che gli accadimenti storici hanno assunto un respiro più mondiale, prendi per esempio le guerre mondiali, anche l’industria culturale ha fatto altrettanto. Problemi globali? Paure globali? Prodotti dell’industria culturale globale! Tanta, tanta gente che si appassiona alle stesse cose significa che, dopo un po’ di anni, tanta, tanta gente ricorderà le stesse cose e proverà un idem sentire nostalgico per le medesime. Opportunità commerciale! OPERAZIONE NOSTALGIA! Tutto il secondo dopoguerra è dominato da una progressiva stratificazione di prodotti prima di moda, poi dimenticati, poi ricordati e prontamente nostalgizzati - processo che inizia un po’ più indietro, ma che raggiunge nella seconda metà del Novecento il suo apice. Peduzzi, nel suo egregio articolo, parla di ciclo dei trent’anni, e se siamo qui a parlare di anni Ottanta non è che dica minchiate, ma preferisco parlare di stratificazione progressiva, perché gruppi e target demografici diversi provano, contemporaneamente, nostalgia per contenuti temporalmente sfasati. Già nei Settanta esplodeva tra i musicisti la malinconia de “Il rock è morto, aridatece Elvis degli albori”, mentre le masse di ascoltatori hanno avuto bisogno almeno che Elvis schiattasse proprio e chiudesse un’era. Idem per Lennon: poveri cristi che con il loro sacrificio aprono scenari commerciali prima non ben definiti. Proprio perché ognuno è nostalgico un po’ di quel cazzo che gli pare, definire dei filoni è fondamentale e naturale. Ringaziate il mona che ha inventato il termine “soulslike” se fra trent’anni si tireranno fuori dall’armadio certe delizie videoludiche.

Quindi, riepilogando (in primis a me): esiste una nostalgia personale di quel che vuoi tu, compreso il pupazzetto che ti ricompri su Ebay e che pochi altri anelano, ma esiste anche una nostalgia di massa, certe volte davvero molto estesa (per esempio quella per gli anni Sessanta a fine anni Ottanta e inizio anni Novanta) altre volte composta di nicchie comunque abbastanza cicciotte da permettere la creazione di prodotti ad hoc (NES Mini, riedizione di dischi progressive che all’epoca ascoltavano in due). Il termine “revival” è stupendo nel suo cinismo: non si possono far risorgere i morti, eppure lo si fa tramite la mediazione culturale. Gli Oasis negli anni Novanta erano un frankenstein che prendeva un po’ di nostalgia del punk, dei mod, dei Beatles e, grazie al fatto che Noel Gallagher comunque sapeva scrivere canzoni, la poltiglia ha funzionato. Una scintilla di novità in un mare di già sentito, già vissuto. Tutta la comfort zone del passato ma con quel pizzico di novità che comunque non ci fa sentire tutti dei cadaveri. Un “nuovo Blade Runner”. Un “nuovo It”. Un “nuovo accozzaglia-di-Spielberg”. Contraddictio in adiecto. Bisogna cambiare non tutto, ma mai troppo, affinché non cambi niente. Naturalmente, la rievocazione nostalgica si basa su una serie di approssimazioni e semplificazioni che pertiene del passato solo quanto necessario, sgravandoci da tutta una parte di contesto che creerebbe dissonanza cognitiva. Erano davvero così favolosi gli anni Sessanta? Eravamo in piena guerra fredda, come potevano scaldarci il cuore negli anni Ottanta quando elevavamo i Beatles a icona dei bei tempi andati, “forse eravamo stupidi però adesso siamo cosa”? E vabbè, si fa quel che si può, ci si concentra sull’oggetto culturale che interessa, siamo qui per rifuggere la paura del presente e l’incertezza del futuro, mica per martellarci le palle a pensare all’immutabilità della condizione umana.

Questo è il momento in cui il lettore giustamente perde la pazienza e esclama: “Nostalgia goggles, OK, ma quindi? Stai dicendo che nostalgia uguale merda e rifiuto della realtà? Proprio tu che hai gli armadi pieni di schede da sala giochi degli anni Ottanta?”

Not so fast.

Nel 2000 successe che finii (o meglio: iniziai) a lavorare allo Studio Vit, dove incontrai Vincenzo Beretta. Vincenzo Beretta è un nome storico delle riviste di videogame ma è anche uno sceneggiatore di fumetti coi controfiocchi. Beretta mi costrinse a leggere e rileggere Watchmen. Watchmen era la tipica roba di cui sapevo a grandi linee il tema perché poteva tornare sempre utile in un party di nerd, ma che avevo sempre evitato perché i disegni non mi piacevano. L’aspetto ironico della questione è che Vincenzo mi stava facendo leggere il capolavoro di Alan Moore perché, dopo avermi conosciuto quanto bastava, aveva intuito che la cura al mio nostalgismo senza limitismo era, per l’appunto, Watchmen. Come la Bibbia, Watchmen parla principalmente della natura umana. Tutta. Watchmen contiene l’umanità tutta. Passata, presente e futura. Se potessi scegliere un’opera da scagliare obbligatoriamente in tutte le scuole superiori del mondo, sceglierei Watchmen. Ho i brividi mentre ne scrivo, anche perché l’ho appena riletto (stavo cercando una singola immagine per questo articolo: ho finito col rileggerlo tutto). Resisterò a fatica a scrivere in dettaglio quello che tutti i critici del mondo hanno probabilmente già scritto in merito, limitandomi a dire che il tempo, la paura e la nostalgia sono tre dei cardini fondamentali su cui si regge questo capolavoro.

Quindi se non l’avete letto, fatelo. Ora. Watchmen. Poi tornate qua.

Fatto?

OK.

E la grande lezione che oggi Watchmen mi dà (perché, come tutti i grandi affreschi archetipici, a seconda del momento di fruizione, l’insegnamento muta perché tu, lettore, stai cercando altre risposte) è che la nostalgia è ciò che tu ne fai.  È un bug connaturato alla natura umana, facilmente smascherabile ragionando in termini logici… ma tanto poi torna, in una forma o nell’altra, si insinuerà nella tua mente.

Se la vivi passivamente, non ti porta a nulla più che la rimozione di uno stato d’ansia presente. Un leggero indulgere su un passato falsato, quanto basta per evitare un presente pressante. Qualcosa che nemmeno Alan Moore avrebbe potuto prevedere è il successo del meme “Non ce la faccio, troppi ricordi”, che è la perfetta incarnazione della minchionaggine assoluta a cui può portare una ricerca spasmodica della comfort zone nostalgica. Mi si permetta una sovrimpressione:

La cosa peggiore che può fare la nostalgia è in effetti quella di portarti sul piano dei ricordi - ovviamente addolciti e mitizzati a seconda del bisogno - e poi schiacciarti perché il presente ti sembra insostenibile alla luce di un passato mitizzato. Ripigliamoci tutti: quelli del “I giochi erano più belli una volta”, quelli del “La musica era più bella una volta”, quelli del “Quando c’era lei”, quelli del “Quando c’era LVI”, quelli del “Si stava meglio quando non erano ancora arrivati loro” e così via. Non sarà analfabetismo funzionale, ma è analfabetismo nostalgista, questo. Nulla vieta di stabilire che un dato periodo, personale o storico, abbia caratteristiche che ci aggradano di più, ma dovrebbe essere una constatazione a posteriori, non una posizione aprioristica. Il presente è già piuttosto delicato, per quel fatto che avviene in tempo reale. Se pure ci metti il carico che aprioristicamente è peggio, lo sarà... a prescindere, appunto.

Peculiare, in questo senso, la posizione di quelle opere nuove ma basate su vecchie proprietà intellettuali, come i già citati Blade Runner e It. Vogliono ammiccare a “chi c’era”, ma non è detto che chi c’era sia ben disposto a vedersi tocchicchiati i ricordi. Ma spesso l’energia creativa profusa nel cercare di far quadrare capra e cavoli, vecchio e nuovo, porta a dimenticare un fattore fondamentale: la parte “vecchia”, quando è uscita, era di solito… nuova! Potente! Innovativa! Culturalmente rilevante! Elvis era un pugno nello stomaco. I Beatles erano fintamente accomodanti ma rivoluzionari sia nella prima fase boybandosa, sia, tanto più, nella seconda fase sperimentale. Alien, RoboCop, Predator, tutta roba mai vista, pur nascendo nell’alveo di un cinema di genere in auge da decenni.

Il “nuovo Mad Max” ha convinto praticamente tutti perché è un calcio in faccia sferrato da un insospettabile settantenne con il sangue hi-octane. Stranger Things è un mezzo miracolo perché cita e stra-cita ma allo stesso tempo intrattiene con freschezza. La mosca di Cronenberg era un remake, ma che paura mi fa Carletto l’Uomo Lupo Frank e Dracula. Twin Peaks che ve lo dico a fare. Dove c’è energia e onestà creativa si sente, al di là dei gusti personali e delle declinazioni del tempo verbale tra passato/presente.

Insomma: perché no! Indulgere in un passato idealizzato, se lo si fa con consapevolezza e senza raccontarsela troppo, può aiutarci a vivere meglio il presente. Chi ero? Chi eravamo? Chi sono? Chi siamo? Un bagnetto di comfort zone, il tempo di acciuffare per la coda un ricordo personale o un inno generazionale e poi oplà, torniamo al presente e facciamo tesoro di quanto appreso. La chiave è proprio questa: il viaggio nel passato deve essere apprendimento, interpretazione, indagine. Il passato è una dimensione parallela pericolosissima: restateci troppo e vi troverete trasformati in Giovanni Storti chiuso in auto a dire col font dei meme “NON CE LA FACCIO TROPPI RICORDI”.

Apprendimento, di ciò che eravamo per capire ciò che siamo.

Interpretazione, perché il modo in cui plasmiamo e alteriamo i ricordi richiede un lavoro di debunking di noi stessi e dei trucchetti dei Nostalgia Goggles.

Indagine, perché è probabile che, una volta là, aggirando il ricordo che ci piace ricordare, si celino verità scomode o anche semplicemente più interessanti, financo nuove. Come quando parti volendo ascoltare per la milionesima volta un disco di Haruomi Hosono e invece YouTube, di link in link, ti porta a scoprire musica fusion jappa vecchia ma per te totalmente inedita.

(Che bomba: un disco del 1981 totalmente nostalgico verso i ‘50/60 eppure totalmente eighties per concezione e sonorità. La catarsi del passato tramite l’estetizzazione della nostalgia GIAPPONESI VI AMOOOOO).

“Ma quindi?” Quindi io non sono un nostalgico.

Non più.

Non è bastato Watchmen, eh. Nemmeno Beretta.

È successo allorché mi sono trovato totalmente orfano. Tra una perdita e l’altra, è stata una notte oscura dell’anima, una ricerca necessaria e dolorosa. Non volevo ammettere che, semplicemente, perso il padre, ero terrorizzato di perdere anche la madre. Un conto alla rovescia ancora più grande e definitivo. Il baratro della solitudine che nessun figlio/bambino vorrebbe mai vivere. E invece deve. “La medicina è amara ma/Tu già lo sai che la berrai”. Glom. L’amaro calice della conoscenza. Quindi, una volta orfano, ecco che la paura più grande, quella di restare orfano, sparì. Forse, messa così, sembra un processo un po’ cretino, ma è quella cretinaggine delle fiabe zen, o almeno io l’ho vissuta così. Non mi dilungo in dettagli più personali perché questa non volle essere una confessione intima ma il bignamino di un’esperienza, di un possibile viaggio oltre i limiti della notte.

E puff! Che dolore immenso ma anche che leggerezza. Per una paura enorme che se ne va, mille altre s’affastellano, s’accapigliano per prenderne il posto, per diventare da piccole medie e da medie grandi e rubarti ancora una volta tutto lo spazio del cuore e del respiro. C’est la vie! Ma tra una paura vecchia e una nuova, se sei veloce, hai abbastanza buffer da costruirtela, infine, questa corazza che forse è l’unica vera forma di adultaggine che conosco. Una corazza per proteggerci da noi stessi, mica dall’esterno. Ma basta santonegggiare, Babich, direbbe probabilmente mia madre. Quante voci ci si ritrova dentro. Un coro poderoso. Una forza immensa.

“L'ultimo segreto della Divina Scuola di Hokuto, la Trasmigrazione attraverso Satori. Solo chi ha conosciuto il vero dolore è in grado di mettere in atto questa tecnica”

O almeno attraverso Satomi.

Quindi no: non sono più una vittima crogiolosa della nostalgia. Ora io comando il mio carnefice: ora uso la nostalgia.

Idem il mio compare Fabio Bortolotti, che insieme a me costituisce  il core (nel senso napuletano) del vieppiù magniloquente collettivo Kenobisboch Productions. Né io né lui riusciremmo mai a limitare la nostra passione per i videogame d’antan ad una prassi fine a se stessa. Ci tuffiamo nella memoria e poi rispuntiamo nel presente per combinare qualcosa. Divulgazione, creazione di musica col Game Boy o la chitarra o il piano o il cimbalom, creazione di giochini (ehh?), cazzeggio in streaming. E nemmeno voialtri retrogamer lo fate! Andate sui social e mettete le foto delle vostre collezioni, scrivete commenti, ogni tanto postate noncelafacciotroppiricordi.gif mortacci vostra ma è una minchiata, ce la fate benissimo, avete gli armadi pieni di ricordi e poi correte sui social a prendere una boccata d’aria, a interagire nel vostro presente anche se non ve ne accorgete.

Ecco. Retrogamer, passatisti, nostalgici assortiti, dovete semplicemente accorgervene. Che usate il passato in funzione del presente. Se mettete a fuoco questa realtà, potete servirvi di questa continua partita di ping pong tra passato e presente per proiettarvi felicemente verso il futuro che, stando a quanto sosteneva lo splashscreen Neo Geo, è adesso. Se considerate che per Baglioni anche la vita è adesso, è proprio il caso di concentrarsi sull’adesso. Detesto citare i Guns N' Roses, ma dovete usare la vostra illusione. Non viceversa. Una spruzzatina di nostalgia prima di uscire da voi stessi. E poi fate quel che vi pare. Esistere. Creare.

Guardate che Matt e Ross Duffer, con Stranger Things, hanno fatto esattamente questo. Con consapevolezza, hanno ri-creato. E siccome ogni ri-creazione è in realtà una nuova creazione, e visto che allo stesso tempo non c’è niente di nuovo sotto il sole, ora possiamo tutti terrorizzarci gioiosamente con il binge watching della seconda stagione. Ci ispirerà? Avrà il tipico effetto catartico degli “idioti dell’orrore”? E chi lo sa. Basta che state attenti. Occorre essere attenti. Per essere padroni di se stessi occorre essere attenti.

Fatelo per voi.

Postfazione

Chiedo scusa di una cosa: di aver sovrapposto in maniera violenta il significato di ”essere” e quello di “creare”. Ho presentato l’uso strumentale della nostalgia come una chiave buona per entrambe le serrature: per essere migliori e per creare opere migliori. Il fatto è che per me la serratura è una sola, ma mica è detto per forza. Quindi se non vi va bene, fate un bel un-read e passa la paura.

Dedica

A R.M., un tipo che sta bene attento, specialmente quando ascolta Nina Simone.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo