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La forma della voce fa piangere, ma nel modo giusto

Ecco, questo breve dialogo secondo me racchiude un po’ tutto il senso de La forma della voce (in originale Koe no katachi), lungometraggio d’animazione diretto dalla giapponese Naoko Yamada e tratto dal manga omonimo di Yoshitoki Ōima, che si fa carico del non facile compito di raccontare il passaggio dall’infanzia all’adolescenza all’ombra del bullismo che inquina le dinamiche scolastiche (in questo caso quelle Giapponesi, ma dove lo metti sta).

Appoggiato su due livelli narrativi, l’infanzia e la giovinezza dei personaggi, La forma della voce gira attorno al rapporto tra Shoya Ishida - prima bambino esuberante e problematico, in seguito adolescente solitario e tormentato - e la timida sordomuta Shoko Nishimiya, sua compagna di classe durante le scuole elementari, condannata dal deficit auditivo a vivere in costante isolamento, mortificata tra incomprensioni e scherzi crudeli. Lo stesso Ishida, non riuscendo a codificare e accettare i comportamenti della ragazzina, finisce per diventarne il principale aguzzino e spingerla a lasciare la scuola. 

Dopo il trasferimento di Shoko, tuttavia, Shoya finirà col pagare le conseguenze del suo comportamento, venendo marchiato come bullo per tutto il periodo delle medie e delle superiori, sperimentando a sua volta situazioni di isolamento e di abbandono, che lo poteranno a sviluppare un forte disturbo d’ansia, pratiche di evitamento, e persino a sfiorare il suicidio (per i maniaci dello spoiler: tutta questa roba si vede nei primi minuti di film, e comunque NON È IL PUNTO). 

Toccato il fondo e costantemente tribolato per il suo passato, uno Shoya ormai diciottenne deciderà di andare alla radice dei propri guai mettendosi alla ricerca di Shoko, con la speranza di rimediare in qualche modo ai propri errori.

Shoko al suo primo giorno di scuola.

Proprio partendo dal complesso rapporto tra Shoya e Shoko, La forma della voce affronta il tema del bullismo e della prevaricazione prendendo il toro per le corna, senza esprimere giudizi, senza retorica e fuori da ogni cliché, ma semplicemente pennellando su schermo il vissuto quotidiano di personaggi fragili, umani, fallibili, principalmente schiacciati dall’incapacità di comunicare. Proprio la sordità di Shoko in questo senso è indiziaria, ma non è l’unica variabile cruciale: il film, passando in rassegna tutto il materiale umano che pian piano sboccia attorno alla coppia di protagonisti, prova a mostrare allo spettatore molte delle possibili sfumature dell’incomunicabilità che possono inficiare la vita dei bambini, degli adolescenti e persino degli adulti. Gli stessi adulti - genitori, insegnanti - che sulle prime tentano con sinceri compassione e impegno di approcciare nel modo più corretto l’handicap di Shoko. Solo che, semplicemente, alle volte il “modo più corretto” non esiste. Soprattutto non esistono protocolli sicuri adatti a qualsiasi circostanza. Conseguentemente, gli errori involontari di educatori e studenti, mescolati alla nota competitività del tessuto scolastico giapponese, finiranno per corrompere i rapporti interni alla classe, innescando gelosie, malignità e piccole vendette. La tesi del film, per quel che mi è parso di capire, è che i bambini, alle volte, finiscono col perdere il senso della misura e cedono a comportamenti apparentemente crudeli semplicemente perché non hanno strumenti per decifrare situazioni complesse. Così, messi alle strette, risponderanno solo all’istinto e alla paura dell’autorità.

L’opera di Naoko Yamada è distante anni luce dagli stereotipi e dalla retorica di un Tredici proprio perché si tiene alla larga dai giudizi, ma cerca piuttosto di decifrare i meccanismi più profondi della natura umana, e di trovare le molle che la spingono verso il “male”. E lo fa senza eccessi didascalici; mettendo al primo posto le emozioni, sforzandosi di agganciare lo spettatore e di farlo partecipare di pancia alle tribolazioni e alle angosce dei suoi personaggi. Questo registro narrativo (su Wikipedia leggo che Naoko Yamada è una grande fan del metodo Strasberg/Stanislavskij, che incoraggia la massima partecipazione emotiva di un attore o di un autore nei confronti dell’opera che ha per le mani) finisce col funzionare piuttosto bene, intercettando e scaldando l’animo dello spettatore.

Raramente durante la visione di un film mi è capitato di sperimentare una sintonia così ferma con i personaggi in scena, di afferrare così bene il senso dei loro turbamenti, delle loro esitazioni e dei loro imbarazzi. La forma della voce mi ha fatto viaggiare indietro nel tempo, ricordandomi aspetti dell’adolescenza che avevo quasi dimenticato, come l’ansia di essere parte del branco o l’imbarazzo di fronte a una dichiarazione d’amore maldestra. Ma non solo. È riuscito anche ad avvicinarmi, nei limiti del possibile, a circostanze che non ho mai sperimentato di persona - perlomeno non a livello realmente patologico - come gli attacchi di panico o la paura della folla e dei rapporti umani. Durante una sequenza, sono quasi stato male. Io, che in genere sono una maschera di ghiaccio (ma col cuore in fiamme, evidentemente).

Altro che quell'hipsterata di Tredici.

Evocando uno spettro di emozioni così genuine, il film riesce senz’altro a farsi perdonare i suoi pochi difetti: qualche piccola calata di ritmo qua e là, qualche indecisione nell’alternanza tra le linee narrative e almeno un paio di personaggi che, forse, avrebbero meritato più spazio (ma va da sé che stiamo pur sempre parlando dell’adattamento di un manga, e senz’altro sarà calata la forbice sulla sceneggiatura). Nessuno di questi difetti inficia comunque il valore generale dell’opera, anzi: dalle premesse iniziali sboccia una storia complessa e niente affatto scontata, a tratti spiazzante nel suo essenziale realismo. Vuoi perché ormai il periodo delle elementari e del bullismo giovanile è molto lontano dal mio presente (e comunque il passato si tende sempre a incensarlo lasciando a spasso le crudeltà, a patto che non siano state davvero segnanti), vuoi perché il cinema e la letteratura nel corso degli anni sono stati infestati da moltissimi stereotipi - spesso anche validi, funzionali ai fini dei racconti, ma pur sempre stereotipi - che hanno finito col mescolare realtà e finzione, viziando un po’ l’immaginario collettivo attorno al bullismo (di nuovo: Tredici).

Lo stile e l’animazione, pure, fanno di tutto per servire i sentimenti, puntando molto sui colori e sull’espressività dei volti. Poi, parlando a titolo del tutto personale, non ho apprezzato fino in fondo alcune scelte di caratterizzazione: nella mia grassa ignoranza, tendo a preferire un tratto meno pulito. Ma insomma, son gusti. Nel complesso, ho trovato che la realizzazione artistica facesse di tutto per stare sempre un pelo “indietro” rispetto alla storia, con discrezione, al netto di alcune trovate linguistiche piuttosto forti - le croci barrate sui volti dei personaggi - che funzionano molto bene.

Queste croci qui.

Insomma, per l’ennesima volta ho scritto di una roba che mi è piaciuta e che consiglio (mi dicono spesso che son di manica larga; oh, sarà: ma che ci posso fare se imbrocco i miei gusti?). Come ho detto, La forma della voce racconta il bullismo senza manicheismo, senza andare a caccia di colpevoli, ma cercando di vedere le cose anche dal punto di vista di chi, per debolezza o per errore, fa la cosa sbagliata e ne paga le conseguenze oltre il dovuto. Il film, purtroppo, è circolato nelle sale soltanto per un paio di giorni, ma è probabile che Nexo Digital decida di rilanciarlo attraverso qualche replica (e alla brutta, oh, prima o poi uscirà in Blu-Ray/DVD).

Ho visto La forma della voce due sere fa per merito dell’impegno distributivo di Nexo Digital, che da qualche anno a questa parte si sbatte per portare nei cinema l’animazione giapponese oltre Miyazaki. Giocoforza, ho avuto a che fare col doppiaggio italiano. Amen. Come ho ben scritto, il film mi è piaciuto molto, e il mio commento su Letterboxd è senz’altro più eloquente di tutta la recensione di qui sopra: “Parlando di bullismo e sentimenti (La forma della voce) prende la serie Tredici e la butta in un pozzo profondissimo con legata alla caviglia una cassaforte di cento chili ripiena di merda”.