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eXistenZ #48 – E niente, con Resident Evil: The Final Chapter ci siamo ufficialmente giocati il migliore degli Anderson

eXistenZ è la nostra rubrica in cui si chiacchiera del rapporto fra videogiochi e cinema, infilandoci in mezzo anche po' qualsiasi altra cosa ci passi per la testa e sia anche solo vagamente attinente. Si chiama eXistenZ perché quell'altro film di Cronenberg ce lo siamo bruciato e perché a dirla tutta è questo quello che parla proprio di videogiochi.

Quel che penso della serie di film dedicati a Resident Evil e dello zarro che ne ha fatto da forza creativa potete scoprirlo in questo agile articolo da me vergato ormai troppi anni fa, con appendice apposita in un vecchio episodio di questa rubrica dedicato a Resident Evil: Retribution. Volendo farla breve: per me i film di Paul W.S. Anderson sono forse i migliori adattamenti cinematografici di videogiochi che si siano mai visti, perché sinceri, onesti, figli di amore per la fonte a cui si ispirano ma comunque carichi di personalità propria, orgogliosamente cretini e privi di alcuna vergogna, senza nessun bisogno di mascherare l'idiozia di fondo da cui nascono dietro improbabili operazioni seriose. Sono delle trashate semplici, dirette, divertenti, che credono in quello che fanno e, oltretutto, hanno dalla loro un regista dalle idee chiare, zarro e semplice quanto vuoi, ma che gira l'azione in maniera chiara e pulita, piazza il rallenti al posto giusto, senza vergogna, esagerando quanto basta, riesce sempre a trovare qualche immagine sorprendentemente bella, ti mette lì, fra una zarrata e l'altra, idee che non ti aspetteresti e, insomma, porta quasi sempre a casa il risultato. I suoi film hanno una pacca infinita, sfruttano il 3D come quasi nessuno e sono divertenti in quel che conta. Sono, fra l'altro, palesemente tutti adattamenti di videogiochi, anche quelli che "ufficialmente" non lo sarebbero (dai, il suo I tre moschettieri è un Assassin's Creed troppo più bello e divertente di quello vero, per non parlare delle gare da videogioco di Death Race). Inoltre, riescono sempre a riprodurre l'atmosfera, la sostanza, il cuore del gioco originale, senza rinunciare a un'identità propria. Insomma, a me mi piace.

Un paio di settimane fa, quando è uscito dalle mie parti (in Italia ci arriva dopodomani), sono andato al cinema per il nuovo e (teoricamente) ultimo episodio della serie, quello con cui Paulino bello conclude le vicende della sua mogliettina Milla/Alice e piazza un punto esclamativo al termine di una saga che ha creato e condotto per mano in produzione e sceneggiatura, oltre ad aver diretto quattro film su sei. Le premesse, quando il film è stato annunciato, erano da sboronata finale: un cast che avrebbe incluso tutti i vari personaggi pescati dai videogiochi e apparsi nei precedenti film (Chris, Jill, Claire, Leon più varie ed eventuali) e una storia stile “Tutti contro il macello”. In realtà poi le cose sono andate in un’altra direzione, l’unico vero ritorno in quel senso è quello dell’ormai veterana Claire Redfield interpretata da Ali Larter (c’è anche Albert Wesker, ma in un ruolo minorissimo) e il cuore del film sta nella conclusione della lotta fra Alice e il dottor Isaacs di Iain Glen. Che poi, in fondo, è anche giusto: è la storia raccontata da questi sei film.

Al di là di questo, Resident Evil: The Final Chapter fa anche lo sforzo di andare a chiudere quel pastrocchio di fili narrativi lasciati aperti nei vari episodi della serie, per altro passando una mano di bianchetto su gran parte di quanto visto nel secondo e terzo film per riscrivere in maniera più coerente (si fa per dire) il racconto globale. Ma nella sostanza, tutto questo si traduce in cinque minuti di trama all’inizio, un paio di brevi spiegoni verso la fine e quasi cento minuti di azione sfrenata, totale, a base di belle gnocche che menano mostri sempre più assurdi e cretini e di un ritmo che, forse, nel precedente episodio era andato un po’ perso. Bene, no? Cento minuti di Milla e Ali che prendono a testate zombi mutanti, cani mutanti, morti mutanti, mostri mutanti, giganti mutanti, virus mutanti, mutanti mutanti e shotgun mutanti, con attorno a loro un cast di carne morta in divenire. Messe giù così, paiono le premesse per il film più adorabilmente scemo e scatenato della serie, forse il più bello punto e basta. Eh.

Il problema è che Paul William Scott Anderson è invecchiato. Ha superato i cinquant’anni, è adagiato fra le braccia di Milla, ha una figlia tanto carina, si è divertito come un matto. Per tanto tempo ha tenuto bella alta la bandiera del cinema d’azione tamarro in cui si lavora di montaggio ma non si rinuncia a inquadrare l’azione in maniera chiara e ampia, si esagera col rallentatore ma lo si fa nella maniera corretta (ciao, Zack Snyder) e si vuole tanto bene al calcio volante. Bonus: la pacca che c’ha il suo uso del 3D, con quelle profondità di campo senza alcun senso, ce l’ha forse solo James Cameron, che però fa il regista intelligente e quindi non vale. Il problema, dicevo, è che quel Paulino lì, in Resident Evil: The Final Chapter non c’è.

Torna invece quello di Pompei, che speravo fosse un incidente di percorso e invece no. Torna quindi il Paulino che si è lasciato sedurre dal montaggio iperfrenetico, parkinsoniano, insopportabilmente alla non ci sto capendo un cazzo, del cinema d’azione moderno. Colpa di Paul Greengrass e del successo di film in cui Liam Neeson e colleghi sessantenni utilizzano la sala di montaggio al posto degli stuntman. Colpa della convinzione che quel genere di frenesia renda l’azione più coinvolgente e viscerale. Non so, forse colpa di Donald Trump. Fatto sta che ho trascorso cento minuti a cagare sangue dalla disperazione, esaltato dallo stare davanti a un film che sparava tutto a mille in quella maniera, depresso dalla decisione di rovinarlo in quella maniera. Insomma, Resident Evil: The Final Chapter è la mia prima grossa e cocente delusione cinematografica del 2017. Oh, poi, sticazzi, eh, me ne sono fatto subitissimo una ragione. Però che peccato. Se invece siete fan dell’action con la tremarella, magari sarà il vostro film dell’anno. Vai a sapere.