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L'avventura è il sale di World to the West

Conservo un ottimo ricordo di Teslagrad, un gioco che arrivò quasi sottovoce e in punta di piedi. Al netto di qualche incertezza si rivelò un ottimo metroidvania, genere per cui ho una sorta di affinità elettiva. A distanza di oltre tre anni, ecco che Rain Games riparte da World to the West e cambia completamente registro. La prospettiva bidimensionale del passato lascia spazio a un presente all'insegna del low poly, estetica di un titolo in bilico fra The Legend of Zelda e The Lost Vikings. Un concept sulla carta stuzzicante, smarritosi purtroppo in un dedalo di buone intenzioni.

Le vite di quattro avventurieri – e c'è perfetta parità fra i sessi – si intrecciano a più riprese, in un racconto che si dipana a piccoli passi. A tessere le fila ci pensa una canuta signora, una narratrice onnisciente e preoccupata per le sorti del mondo, un gigantesco continente che si regge su un delicato equilibrio. A meno che qualcuno non intervenga, tutto rischia di franare sotto il peso di un magnate senza scrupoli, un Cuordipietra Famedoro sotto steroidi. La compagnia proverà a renderlo inoffensivo, ma non sarà affatto facile. La fiaba è suddivisa in capitoli, frammenti di una storia che nelle prime battute rimbalza fra un protagonista e l'altro, prendendosi tutto il tempo necessario per caratterizzarli. A ogni personaggio corrisponde un diverso stile di gioco: il piccolo Knaus è il maestro dello stealth, Miss Teri piega la fauna al suo volere, Lord Clonington rende omaggio al buon Haggar e Lumina vive di corrente alternata. L'anello debole della catena è rappresentato dal gigante in salopette, sfortunata zavorra. Quando il forzuto entra in scena, World to the West si trasforma in un hack 'n' slash derivativo, uno sciatto tambureggiar sui tasti del joypad che regala sbadigli a profusione.

World to the West ha un sviluppo molto lineare, la sua è una progressione lenta ma costante. Il gioco si apre a ventaglio in prossimità del crescendo, nell'istante in cui i protagonisti uniscono le forze e prendono coscienza del loro destino. Come si può intuire, le loro debolezze si compensano e il gioco poggia su questo meccanismo. Le tante barriere – la aree inaccessibili incontrate fino a quel momento – iniziano a tremare e il backtracking diventa una costante. A renderlo meno tedioso ci prova un sistema di teletrasporto, basato su una serie di totem interconnessi. Ricordano i falò di Dark Souls e funzionano allo stesso modo: un personaggio può accedere esclusivamente alle aree già visitate, una limitazione che ha il suo perché. Far convergere tutta la compagnia in un punto specifico della mappa, magari nelle vicinanze di un puzzle corale, richiede pazienza e un approccio quasi metodico. Conviene spedire un eroe in avanscoperta, per poi passare il testimone ai suoi compagni di viaggio, fino a ricompattare il gruppo. Il tragitto non è mai lineare, le deviazioni sono all'ordine del giorno e spesso si incappa in qualche vicolo cieco.

In principio quasi didascalico, World to the West si fa criptico nelle ultime battute, una soluzione di design a mio avviso piuttosto opinabile. Senza preavviso, una serie di oggetti ritenuti fino a quel momento superflui assume un ruolo chiave nell'economia del gioco. Si tratta di alcuni manufatti, tavole illustrate che Rain Games ha sapientemente nascosto fra alture, pianure desertiche e dedali del sottosuolo. Le incisioni illuminano il cammino, spalancando le porte della quest conclusiva: la collezione si compone di trentasei pezzi, quindici dei quali sufficienti a ottenere l'agognato lasciapassare. L'ubicazione dei preziosi è del tutto sconosciuta e si procede alla cieca, manca persino un sistema di sonar à la The Legend of Zelda: Breath of the Wild su cui fare affidamento. Senza perdermi d'animo, sono ritornato più volte sui miei passi, dando il là a una trafila che si è fatta progressivamente snervante, al punto che stavo quasi per arrendermi. Fortuna vuole che mi sia imbattuto in un provvidenziale NPC, che a suon di rupie mi ha indicato sulla mappa la posizione dei restanti manufatti. Non riesco davvero a capire perché World to the West si faccia di colpa così ottuso. Passi il voler alzare l'asticella, ma uno straccio di indizio sull'esistenza di questo salvatore – per inciso ne ho incrociati un paio, sempre per puro caso - mi avrebbe risparmiato un sacco di nervoso.

Questa idiosincrasia e le sezioni per nulla ispirate fanno di World to the West un gioco troppo discontinuo, nemmeno fosse bipolare. Gli stessi problemi si riscontrano a livello di codice, con una casistica piuttosto variegata: un bug in particolare mi ha costretto a cancellare il salvataggio e ripartire da zero, gettando al vento quattro ore di gioco. Le segnalazioni sul forum di Steam non mancano, sintomo che c'è ancora un enorme margine di miglioramento. Per dovere di cronaca, Rain Games ha già distribuito alcune patch, che hanno in parte sortito l'effetto sperato.

L'estetica è sì low poly, ma non mancano i dettagli.

Al netto di questi difetti, c'è un velo di rammarico: sono spiacente, ma World to the West non regge il confronto con Teslagrad, il divario fra i due è troppo netto. I cali di ritmo, la caratterizzazione superficiale e le ottusità di design zavorrano un gioco con qualche spunto interessante, ma nulla più. Punirlo severamente sarebbe ingiusto, anche perché non se lo merita. Così com'è, si colloca nel limbo, nella dimensione del “vorrei ma non posso”.

Ho giocato a World to the West grazie a un codice fornito dallo sviluppatore, optando per la versione PC. Lo trovate anche in formato PlayStation 4 e Xbox One. L'edizione per Wii U manca ancora all'appello e ipotizzo che il gioco verrà dirottato su Switch, ma questa è una mia previsione. Prima di stilare la recensione, ho accumulato 16 ore di gioco, un dato in parte falsato dal bug che mi ha costretto a ripartire da zero. Per la cronaca, ho collezionato ventisei manufatti e forse in futuro ne completerò la collezione. Il test è stato condotto su un sistema dotato di processore AMD FX 8320, 8 GB di RAM e una scheda video AMD Radeon R9 270X.