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L'addio a Paolo Villaggio e ad un pezzo d'Italia

Quella che segue non ha la velleità di essere un’esegesi completa, e magari anche dai tratti beatificanti, come tante se ne stanno leggendo in queste ore, su Paolo Villaggio. È semplicemente un pensiero, un ricordo su un personaggio transgenerazionale. Dire che Fantozzi è entrato, fin dal suo debutto, nella cultura pop italica potrebbe risultare un po’ retorico, soprattutto se affermato, come in questo caso, dopo la morte dello stesso Villaggio. Però è così, non lo si può negare. La cosa più tragica, aggettivo che è peraltro divenuto epiteto per il suo personaggio, è che Villaggio, di Fantozzi, divenne quasi prigioniero, legato indissolubilmente ai suoi tratti, tanto da reiterarli anche in pellicole totalmente esterne alla saga del ragioniere più famoso d’Italia. Eppure, nel bene e nel male, quello che gli ha permesso di conquistare la popolarità in Italia è stato proprio Fantozzi. Senza Fantozzi, non ci sarebbe stato Paolo Villaggio, come lui stesso ha ricordato a Che tempo che fa in un’intervista di qualche tempo fa.

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Il merito più grande, di Fantozzi e di Villaggio, è stato non solo quello di leggere perfettamente l’allora società contemporanea – un’Italia che cavalcava ancora sull’inerzia del boom economico e in cui il posto fisso era una certezza connaturata da miriadi di sfaccettature – ma, soprattutto, quello di aver creato un immaginario intriso di un glossario che, anche a distanza di più di quarant’anni dal suo debutto cinematografico, è ancora indissolubilmente legato alla lingua nostrana. Quante battute dei vari Fantozzi sono ancora oggi delle frasi idiomatiche? Tante, tantissime, e forse risulterebbe anche stucchevole citarle tutte. Claudio Giunta, filologo e accademico, ha approfondito l'argomento in questa raccolta di saggi. E cosa c’è di più bello, per uno scrittore (ricordiamo che Fantozzi è stato innanzitutto un personaggio di un romanzo pubblicato, dallo stesso Villaggio, nel ’71 e solo nel ’75 ha avuto la sua prima trasposizione cinematografica), di entrare, col mezzo delle proprie parole, all’interno della cultura di una popolazione intera? Poco altro, forse. Magari a Villaggio nemmeno interessava, questa cosa. Anzi, è probabile, considerando anche il suo personaggio extra-fantozziano. Una mia amica, tirocinante di infermieristica a Roma, qualche anno fa lo assistette dopo un malore notturno. “Quindi, che tipo è Paolo Villaggio?”, le chiesi. E lei mi rispose facendomi letteralmente piegare in due dalle risate. “Un porco incredibile. Ma simpaticissimo, eh, e pure tenerone. Quella sera, a parte la tragicità della cosa, ci siamo spaccati dal ridere”.

Attorno alla vita di Villaggio, a parte Fantozzi, c’è molto di romanzato. Un figlio problematico, per cui si è speso tantissimo, ma anche quel classico cinismo di fondo che spesso nasconde un animo buono. C'è poi il capitolo Fabrizio De Andrè, con cui ha condiviso, oltre che momenti di fraterna intimità, anche e soprattutto Genova, città natale di entrambi. In una delle sue tante interviste, spontaneo com’era nella sua artificiosità, Villaggio di lui disse che “era un divertente cialtrone che non andava a letto mai prima delle sette di mattina, spaventato dalle donne, da qualunque esame e dalla prospettiva di insuccesso”. Così, sempre a metà fra il serio e il faceto; esattamente come Fantozzi. Che ironia.