Outcast

View Original

I (nostri) migliori anni del videogioco: Se vi sorbite i miei pipponi è colpa del 2009 e del sistema universitario italiano

Come raccontava l'altro giorno Natale, come ogni passione, anche quella per i videogiochi può vivere momenti di intensità variabile, con vampate voraci e attimi di assopimento. A volte può trasformarsi in qualcos’altro, in un amore nostalgico e latente, in un ricordo bellissimo, o in un sentimento più profondo e radicale. C’è sempre, comunque, un momento di rottura, e il mio corrisponde al 2009, un anno intenso che, col senno di poi, ha cambiato drasticamente l’indirizzo della mia vita. Era l’anno della tesi di laurea triennale, in fin dei conti una formalità, ma  per diversi motivi finì per diventare un progetto di ricerca più difficile del previsto. Motivazioni per lo più personali, nonché la necessità di coniugare gli studi con il lavoro - all’epoca, nel mondo del web design e della progettazione grafica - ma anche in virtù di una modifica nelle mie abitudini ludiche. Scegliere di fare un lavoro di tesi sui videogiochi rappresentava un atto d’amore verso la mia passione più grande, ma anche un tentativo di dare un senso nuovo a un passatempo che mi aveva dato tanto, ma che in quel periodo riusciva a conciliarsi meno con la mia vita, un po’ per questioni di tempo, un po’ per una latente insoddisfazione che non capivo cosa fosse e che, inevitabilmente, finì per riversarsi anche sul progetto di tesi.

Non sono mai stato una persona ansiosa, né ho mai avuto problemi a gestire la pressione, soprattutto quella relativa allo studio, eppure in quel periodo avevo difficoltà a trovare una distanza precisa dal medium, che potesse trasformarsi in qualcosa che unisse efficacemente l’antropologia contemporanea (che era comunque la materia di base da cui sarebbe partita la mia analisi), gli studi sui videogiochi e la mia passione stessa. Senza dilungarmi e sbrodolarmi troppo oltre sulla tesi, che tanto potete leggere qui, se proprio siete masochisti, il mio 2009 videoludico fu davvero simbiotico del mio anno personale, e nonostante una qualità media dei titoli molto alta, cominciò davvero in autunno, quando il percorso della mia tesi trovò un senso e iniziai a unire i fili tra Henry Jenkins e l’antropologia strutturale. Nel momento in cui cominciò a cambiare il mio sguardo sui videogiochi, sui significati che i modelli di rappresentazione degli ambienti virtuali possono avere e su tanti altri piccoli dettagli, iniziò un periodo di folle ebbrezza, sia accademica che ludica. Fu come dare voce a una parte di me che fino a quel momento non aveva avuto gli strumenti per articolare un discorso, come se tante osservazioni, riflessioni e pensieri già fatti prima di quella data avessero finalmente senso. In realtà magari no, o magari, tutto sommato, avrei vissuto anche meglio senza quel senso di completezza. Però, ecco, se dovessi raccontare la mia versione dell’epifania di Joyce, racconterei questo aneddoto, o almeno ci proverei fino a trovarmi da solo nella stanza con un bicchiere in mano, probabilmente.

Non è un caso, forse, se tre dei giochi che ricordo ancora oggi con maggiore intensità e affetto nella mia vita siano usciti in quell’autunno, benché solo uno in fin dei conti mi sarebbe servito come case study per la tesi, ovvero Dragon Age: Origins. Col senno di poi, il primo titolo della saga fantasy di Bioware è un gioco molto meno epocale di quanto non mi sembrò all’epoca, eppure, preso com’ero dal concetto di mito, fui totalmente rapito dal patchwork realizzato per creare l’ambientazione del Thedas, tanto che mi andai a leggere più o meno qualunque cosa su Andraste, così come qualsiasi occorrenza relativa alla magia del sangue. Dal punto di vista più emotivo, Dragon Age: Origins mi regalò anche un fantastico momento di storia collettiva: al di là dell’importanza analitica di alcune sequenze del gioco, il concetto di origine (ripreso e sviluppato meglio rispetto a Il tempio del male elementale) e quei fantastici attimi intorno al fuoco mi conquistarono in maniera totale, soverchiante. Poco male se poi a volte le conversazioni tra i personaggi erano di un grezzo che levati, perché l’atmosfera generale di complicità e di gruppo di quel party sgangherato mi è rimasta davvero nel cuore.

Ci sono tanti aneddoti relativi a Dragon Age: Origins che, personalmente, per importanza, superano la qualità (comunque ottima) del gioco in sé, e vanno dai dibattiti su Morrigan con amici e colleghi al bar, fino al valore assoluto della scelta di fuggire dalla crescente mania open world (sì, già nel 2009) per privilegiare ambienti più chiusi e favorire lo storytelling, ma il migliore probabilmente resta quello relativo a alle nottate passate totalmente in bianco davanti allo schermo, con un genitore random che scende le scale di casa per andare a fare colazione e mi trova in salotto ancora a giocare, guardandomi con aria contrita. Poter dire loro, con aria seria e impegnata: “Sto lavorando alla tesi” ha segnato l’inizio di una fantastica storia di abnegazione, che mi permette oggi di dire “sto lavorando” con la stessa aria impegnata. Sono traguardi.

Quell’autunno, però, portò sulla mia PlayStation 3 l’unico gioco che io abbia platinato con vigore e perentoria volontà, ovvero Assassin’s Creed 2. Il primo capitolo l’avevo finito in un anno e passa di gioco sbocconcellato, perché, diciamo pure la verità, nonostante il concept fosse una figata spaziale, dopo un po’ diventava una palla al cazzo non indifferente. Il secondo capitolo, pur sacrificando un po’ di presunta serietà sull’altare dello swashbuckling e dello spettacolo più caciarone (e, tutto sommato, resto dell’idea che sia stata una grande scelta), per quanto mi riguarda rappresenta uno fra gli esempi più equilibrati e meglio riusciti di tripla A: un concetto di gioco ancora originale per l’epoca, un open world pieno ma non stracolmo di cose da fare, un ambiente di gioco meraviglioso (va detto che l’Italia rinascimentale aiuta), un ritmo incalzante e un protagonista figo al punto giusto da non risultare troppo fastidioso. Poi, certo, ci sono chiavi di lettura meta-storiche e ludiche sull’Animus e la serie che la metà basta, ma il succo è che mi godetti l’avventura fino all’ultima, inutilissima, piuma, con una scimmia che mi è bastata a sorbirmi anche la discutibile parentesi americana della serie. Inizio quasi a pensare che il 2009 mi abbia creato più casini e perversioni che altro, ma vabbè.

Sul podio di quell’autunno, poi, c’è di sicuro DiRT 2 di Codemasters, che ancora oggi resta per me uno fra i simcade migliori che la storia dei racing game ricordi, grazie a un lavoro a dir poco avveniristico, per l’epoca, sull’interfaccia e il modo di rivolgersi al giocatore, cambiando per sempre l’UX nel mondo dei giochi di guida. Brutalizzando e distruggendo tutto ciò che c’era prima, Dirt 2 ti dà del tu, ti chiama per nome e ti mette al centro di un universo che fa di tutto per sembrarti credibile, con una sua logica e coerenza. Fondamentalmente, è l’attualizzazione definitiva di quanto già fatto con Race Driver prima e GRID poi, ma in Dirt 2 c’è uno sforzo maggiore per mettere sullo stesso piano e in maniera significativa l’esperienza estetica e quella di guida. Il risultato è clamoroso, e se oggi esiste Forza Horizon, secondo me, lo dobbiamo molto anche alla Codemasters del 2009.

Scorrendo, oggi, la lista degli altri giochi usciti quell’anno però, vengo travolto da frammenti di ricordi e immagini molto nitide. Molte sono filtrate dalle categorie che emersero nel corso di quel percorso di analisi, e magari in quel momento manco mi accorgevo di quanto stesse succedendo, però vale la pena di rammentarle, anche semplicemente per fare una panoramica sugli altri giochi, anche più importanti dei tre citati: Skate 2 non aveva la stessa carica innovativa del primo episodio, ma analogamente al primo episodio, ricordo ancora il mio utilizzarlo come campionario di abbigliamento da cercare in giro sui siti web, tanto che ancora oggi ho un paio di Nike SB che ho visto prima nel gioco; Mirror’s Edge, col senno di poi, è stato uno fra i giochi che mi sono piaciuti di più di quel periodo, grazie a quella magnifica sensazione di vuoto nello stomaco che precedeva ogni salto e a quel senso di libertà fintissimo ma meraviglioso che il seguito, purtroppo, non è riuscito a replicare fino e in fondo; ad Uncharted 2: Il covo dei ladri, che svetta nella classifica di Metacritic di quell’anno, ho giocato soltanto nel 2010, ma fino all’arrivo del quarto episodio della saga di Drake resta l’esperienza avventurosa in senso stretto migliore che abbia mai fatto nella mia carriera di videogiocatore, e la meraviglia di vagare nel villagio tibetano mi scalda ancora il cuore. In quell’anno, invece, rimasi totalmente estraneo e alieno al fascino di Bayonetta e Demon’s Souls, ma se il mio rapporto col primo fu drammaticamente influenzato dalla bruttissima edizione PlayStation 3 e ha trovato poi una pace assolutamente idilliaca culminata con la recente e goduriosa versione PC, con l’universo dei Souls ancora non ho trovato sintonia, e Demon’s Souls, a dire il vero, non l’ho manco mai provato. Di contro, però, il 2009 era anche nel pieno degli anni d’oro delle serate con gli amici alla console, con Wii Sports Resort col Wii Motion Plus e le sfide a tiro con l’arco che monopolizzavano intere nottate, intervallate dalle strimpellate a Guitar Hero: Metallica e The Beatles: Rock Band, con cataloghi di canzoni infinite, tanto quante le risate per un Just Dance che faceva il suo esordio nei salotti di tutti il mondo, e che nel mio ancora oggi resiste con estrema dignità. Anni di università e di feste, durante i quali videogiochi iniziavano a diventare sempre più inclusivi e protagonisti di momenti di idiozia collettiva senza confini.

Tornando seri, il 2009 e in particolare la sua parte finale, che andava di slancio verso il 2010 (anno della laurea), ha rappresentato un periodo fondamentale per me, che ricorderò per tutta la vita come l’inizio di un viaggio che mi ha portato a guardare il medium con occhi diversi, o semplicemente ha fatto sì che la mia percezione dei videogiochi cambiasse e trovasse la sua forma definitiva. Una forma che, otto anni dopo, è diventata parte integrante della mia vita, tanto da essere un lavoro a tempo pieno. Probabilmente, se il 2009 fosse andato diversamente, adesso sarei bello, ricco, famoso, e invece la tangente presa in quell’autunno ha deviato completamente il corso della mia vita, al prezzo della ricchezza e della fama. Oltre alla bellezza è rimasto, però, quell’amore incredibile nei confronti dei videogiochi come strumento espressivo, che mi porta ancora a leggere (sempre troppo poco) e scrivere cose senza senso ma con tanto cuore, come l’articolo che coraggiosamente avete letto fin qui.

Il 1998 riassunto in maniera arbitraria e incompleta: Batman: Arkham Asylum, Assassin's Creed 2, Bayonetta, The Beatles: Rock Band, Borderlands, Brutal Legend, Canabalt, Demon's Souls, DiRT 2, Dragon Age: Origins, Guitar Hero: Metallica, Halo Wars, Infamous, Just Dance, Killzone 2, Left 4 Dead 2, Mirror's Edge, Prototype, Resident Evil 5, Skate 2, Street Fighter IV, Trials HD, Uncharted 2: Il covo dei ladri, Watchmen: The End is Nigh, Wii Sports Resort.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.