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Racconti dall'ospizio #118: Black Tiger, il Dark Souls del 1987

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Quando il benigno signore della fortezza della solitudine (o, insomma, di Outcast) mi ha proposto una lista di titoli di cui parlare per la Cover Story su Ready Player One, era quasi predestinata la direzione in cui sarebbe andata la mia scelta. Un’orbita inevitabile, che ha spinto le mie dita sulla tastiera con un misto nebuloso di gioia, tristezza e ricordi che una persona più saggia di me ha sapientemente saputo riassumere nel termine “amarcord”.

Black Tiger (o Black Dragon) è stato, assieme a Cadillacs and Dinosaurs, il cabinato che più ha avuto un significato e un impatto nella mia infanzia. Era in un piccolo bar di un paese minuscolo chiamato Guarcino, meta occasionale e serale dei miei genitori, che mi dotavano di monete da duecento lire che accoglievo con la stessa solennità di Frodo quando riceveva per la prima volta l’Unico Anello. Armato di quei piccoli dischi di metallo, mi gettavo nell’esplorazione di dungeon abitati da mostri e trappole spietate, nel tentativo ingenuo e fallimentare di andare avanti, di sbloccare equipaggiamento migliore, di diventare “più forte”.

Il me stesso di neanche dieci anni non aveva speranza alcuna di sopravvivere, in quello che potrebbe venire definito senza troppi dubbi come un precursore di Dark Souls in 2D: atmosfera tetra, mostri temibili e letali, trappole che in molti casi portavano alla morte istantanea, ma al tempo stesso un sistema di crescita del personaggio che per l’epoca era decisamente innovativo e praticamente inedito in un cabinato, anni prima che uscissero titoli come Knights of The Round o Tower of Doom.

L’avventura non offriva molto dal punto di vista di una trama, ma è nell’esplorazione che si trovava un design più che convincente. Slegandosi dai platform e dai picchiaduro dell’epoca, Black Tiger metteva il giocatore nei panni di un guerriero in armatura alla ricerca di oggetti, chiavi per aprire scrigni e occasioni per potenziare il proprio equipaggiamento in negozio. Sembrerebbe facile, se non fosse che poteva capitare di rischiare la vita per recuperare una chiave, andare ad aprire uno scrigno sperando contenesse oro… solo per veder fuoriuscire dallo scrigno delle letali fiammate che, se non evitate, potevano anche decretare la fine della partita. Come se non bastasse i livelli erano pieni di piattaforme che richiedevano salti millimetrici, pena la morte del personaggio, e i nemici erano tutti quanti piuttosto resistenti e subdoli. Non mancavano passaggi segreti, tesori nascosti dietro muri illusori, tutte caratteristiche che spingevano a esplorare i livelli a fondo.

Ah, le mitiche (?) conversion U.S. Gold dei giochi Capcom!

Rimettendoci mano, il problema principale del gioco, fondamentalmente, sta in quanto è invecchiato. Dal 1987 a oggi, ci sono stati passi avanti enormi, anche semplicemente nel modo in cui si gestisce un picchiaduro esplorativo, e immagino che al giorno d’oggi, se si ha voglia di provare un gioco simile, sia più per curiosità o completezza storica. Se si riesce a superare una realizzazione tecnica che ormai è definibile unicamente come superata (ed è una definizione generosa), quello che si ha tra le mani è uno tra i giochi d’esplorazione fantasy più brutali e al tempo stesso complessi che siano usciti in quel periodo.

Se la grafica e il livello tecnico sono però un ostacolo insormontabile, mi permetto di segnalare altri due titoli molto più moderni e dotati di un aspetto grafico molto più “attuale” (nei limiti di un picchiaduro 2D): il già citato Dungeons & Dragons: Tower of Doom e Shadow over Mystara. Si tratta di due capolavori, pieni di tesori nascosti, equipaggiamenti, personaggi estremamente diversi tra loro da cui scegliere e un gameplay che mi sento di definire come l’apice più alto mai raggiunto nel genere. La notizia migliore? Sono su Steam, sotto il nome Dungeons & Dragons: Chronicles of Mystara

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.