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Where the Water Tastes Like Wine è un GTA in cui si fregano storie al posto dei macchinoni

Durante il mio primo anno all’università, per un periodo fortunatamente breve, ho girato per le aule con addosso un giubbino di velluto vintage che oggettivamente faceva cagare, i capelli spettinati apposta e, nello zaino, le dispense del Folklore Institute dell’Università dell’Indiana, assieme a una tediosissima biografia di Bob Dylan: nominatemi un qualsiasi cliché giovanilista e potete scommettere che ci sono passato.

Bene, giocando a Where the Water Tastes Like Wine, per un attimo sono ripiombato nel mood di quegli anni e mi sono immaginato il direttore del gioco attraversare i corrodi dello studio Dim Bulb Games conciato più o meno alla mia stessa maniera, intento a fischiettare Dylan. Del resto, come ha giustamente sottolineato giopep nell’affibbiarmelo, “Questo gioco mi sembra una roba ESTREMAMENTE tua” (inteso in accezione dispregiativa, presumo).

(Presumi male. ndgiopep)

In effetti, per via delle mie fisse col folklore, questo gioco avrei quasi potuto svilupparlo io, se solo fossi nato negli Stati Uniti e avessi perlomeno imparato a prototipare. Invece, sono nato in Italia, non so fare un cazzo, e posso giusto giocarci e, al limite, provare a recensirlo.

Sviluppato da Johnnemann Nordhagen (che tra le altre cose ha co-fondato Fullbright e ha co-diretto Gone Home) in seno allo studio Dim Bulb Games, e pubblicato da Good Shepherd, Where the Water Tastes Like Wine è sostanzialmente un “simulatore di folklore”. Più o meno attorno ai tempi della Grande Depressione, dopo aver perso una partita a poker truccata contro un misterioso lupo umanoide, un vagabondo, un hobo à la Woody Guthrie dalle fattezze scheletriche, viene condannato a girare in lungo e in largo per tutto il Nord America raccogliendo storie, fiabe, leggende e miti di ogni genere: l’unica moneta in grado di soddisfare il suo bizzarro creditore.

In soldoni, nei panni del suddetto hobo, non dovremo fare molto altro se non vagabondare come ci viene lungo una versione stilizzata della mappa degli USA, fermandoci ogni volta che ci gira per ascoltare questo o quel racconto orale. Nel gioco ce ne sono più di duecento, e di tutti i tipi: leggende metropolitane, racconti d’avventura o di paura, fatti passati per storici o storie d’amore. Where the Water Tastes Like Wine è un enorme libro di racconti legati alla tradizione americana.

Girovagando, mi sono imbattuto in variazioni di motivi che conoscevo, magari dalle radici antichissime (come La storia dei due fratelli, originaria dell’antico Egitto e molto diffusa anche in Europa), e in altri che mi erano completamente sconosciuti o di cui mi era arrivata giusto qualche eco.

Ho incrociato anche storie dal taglio politico, addirittura legate all’immigrazione, pure di italiani. In questo senso, essendo relativamente giovani e pieni zeppi di culture diverse, gli Stati Uniti servono perfettamente allo scopo del gioco. Lo avessero ambientato, che ne so, in Europa o in Asia, non solo non ci sarebbe stato lo stesso appeal “country & western”, ma probabilmente avrebbe finito con l’essere più dispersivo, meno efficace.

Detto ciò, mi sono divertito un sacco a osservare le evoluzioni o le mutazioni delle storie che mi capitavano a tiro e ho spesso provato a indirizzarle io stesso. Mi spiego: sostanzialmente, il giocatore è un vettore, un impollinatore di tipi e motivi narrativi. E dal momento che le storie sono l’unica merce di scambio che passa il convento, spesso siamo giocoforza obbligati a pagare i vari cantastorie con informazioni in nostro possesso. "Do ut des", come ne Il silenzio degli innocenti.

Certe volte ritroviamo le nostre avventure di strada trasfigurate dal tam-tam in “racconti antichissimi”, certe altre scopriamo che qualcuna delle nostre bubbole è cresciuta così tanto da essersi infilata nella letteratura vera e propria.

Come è tipico della tradizione orale, le nostre reazioni possono influenzare il taglio o l’esito delle storie che stiamo ascoltando.

Chiacchierando con cittadini chic, paesani o viandanti come noi, abbiamo la possibilità di far circolare questa o quella storia. A volte le nostre scelte dialogiche ci procurano qualche soldo o qualche lavoretto (che, se ne abbiamo il gusto e la voglia, trasformiamo a nostra volta in un aneddoto), altre volte ci lasciano secchi, fermo restando che la morte, nel gioco così come nei racconti magici, è un esperienza reversibile. Tutte le volte che abbiamo la sfortuna di trapassare, finiamo di nuovo faccia a faccia con il lupo umanoide e, dopo averlo sollazzato con qualche buona storia, veniamo resuscitati come se niente fosse.

Ora, premesso che dal mio punto di vista, il massimo piacere del gioco è quello di godersi i racconti orali o di riflettere sui loro spostamenti (gli sviluppatori sono evidentemente in fissa con il cosiddetto metodo storico-geografico, che studia le orgini e i movimenti delle fiabe), tecnicamente, l’obiettivo di Where the Water Tastes Like Wine è quello di stanare un roster di personaggi chiave - sconfitti, poeti, beatnik, operai, musicisti o vagabondi come noi – con cui scambiare storie davanti a un falò.

Proprio i falò, a livello di meccaniche, rappresentano il cuore del gioco, oltre a farsi carico della parte più convenzionale da “avventura grafica”: nel corso della notte, abbiamo un certo numero di chance per catturare l’attenzione dei nostri compari di bisbocce e ci tocca scegliere di volta in volta le storie più appropriate.

La componente più tipicamente videoludica di Where the Water Tastes Like Wine si consuma davanti a un falò.

E ciascuno ha le sue paturnie. Bisogna imparare ad ascoltare i vari personaggi, a decifrarli: i loro luoghi di provenienza o le esperienze che hanno vissuto fanno la differenza, e quello che spaventa uno può far sorridere un altro.

Per agevolare le cose, l’interfaccia di gioco cataloga ciascuna storia sotto precise etichette tematiche, rappresentate dagli arcani maggiori dei tarocchi. Avremo anche a disposizione una sorta di “jolly”, ossia dei racconti volubili, non polarizzati e in grado di adattarsi all’umore di chi abbiamo davanti.

Ma se nel giro di una notte non saremo stati in grado di attaccare bottone come si deve, i nostri ascoltatori occasionali riprenderanno il cammino e a noi toccherà riacciuffarli in giro per l’America, consumando le suole delle scarpe. Certo, è sempre possibile spicciarsi saltando al volo sui treni o facendo l’autostop come Kerouak, ma a mio modo di vedere, fissarsi troppo sulle “quest” toglie un po’ di gusto al gioco.

Muoversi a piedi è sempre meglio: si raccolgono più storie, si penetra nel cuore dell'America e, volendo, c’è sempre la possibilità di aumentare il passo imparando a fischiettare a tempo con le bellissime musiche scritte da Ryan Ike, che spaziano dal country al folk al jazz.

Al di là delle musiche, l’intero impianto sonoro di Where the Water Tastes Like Wine è stato curato davvero bene, e dietro la voce di ciascun personaggio c’è sempre un bravo professionista. Per non dire poi del lupo, che è stato doppiato addirittura da Sting. Tutta questa attenzione, in concerto con l’eccellente scrittura dei racconti e dei dialoghi, fa girare il meccanismo narrativo particolarmente bene.

Il lupacchiotto doppiato da Sting, oltre a essere pucciosissimo, fa anche le veci del narratore.

Eppure, al netto di tutte le buone idee e dei tanti aspetti riusciti (doppiaggio, narrazione, dialoghi), sul gioco di Dim Bulb Games si può dire pure qualche “ma”.

I movimento lungo la mappa sono scomodi e poco precisi, con una gestione della telecamera inutilmente farraginosa via mouse/trackpad. Anche l’interfaccia non è molto efficiente, e nonostante il grosso del gioco consista nell’ascoltare storie, nel complesso le meccaniche, soprattutto all’inizio, non è che vengano proposte in maniera chiarissima.

Inoltre - e sia chiaro che si tratta di un giudizio del tutto personale – non ho gradito molto le scelte artistiche. Non sono riuscito a entrare in sintonia né con le illustrazioni di Kellan Jett, né tantomeno con lo stile low poly delle sezioni di viaggio, nonostante un set di colori centrato e un apparato simbolico tutto sommato leggibile.

Il nostro scheletrico hobo viaggia lungo un'America in low poly altrettanto scheletrica.

Eppure, ripeto, me la sono quasi sempre spassata. A prescindere dagli obiettivi e spinto da pigrizia, ho giocato principalmente a caso. Ho girovagato, mi sono fermato ogni volta che mi è girato di farlo e ho scelto di stare dietro alle storie e ai personaggi che mi andavano più a genio. Chiaro che poi ognuno gioca come gli pare. Però, insomma, davanti al barbonaggio, mi viene da metterci un po’ di attitudine.

Così, nonostante i vari difetti che ho elencato, Where the Water Tastes Like Wine resta un gioco troppo figo a livello di concept per non scrivere - wait for it - “che vale più della somma delle sue parti”. Dim Bulb Games ha di fatto realizzato un simulatore del metodo storico-geografico che non farebbe brutta figura nelle mediateche di certe facoltà umanistiche. Eppure - e ammetto che mi fa un po’ strano scriverlo - credo che un concept del genere avrebbe potuto esprimersi meglio attraverso un’ipotetica “versione tripla A”, con la grafica e il taglio di un Grand Theft Auto. In effetti, ora che ci penso, Where the Water Tastes Like Wine è il Grand Theft Auto dei racconti popolari.

Ho giocato al gioco di Dim Bulb Games grazie a un codice Steam fornito dal publisher, e in effetti ci sto ancora giocando: la quantità di storie in ballo è talmente grande che potrei andare avanti a zonzo per settimane. Se volete dargli una chance, il gioco è disponibile su Steam dallo scorso 28 febbraio per PC e Mac, e viene via per 19,99 euro. Ecco, tenete conto che è solo in inglese, e che di inglese ce n’è un sacco: scritto, parlato e strano.