Blood Alloy: Reborn è beh, sì, insomma, cioè...
Blood Alloy: Reborn è bruttino. Neanche bruttissimo eh, solo un po’ bruttino. Non trovo sinceramente altri modi per catalogarlo. E dire che ci ho provato, a trovare pregi nel gioco dei Suppresive Fire Games, ma senza successo. Non ha nemmeno dei difetti enormi, beninteso. Ma, semplicemente, non ce la fa. C’è da dire che inizialmente il progetto Blood Alloy aveva ben altre ambizioni: in una campagna Kickstarter del 2013, infatti, gli sviluppatori immaginavano un metroidvania stiloso, dal sistema di combattimento articolato ma rapido e spettacolare. Ma, come diceva Gianni Morandi, solo uno su mille ce la fa. E Blood Alloy ha finito per ritrovarsi dalla parte sbagliata, quella più popolata.
Con forza e coraggio, i Suppressive Fire Games non si sono arresi e hanno utilizzato le idee alle basi del combat system declinandole in un arcade duro e puro, nel quale una robotica pulzella deve affettare mostri a raffica in arene estese ma circoscritte. Tra scatti, salti e combo di uccisioni, il giocatore è chiamato alla raggiungimento del punteggio più alto possibile.
Tutto qui. Ci sono tre stage, ma sono tutti piuttosto spogli e propongono un level design a dir poco pigro, che non valorizza l’agilità e l’arsenale offensivo a disposizione della pulzella cibernetica, capace tanto di combattere con letali lame, quanto di attaccare dalla distanza con una letale pistola laser. I moduli, potenziamenti che è possibile ottenere completando obiettivi secondari, non cambiano abbastanza le carte in tavola per donare al tutto un pizzico di varietà, che sembra latitare sin dai primi minuti di gioco.
Il sistema di controllo, che ben abbraccia dorsali e levette di un pad Xbox One (con cui ho provato il gioco) è talvolta poco reattivo, sembra quasi ingarbugliarsi, risultando stranamente “scattoso” per un gioco che dovrebbe fare della velocità il suo punto di forza. La buona idea di implementare una barra della stamina alla Dark Souls non viene mai davvero ben sfruttata e ci si limita semplicemente a una “toccata e fuga” per fare la maggior parte dei danni tra un attacco avversario e l’altro, nonostante il ventaglio di possibilità offensive a disposizione del giocatore.
Perché forse, il difetto maggiore di Blood Alloy: Reborn, è quello di non offrire al giocatore reali incentivi per il proseguimento. E ciò è un peccato quasi mortale, per un gioco che fa dell’arcade duro e puro la sua filosofia d’essere. Molti suoi analoghi - pensiamo ad esempio ai titoli mobile - basano gran parte del loro effetto “assuefazione” su un sistema di microricompense quasi costante, che premia la dedizione del giocatore. Blood Alloy: Reborn, invece, ben presto perde mordente e, dopo pochissime partite, ha di fatto esaurito ogni cartuccia a sua disposizione. Quasi il contrario della sua protagonista, in grado invece di volteggiare, scattare e saltare in un turbinio di lame e proiettili.
Però, ora che ci penso, ho trovato un pregio del gioco: la colonna sonora spacca.
Ho giocato a Blood Alloy: Reborn su Steam per circa quattro ore grazie a un codice fornito dallo sviluppatore, ma a dire la verità ne bastava una. Ho preferito i controlli via pad a quelli con mouse e tastiera, nonostante ci si possa arrangiare anche in quel modo.