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Bungie: esco dal mio casco e ho molta paura | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Nel finale di Halo Reach, mentre Noble Six lotta per la sopravvivenza contro orde di Covenant, la voce della dottoressa Halsey ci accompagna negli ultimi istanti del gioco. Il passaggio di consegne è fatto grazie al coraggio della comunità, al successo che hanno conseguito come popolo in guerra contro una minaccia tanto grande quanto inaspettata. La prima volta che sentii quelle parole, nel lontano 2011, mi commossi perché l’ho sempre interpretato come un messaggio meta, come se fosse Bungie stessa, dopo dieci anni passati sullo sviluppo di una singola IP, a pronunciarlo. Quelle parole, unite al fatto che Reach fosse l’ultimo capitolo di una saga sviluppata da loro, mi ha fatto capire quanto mi sia affezionato alla software house di Bellevue.

Halo ha giocato un ruolo enorme nella mia vita da videogiocatore, vuoi perché arrivavo dal decennio precedente praticamente a secco di videogiochi, vuoi perché era il gioco di cui tutti parlavano in quel momento storico. Il suo voler portare in maniera unica gli FPS su console, un’idea tanto matta quanto vincente, è stato un passo importante nella storia del medium, vero precursore di un lungo periodo in cui gli sparatutto in prima persona spuntavano come funghi. Non che prima non esistessero, ma il sistema di controllo sviluppato da Bungie è stato universalmente accettato come lo standard a cui ambire. Levetta sinistra ci si muove, levetta destra ci si guarda intorno. Semplice, intuitivo eppure così innovativo. Pensate al primo Medal of Honor e come gestiva la telecamera ed avrete un sussulto. Non lo ricordate? Dirò solo che lo strife era sull’analogico destro, ma il movimento sul sinistro.

Il fatto di avere, in buona sostanza, standardizzato i controlli su joypad rende Halo uno dei pochi titoli di quell’epoca che puoi mettere in mano a chiunque ancora oggi. Il grande successo di Call of Duty su console, a mio modesto parere, passa anche dalla popolarità di Halo nel primo decennio del millennio. I grilletti sono fatti per sparare, che sia una granata o un fucile alieno: più ci si pensa, più è logico, più ci si domanda perché nessuno l’avesse fatto prima.

Ricordo con un affetto esagerato quelle serate passate in ludoteca a sistemare cavi e televisori per far giocare una ventina di persone ad Halo 2 collegando in LAN party sedici console, facendo micro tornei per il solo gusto di fraggare in compagnia. Con gli anni le ludoteche sono sparite dalla mia vita, ma la voglia di prendersi a fucilate videoludiche con gli amici è sempre rimasta. Premetto che non sono mai stato un fan del giocare online, un po’ per la mia storia travagliata con internet (la prima connessione stabile nella mia vita è arrivata che avevo venticinque anni), un po’ perché siamo tutti fenomeni sul divano e delle pippe contro il resto del mondo. Ma Bungie è riuscita a farmi apprezzare anche quello, con il suo matchmaking su Xbox Live.

Sulle console non c’era niente di paragonabile come semplicità e immediatezza. Cerca partita, bam! Questa è la tua squadra e ora vai a sparare a quelli con il colore opposto. Rossi contro Blu, un binomio così iconico da far nascere una intera webserie, grazie anche ad un piccolo bug mai sistemato per la popolarità della serie.

Nonostante tutto, però, sono un vecchiaccio e l’esperienza degli amici sul divano è sempre rimasta nel mio cuore. Per quasi dieci anni, ogni lunedì, era il lunedì Halo con tre amici che condividevano l’amore per le pizze in faccia. C’era tutto quello che ci si aspetta da serate del genere: birra, rutti, pacconi sui coppini, bestemmie a profusione e il solito grido di chi non ha passato un decennio buono a falciare Covenant: Max è uno stronzo, tutti su di lui. Ma chi se ne frega, il bello di avere uno schermo diviso in quattro è sgomitare per far sbagliare un colpo e sovrastare l’assalto frontale. Nonostante l’online, la serie è talmente sinonimo di couch playing che, quando 343 industries lo tolse da Halo 5: Guardians, ci fu una mezza rivolta popolare che costrinse i poveri eredi di Bungie a tornare sui propri passi per il capitolo successivo. Chissà, magari è questo che l’ha reso quel mezzo fail visto qualche mese fa.

Bungie ha accompagnato la mia vita da videogiocatore in mille modi, grazie a lei ho speso troppi soldi in limited edition, ho scoperto nuove amicizie e ho imparato il vero significato di gunplay. Nel loro impegno decennale successivo sono riusciti a creare quasi dal nulla la formula del “game as service”: un titolo fatto appositamente per farti restare il più tempo possibile con contenuti sempre nuovi in arrivo ogni tot. Espansioni della campagna, nuove modalità, eventi: su Destiny c’è da giocare per centinaia di ore, a seconda del livello di infogno che si vuole avere. La forza del gioco rimane sempre il modo in cui si interagisce con il mondo, fucile in una mano e granate nell’altra. È un campo in cui gli ormai veterani ragazzi di Bellevue sono più che esperti, riuscendo a centrare il bersaglio (pun not intended) quasi a prescindere dal gioco a cui si applica. Non avrò passato mille ore su Destiny a farmare come uno schifo per ottenere quell’arma che è così figa che viene nerfata al prossimo aggiornamento, ma ogni tanto torno su quei lidi solo per sparare un po’ agli alieni (è un vizio, eh?) in una maniera che riesce solo a loro: veloce, intuitivo e soprattutto divertente.