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Cloverfield fra rivisitazione dei classici e brillante originalità

Poche produzioni destano fascino e mistero quanto Cloverfield, film del 2008 diretto da un Matt Reeves all’epoca registicamente in erba.

Volendo prescindere dalla trama, che vede un gruppo di ragazzi farsi strada per la salvezza lungo una New York assediata da un kaiju, Cloverfield deve parte della sua fama a una serie di elementi collaterali: una campagna pubblicitaria virale, uno stile di ripresa dinamico e immersivo, e un design del mostro unico e parzialmente scevro da giapponesismi.

Nonostante una premessa narrativa piuttosto borderline, in perenne bilico fra originalità e cliché, Cloverfield riesce ugualmente a confezionare un’opera fluida e intelligente, a partire dalle dinamiche utilizzate per innescare lo svolgimento della storia: illudere lo spettatore con un’introduzione fuorviante dove il cast viene presentato in un contesto assai differente da quello premesso. Non ricordo nello specifico il minutaggio che incorre fra l’inizio effettivo del film e la comparsa della creatura, ma ricordo benissimo come una certa storia d’amore travagliata, in perfetto stile “palinsesto pomeridiano di epoca Mediaset”, fosse riuscita per un breve istante ad alienarmi dall’idea che una colossale creatura stesse per approdare nella Grande Mela.

Matt Reeves e il caro J.J scelsero di mostrarci – piuttosto che raccontarci – il susseguirsi della fuga attraverso l’obiettivo di una camera amatoriale (che poi, pare che di amatoriale la F23 non abbia un c@#o), che, a differenza della stragrande maggioranza della tradizione kaijū eiga nipponica, decide di recidere quel velo narrativo che tradizionalmente separa lo spettatore dalla finzione. Il found footage è in tal senso uno strumento davvero efficace, a patto della consapevolezza di sacrificare i potenziali virtuosismi di una ripresa più convenzionale. La tecnica del filmato ritrovato non era nuova persino nel 2008, come Ruggero Deodato insegna, tuttavia è anche merito di Cloverfield – e di successi commerciali ben più grandi, come The Blair Witch Project o Paranormal Activity – se negli anni compresi tra il 2000 e il 2015 sia fiorita una fitta produzione di genere. Tuttavia, essendo una declinazione del cinema minoritaria e, per alcuni, puro divertissement, poco a poco il ricorso a tale tecnica è andato incontro a uno spiacevole effetto “rebound” e relativo disinteresse. Oggi, a sfruttare l’escamotage del found footage sono quasi solo produzioni direct to video.

Lo scopo del filmato amatoriale in Cloverfield è chiaramente quello di infondere nel film un senso di realismo e coinvolgere direttamente lo spettatore. Avendolo visto in sala più volte, posso confermare che la cosa funziona: il cardiopalma la fa da padrone, e ritrovarsi nell’occhio del caos da quelle prospettive regala sensazioni pazzesche, soprattutto quando c’è di mezzo il bestione.

A proposito di creatura: a oggi non abbiamo ancora una denominazione ufficiale. Scavando nel fandom ne esce fuori un quadro oltremodo confusionario. Amorevolmente viene chiamata un po' ovunque “Clover”, ma il mio nome preferito resta “L.S.A.” (Large Scale Aggressor), identificativo che appare come nota a margine nella versione Blu-ray.

Le dimensioni contano

Anatomicamente parlando, il kaiju è meraviglioso. Con misure di godzilliana memoria – circa cento metri in altezza quando non in posizione quadrupede – si presenta come un perfetto organismo anfibio capace di imporsi sia in acqua che in terra. Il sinistro colorito pallido gli conferisce una certa nota “weird”, e pare sia dovuto alla depigmentazione come conseguenza alla prolungata permanenza nei fondali marini, habitat notoriamente buio e soggetto a forti pressioni atmosferiche.

Bizzarra è anche la postura della bestia: ricurva fino ad assumere un aspetto cifotico e stabilizzata dalle due enormi articolazioni anteriori zigodattili (due dita davanti e due dietro). Fra il torace e la bassa zona addominale sono collocati due esofagi retrattili la cui natura non è tutt’oggi ben chiara: un gap del processo evolutivo? Una funzione esclusiva degli ambienti acquatici? Un sistema alternativo di approvvigionamento alimentare? D’altronde, la genesi stessa della creatura è tutt’oggi appannata. Questa sarebbe rimasta ibernata nei fondali marini per millenni; tenuta in vita dalla costante assunzione di una sostanza organica capace di accelerarne brutalmente il processo di riproduzione cellulare – questa teoria, se avallata, ne giustificherebbe le enormi dimensioni – e successivamente risvegliata dalle operazioni minerarie della Tagruato, una holding fittizia, nonché cardine dell’universo virale del franchise. In seguito alla pubblicazione di The Cloverfield Paradox, le teorie sopracitate potrebbero (e dico potrebbero) essere state confutate in favore di tesi decisamente più bizzarre; in tal caso non ci resta che aspettare l’uscita del sequel attiguo al film del 2008, recentemente annunciato.

Tornando all’anatomia, la testa è senza alcun dubbio l’aspetto più orrorifico del kaiju. Un volto mostruoso in cui spiccano le due enormi membrane auricolari color arancio che gonfiano e sgonfiano seguendo il ritmo cardiaco. A terrorizzare più della mandibola acuminata, capace peraltro di enormi divaricamenti, sono soltanto i due occhi nero pece apparentemente privi di sclera. L’estremità posteriore della creatura è distinta da una lunga appendice codale a tre forcelle, la cui funzione è quasi sicuramente limitata all’impiego acquatico.

One Bite, One Dead

Poco oltre l’ora assistiamo a un colpo di scena: il film devia inaspettatamente sul binario survival horror. Difficile da credere vista la mole della creatura, eppure la pietra dello scandalo in un certo senso sarà sempre lui (o lei, chi può dirlo). Sì, perché già in una prima sequenza mostrata appena dopo il prologo, assistiamo a una strana pioggia di esseri grandi mediamente quanto un cane, brutti come la fame e che saltano e mordono qualsiasi cosa accenni a respirare. La mitologia del film li definisce più semplicemente come parassiti. In che modo il bestione li secerni e, soprattutto da dove, non ci è dato saperlo.

L’intera sequenza è ambientata nel dedalo della metropolitana di New York, e mostra il gruppetto di sopravvissuti intento a fuggire dalle simpatiche bestioline attraverso il filtro visione notturna della camera. La ripresa è incredibilmente cinetica, e a svelare gli esserini sono giusto pochi frame. Tutto è troppo rapido e spaventoso per primi piani lenti e scrupolosi. Poi, l’orrore: venire morso da un parassita equivale a esplodere, letteralmente. Pare che le creature contengano nella saliva una tossina che prima stordisce la vittima, poi la uccide gonfiandone l’addome fino a farla saltare. Da qui in poi ogni teoria è pura incognita, sappiamo solo che da alcune analisi ematiche condotte dal DoD sui parassiti, questi contengono alti volumi di “Kaitei no mitsu”, il composto organico di cui si sarebbe nutrito anche il Clover nei fondali, e che sarebbe alla base della “Slusho!”, altro importante elemento virale del franchise, nonché bevanda introdotta nella serie Alias dello stesso Abrams.

Cloverfield mi scioccò. Parlare di kaiju, per il sottoscritto è un atto d’amore. Ero uno di quei ragazzini, neppure tanto tristi, che si vantavano di conoscere l’intero parco zoologico della Toho, nulla in tal senso mi sorprendeva; eppure Cloverfield ci riuscì. Fu qualcosa di completamente diverso: essere in strada increduli dinanzi al cammino di una creatura ben al di là della razionalità e della cognizione. Cloverfield abbatteva decenni di dogmi e archetipi sul genere. Nessuna riunione d’emergenza fra generali, politici e scienziati. Nessun eroe con la soluzione a portata di mano. Nessun Oxygen Destroyer. Solo noi e lui.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai MOSTRI GROSSI, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.