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Racconti dall'ospizio #201: Destruction Derby vs. la fame chimica

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Quando giopep ha aperto i serragli della cover story dedicata a quel mezzo aborto di PlayStation Classic, beh, immagino che, turni permettendo, avrei potuto sparare all’ospizio un Metal Gear Solid, toh, ché alla fine, quella di Kojima-sama è pur sempre la mia serie preferita. Oppure Tekken 3, Grand Theft Auto e financo Oddworld: Abe’s Oddysee. Magari non Final Fantasy VII, ecco, che già l’ho sdraiato l’anno scorso, ma insomma, uno qualunque tra i suddetti nomi avrebbe senz’altro avuto più senso di Destruction Derby, che invece è stata la prima roba che mi ha fatto alzare la manina. Ed è strano, considerato che del gioco in questione, nel dettaglio, non ricordo un fico secco.

Cioè, no, qualche memoria mi è rimasta attaccata, ma più che di ricordi, parlerei piuttosto di sensazioni, suggestioni. Forse addirittura illusioni, boh, vai te a sapere.

Sensazioni, suggestioni e cubettoni.

I miei fumosi momenti con Destruction Derby coincidono soprattutto con certe serate passate a casa del mio amico Davide, che (come ho già scritto in quell’altro pezzo, di cui il seguente rappresenta un vero e proprio spin-off) aveva spesso campo libero e, soprattutto, una PlayStation modificata di lusso.

All’epoca, si finiva per passare da casa sua un sabato sì e uno sì, ma mica solo noialtri del circolino ristretto. Tra le due del sabato pomeriggio e le quattro della domenica mattina successiva, in qualche modo, finiva lì mezza città. Perlopiù gente del liceo; anzi, dei licei, tutti quelli della zona, ma pure degli istituti tecnici e di ragioneria. C’era persino chi suonava al citofono di ritorno dall’esotica Milano dei centri sociali e della drum and bass. Quella di Davide, tra l’altro, era una casa proprio figa. Una villa da veri radicalscic™ appena fuori città, in vecchio stile col parco e tutto, dotata persino di una torretta dove pare che per qualche tempo abbia abitato il librettista di Giuseppe Verdi. O Giuseppe Verdi in persona, o nessuno dei due, ché in questi casi la cazzata vola.

Sai mai che sia stato Garibaldi.

Però, ecco, non vi immaginate un roba tetra. Nonostante fosse una magione invecchiata, non assomigliava manco per niente a quella di Resident Evil, anzi. Era estremamente accogliente, con una cucina all’americana, che pareva uscita da Friends e aveva il frigo perennemente pieno, le verdure, le birre e i dispenser per i cereali divisi per tipo.

E il salotto, poi. C’era questa vetrata pazzesca che dava sul giardino e si chiudeva attorno alla scalinata che portava al piano di sopra, in zona camere di limonare (se diceva bene). Proprio come nei primi American Pie che, tra parentesi, ho visto per la prima volta proprio lì, e ricordo che già all’epoca disapprovavo totalmente la preferenza di Jim per la tizia polacca a discapito della povera Alyson Hannigan. Sarà che io ho la fissa per le tipe alla Alyson Hannigan, ma insomma, eh.

♥️ Fin dai tempi di Buffy.

Per arrivare all’ingresso, si doveva suonare il citofono e attraversare un vialetto con la ghiaia, tipo Eyes Wide Shut ma senza tutte le maschere e le zozzerie. Più che altro, la gente che arrivava già sbronza o fumata sparpagliava i sassolini con le gomme. Una volta, qualcuno ha buttato giù una pianta con una Volvo e c’è ancora chi pensa che sia stato io, anche se è strano, visto che ero piuttosto pigro e, anziché farmi gli sbatta, a Milano arrivavo presto sul posto, mi piazzavo sul divano e aspettavo che capitassero cose/arrivasse gente. L’importante era non perdermi niente, poco importa se per vita vissuta o di riporto, più o meno come capita oggi con i social.

All’epoca, tenevo molto all’essere sul pezzo, ai gossip di provincia, a sapere chi stava con chi e chi aveva lasciato chi. La dimensione locale del pettegolezzo mi affascinava, aveva un’importanza capitale per il mio intrattenimento. Già avevo capito che le informazioni possono essere una moneta di scambio preziosissima e già non ero in grado di farmene un cazzo.

Comunque, una volta che la casa era bella zeppa di gente e le coppiette si erano trasferite di sopra, lì entrava in gioco Destruction Derby, con la sua magia. Il gioco di scassare le automobili dei Reflections, con quei poligoni grezzi e rotolati di fango, era perfetto per la fruizione selvaggia e alterata da sostanze. Non serviva fare granché: solo schiantarsi, schiantarsi e schiantare fregandosene delle regole. Puro design emergente, versione digitale anni Novanta di quelle varianti del poker perfezionati dalla rock band dei Settanta in modo da reggere a qualsiasi condizione comatosa.

Ma non era solo questo. Nella sua dimensione di focolare - anche in via della grafica sparpagliata - Destruction Derby dava riparo ai giovini e si prestava alla soddisfazione di tre funzioni sociali fondamentali.

Uno: la mimetizzazione. La bassissima soglia di attenzione pretesa dal gioco (perlomeno, nella nostra versione arbitrariamente deregolamentata e “destruction”) permetteva ai pavidi di confondersi tra i fili dei pad, tenendo altresì le orecchie tese per carpire pettegolezzi, informazioni, o semplicemente far ballare il radar attorno alla tipa carina di turno.

Due: fuga dalla realtà. Nel malaugurato caso che l’oggetto delle nostre attenzioni fosse sgattaiolato di sopra con qualcun altro/a, e nell’impossibilità fisica di abbandonare la serata, si poteva sempre ostentare falso disinteresse davanti alla console, ridendo fuori e piangendo dentro come nelle canzoni degli Elii.

Tre: “Galeotto fu lo schianto”. Nelle rare evenienze di amori corrisposti ma ancora inconfessati, era possibile trovare il coraggio di attaccare bottone proprio scaricando la tensione sul gioco, eventualmente denigrandolo di tanto in tanto con ingrata superiorità. Così, per fare gli inseriti.

In qualsiasi maniera andasse a finire, finiva sempre con la spaghettata da fame chimica che spegneva definitivamente console e serata. Le coppie scendevano dai piani alti un po’ scarmigliate e si dividevano temporaneamente, per vantarsi o spettegolare a seconda dei casi. Dopodiché, arrivederci e tutti fuori, all’alba, sperando di arrivare a casa senza fare la fine delle macchine di Destruction Derby o della povera Pinky Tuscadero.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a PlayStation Classic e alla prima PlayStation, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.