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DmC: laggente rosicano perché non capiscono

DmC: Devil May Cry, si sa, ormai è sinonimo di controversie e discussioni infinite, e il perché è noto: il gioco di Ninja Theory è infatti un reboot dell’ormai storica saga di Capcom e il suo protagonista dal capello argenteo Dante era tanto una sorta di figura totemica della casa, al pari di Megaman e Ryu, quanto una figura capace toccare le corde giuste della grande maggioranza dei videogiocatori. Le ultime due situazioni spinose (per non dire controverse) sono venute fuori recentemente. La prima, attraverso le pagine di Metacritic. Sul noto aggregatore di valutazioni, a fronte di ottime recensioni della stampa, che vanno a formare l'86 su 100 finale, DmC raccoglie un misero 4.1 dagli utenti, con motivazioni che vanno dal ragionato (per i voti più alti) allo sconclusionato (per quelli più bassi). Per quanto sia comprensibile che il cambio di direzione artistica attuato da Ninja Theory abbia scosso una buona fetta dei fan storici (io stesso ho faticato a metabolizzare il nuovo Dante, e non sono convinto di esserci riuscito), motivazioni come “la trama fa schifo” o “le fasi platform sono indegne” non hanno molto senso, soprattutto in virtù degli episodi precedenti, la cui trama era poco più che marginale e nei quali, sì, non c’erano le fasi platform, ma vi erano alcuni puzzle di risibile difficoltà che spezzavano completamente il ritmo del gioco, costituendo uno dei grandi difetti dei Devil May Cry originali.

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La seconda situazione singolare scatenata dal lavoro di Ninja Theory consiste in una petizione sul sito della Casa Bianca, intestata direttamente all’attenzione del presidente Obama, in cui si chiede a lui e alla sua amministrazione di far sì che il gioco venga tolto dagli scaffali dei negozi, perché non solo offende il passato della serie, ma insulta i consumatori che hanno giocato i capitoli precedenti e, soprattutto, viola il diritto del popolo a poter scegliere tra l’orginale e il reboot. Ora, da giocatore dei quattro capitoli Capcom, non ho trovato assolutamente insultante DmC, né rispetto al passato del franchise, se non per una battuta che era lecito aspettarsi e che comunque è tutto fuorché offensiva, soprattutto in un gioco in cui il turpiloquio diretto si spreca, né nei miei confronti. Anzi, ho talmente apprezzato il gioco di Ninja Theory da averlo giocato tutto in un’unica sessione, per non perderne il gusto. Per quanto riguarda il diritto del popolo a poter scegliere tra l’originale e il reboot, credo che i signori dietro a questa petizione non abbiano ben chiaro il concetto che muove il mercato e, quindi, le aziende che lo compongono: i soldi.

Se davvero le persone avessero il diritto di scegliere tra il caldo e rassicurante passato, per quanto i suoi angoli appuntiti possano essere ovattati dai dolci ricordi senza che se ne rendano conto, e un futuro migliore, su cui però aleggiano l’ombra dell’insicurezza e il mistero intrinseco del suo essere inedito, praticamente chiunque sceglierebbe il primo. È l’animo umano, c’è poco da fare, io stesso non ho mai nascosto i dubbi (per usare un eufemismo) riguardo a tutti i cambiamenti apportati alla saga. Ma la situazione attuale del mercato è questa, ne abbiamo già scritto e parlato un’infinità di volte e di sicuro questa non sarà l’ultima: le case, in questo momento, per vendere di più (o, almeno, questa è la teoria), devono puntare sulle sicurezze, appunto, per portare l’utenza a parlare e soprattutto comprare il proprio prodotto, senza dover contare su quella buona fetta di persone che il prodotto lo compra a scatola chiusa, a prescindere dal cambiamento piccolo o macroscopico, solo perché porta quel dato nome sulla confezione.

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Perché per quanto sia una cosa terribile da realizzare, me ne rendo conto, l’industria non è al nostro servizio, non spende i suoi soldi privati per proporci quello che vogliamo quando lo vogliamo, ma siamo noi ad essere assoggettati alle sue decisioni, a dover prendere “per forza” quello che ci viene dato senza tanto diritto di replica. C’è anche da dire, però, che la proprietà intellettuale dell’opera è di chi la possiede, e chi la possiede può farne ciò che vuole. Provate a mettervi nei panni di chi mette mano al suo lavoro con la volontà di migliorarlo e si sente dire che no, non può, solo perché la gente non accetta il cambiamento. È folle, non trovate? Se il lavoro è mio posso farci quello che voglio, se vi siete fatti un’idea diversa dalla mia è un problema vostro. Se si trattasse di due persone ad un tavolo se ne potrebbe anche parlare, ma qui stiamo parlando di un’azienda che deve produrre utile a fronte di spese ingenti, e che di certo non può mettersi ad ascoltare una per una le opinioni di tutti i suoi milioni di clienti e unire i puntini per creare il suo prodotto.

Anche perché, in questo caso molto più che in altri, Il cambiamento è sintomo quasi sempre di altri fattori, più o meno esterni, che non possono essere ignorati. La volontà di cancellare il passato di Dante, affidando l’opera a uno studio con radici completamente diverse da quelle di Capcom, è dovuta a una situazione ambientale (l’avvento di Bayonetta e di nuovi canoni action) e temporale (il primo Dante era un personaggio più figlio del suo tempo di quanto non si percepisse allora) ancor prima che alla regola non scritta, che vige nell’industria al giorno d’oggi, che vuole il videogioco nipponico incapace di rivaleggiare, almeno in termini di vendite, con le produzioni occidentali.

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In fin dei conti, dal punto di vista di Capcom, volere un cambiamento è stato giusto: un cambio di registro rispetto a quegli ultimi episodi stanchi e senza mordente che, sì, funzionavano, ma riproposti oggi sarebbero quasi risultati stantii, era più che d’obbligo. Anche perché, pubblicando un nuovo Devil May Cry “giapponese”, Capcom si sarebbe rovinata il brand, proponendo qualcosa di incapace di stare al passo coi tempi e, probabilmente, neanche così brillante come risultava dieci anni fa, ottenendo come risultato uno stuolo di voti e commenti negativi, questa volta meritati.

Se è vero che non abbiamo un diritto che ci possa far scegliere tra vecchio e nuovo, d’altro canto deteniamo le chiavi del motore che muove l’industria: i soldi. Se decidiamo di boicottare un nuovo prodotto perché, secondo il nostro parere, non rispecchia gli standard qualitativi che dovrebbe rispettare, siamo liberissimi di non comprarlo, colpendo chi lo produce nel punto in cui fa più male: il portafoglio. Comprarlo e lasciare un voto negativo perché si è troppo ciechi per capire le intenzioni dietro a un cambiamento necessario, tantopiù se si adducono motivazioni risibili a un voto di zero, non solo non interessa al produttore, che ha ottenuto esattamente quello che voleva facendo il suo gioco (metaforicamente e non), ma serve solo a dare credito a chi identifica i videogiocatori come bambini e il mezzo videoludico come incapace di veicolare un messaggio “serio”, al pari di musica e libri.

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E se è vero come è vero che, spesso, l’accanirsi sui soliti franchise in nome dei soldi è una scelta che porta sofferenza nel cuore dei fan, la scelta di Capcom di cambiare una buona fetta di ciò che caratterizzava una sua produzione di punta è stata vincente. Perché DmC: Devil May Cry è un prodotto fresco, disegnato con estremo gusto e capacità, che riesce in meno di dieci ore a raccontare meglio un personaggio di quanto non lo avessero fatto quattro giochi, che non perde ritmo neanche per un secondo e che, soprattutto, ha il grande pregio di rispettare l’elemento focale del gioco (che è, appunto, il gioco... il gameplay, insomma) e contemporaneamente non prendere troppo sul serio tutto il resto.

Insomma, chiunque riesca ad andare oltre i pregiudizi, e giocare DmC, si troverà davanti un prodotto certamente diverso da quello a cui ci avevano abituato l’originale di Kamiya o i suoi successori, ma tutt’altro che un’eresia ingiocabile dettata dalla voglia irrefrenabile di Capcom di affossarsi. DmC è esattamente quello che ci è stato venduto: un reboot. E come tale, prende alcuni elementi della sua storia, li riscrive e li adatta al nuovo contesto che deve affrontare. Che questi cambiamenti vengano accolti più o meno favorevolmente, beh, questo dipende dal pubblico. Un pubblico che si spera sempre sia capace di togliersi i paraocchi prima di valutare qualcosa.