Eureka Seven è il meglio che puoi fare senza un genio per casa
Anni fa, durante un viaggio in treno alla volta di Venezia, ebbi questa fitta conversazione con un amico attorno alle serie animate che passavano per MTV. Ricordo bene che a un certo punto, il mio interlocutore definì I cieli di Escaflowne qualcosa tipo «il massimo che puoi fare senza genio», laddove si concordava entrambi che il genio era quello di Hideaki Anno e di Neon Genesis Evangelion.
Non era certo la prima sparata che assecondavo per il rumore che faceva, né sarebbe stata l’ultima. Eppure, volente o nolente, sono anni che me la ritrovo per la testa quando incrocio un anime più o meno robottoso, più o meno fantascientifico, più o meno filosofico.
Si è già parlato da queste parti di come Neon Genesis Evangelion sia stato creato, tra le altre cose, con l’obiettivo di sabotare dall’interno i canoni del genere mecha, codificati tra gli anni Settanta e i primi Novanta. L’impatto - per dirla con il nostro - fu talmente fragoroso che l’onda d’urto finì per ribaltare una bella fetta della roba uscita subito dopo, a partire dalla fantascienza (il suddetto I cieli di Escaflowne, ma pure Noein, Last Exile o Ergo Proxy), per poi prendere altre direzioni. In tema “altre direzioni”, mi vengono in mente, ad esempio, Abenobashi - Il quartiere commerciale di magia, che attacca come una commedia per poi sbarellare; oppure quel gran capolavoro di Puella Magi Madoka Magica, col suo approccio totalmente eversivo al genere majokko.
Detto questo, comunque, sì, il bacino più colpito dalla calata di Evangelion fu quello dei robottoni, laddove una nuova generazione di autori era evidentemente pronta a deporre le alabarde spaziali per mettersi dietro la cattedra di filosofia. E tra tutti gli “Evangelidi” usciti fra la seconda metà degli anni Novanta e il decennio successivo, uno di quelli più interessanti resta probabilmente Eureka Seven, noto anche come Psalms of Planets Eureka SeveN.
Nata dall’intersezione tra Bandai Entertainment e lo studio Bones, e composta da ben cinquanta episodi, la serie venne spedita in onda tra la primavera del 2005 e quella del 2006 dalle emittenti giapponesi MBS e TBS. In testa alla regia c’era Tomoki Kyoda, che aveva già diretto per lo studio alcuni episodi di un altro anime mecha del dopo Evangelion, RahXephon. La sceneggiatura, invece, si deve principalmente al talento di Dai Satō, artista piuttosto eclettico che aveva iniziato la propria carriera nell’animazione all’inizio degli anni Novanta come musicista, per poi passare alla scrittura con Cowboy Bebop, Ghost in the Shell: Stand Alone Complex (sia la serie che il videogioco per PlayStation 2) e Wolf's Rain. Ma è proprio con Eureka Seven che Satō fa il botto, mettendosi in tasca, tra le altre cose, il premio per la miglior sceneggiatura alla Tokyo International Anime Fair del 2006.
A livello di storia e immaginario, come ho detto, la serie salta nettamente fuori dal solco tracciato da Anno con i suo Eva e, già che è in ballo, prende in prestito qualcosina pure da Nadia – Il mistero della pietra azzurra. Nel gruppo di ribelli del Gekko State, capitanati dal controverso Holland Novak, riecheggia l’equipaggio del Nautilus, e a ben vedere, la stessa aereonave Gekkō-gō ha più di un debito nei confronti del sottomarino di Nemo. Le analogie si fanno più specifiche nella caratterizzazione di alcuni personaggi: se Holland fonde alcuni tratti di Gendo Ikari con quelli di Ryōji Kaji, la capo-pilota Talho Yūki è cento per cento Misato ogni volta che fa saltare una lattina di birra. Ma è soprattutto la giovane Eureka a entrare in risonanza con l’opera di riferimento, dal momento che evoca Rei Ayanami sia a livello attanziale, che cromatico.
Eppure, non è tutto un riciccio, ché altrimenti manco sarei qua a parlarne. Il protagonista, Renton, nonostante qualche para adolescenziale, è decisamente più solare e energico di uno Shinji Ikari, e la complicata Anemone rielabora in maniera sufficientemente interessante lo schema della tsundere di turno, soprattutto attraverso il suo rapporto con Dominic. Eppoi c’è tutto il discorso del villain, il colonnello Dewey Novak, che vanta un livello di caratterizzazione e una backstory decisamente sopra la media. In generale, va dato atto alla serie di aver pompato sangue nelle vene di tutti i personaggi.
Poi, OK, Eureka Seven non raggiunge le vette (o agli abissi) filosofici del suo modello ed è senz’altro meno sofisticata nella gestione di simboli e rimandi. Il lore è costituito da un mix di suggestioni buddiste, shintoismo e derive new age, mentre i ripetuti accenni a Frazer e a Il ramo d'oro sono pertinenti solo in parte, e nessuno mi leva dalla testa che siano stato scelti soprattutto come pezzi d’arredamento fighetti.
Molto meglio la dimensione politica, semmai, che rappresenta evidentemente il cuore dell’opera. Satō è perfettamente padrone della situazione quando rielabora il linguaggio di una certa controcultura underground che si intreccia con le fanzine, con l’immaginario dei movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta, e persino con la scena anarchica dei surfisti di Milius.
E lo è altrettanto, da ex compositore, discografico e fan dell’elettronica, quando adopera i brani della colonna sonora per far danzare intere sequenze o per esaltare l’epica degli scontri aerei, già fighissimi di loro per ritmo e messa in scena. Senza contare tutti i riferimenti e le citazioni che è riuscito a infilare tra le pieghe dell’opera, tipo il complesso militare Tresor che rende omaggio allo storico, e omonimo, club techno berlinese.
Tutte queste frecce, unite a uno sviluppo della trama avvincente, a un disegno pulito e a una regia di qualità, fanno di Eureka Seven uno dei migliori anime “tipo Evangelion” sulla piazza.
Ciò nonostante, soprattutto se passato alla prova del tempo, manca di quel carburante dalla formula imponderabile in grado di spedire opere come quella di Anno, oppure Sfondamento dei cieli Gurren Lagann, fuori da ogni scala. Eureka Seven non ha niente che non vada in sé, e immagino sia il massimo che si possa fare senza un genio in scuderia. Niente più, ma neanche niente di meno.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’arrivo di Neon Genesis Evangelion su Netflix e ai robottoni in generale, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.