Outcast

View Original

L'inestimabile solitudine di FAR: Lone Sails

In questo periodo sono particolarmente attratto da giochi brevi e dal bassissimo tasso di sfida; ancora meglio se molto contemplativi - anche noiosi, non è un problema - e con protagonisti persi nella loro solitudine.

Credo che la colpa di questo mio sentire sia in parte dovuta al lockdown degli ultimi mesi, che ha costretto molti di noi a condividere spazi, spesso angusti, con familiari o parenti stretti, rendendo il concetto di solitudine una chimera.

Qui devo fare una precisazione per quanto riguardo il termine “solitudine” così come lo intendo io, che purtroppo non trova corrispondenza in italiano. Non è la “loneliness”, ossia lo stato emotivo contraddistinto da senso di isolamento, bensì la “solitude”, ovvero quello spazio mentale che serve per rigenerarsi, per riflettere, e che è qualcosa che si sceglie senza imposizioni dall’alto.

In questo senso, a me, che vivo con mia moglie e due figli rispettivamente di quattro e sei anni, ultimamente la “solitude” è mancata molto. Mi è mancato quel tempo essenziale utile a conoscere sé stessi. La filosofa Hannah Arendt ha espresso molto bene il concetto in questa frase:

Non potendo trovare tra le mura di casa questa solitudine, ho provato a cercarla nei videogiochi, incappando così in titoli brevi, spesso sperimentali, che in diversi casi si sono rivelati allegorie tanto potenti da lasciare il segno, riconciliandomi con me stesso. FAR: Lone Sails, opera prima dello studio svizzero Okomotive, è proprio uno di questi giochi.

Lone è una bimbetta dall'età imprecisata. Si trova sulla tomba di un uomo, sotto un albero, anch’esso senza vita. Quella che una volta era una casetta ora è soltanto un ammasso di tavole che a malapena si reggono assieme. Il cielo è grigio e delle grosse nuvole incombono all’orizzonte. L’unica nota di colore in un mondo altrimenti monocromatico è il vestito rosso della ragazzina. Coperta da un cappello e da un impermeabile, che la fanno somigliare a un pompiere, di lei sappiamo ben poco. Rimasta sola, non le rimane che partire in cerca di un futuro migliore. Ma con quale mezzo? Lo scopriremo un paio di schermate più avanti.

Si tratta di una sorta di locomotiva costruita con elementi di recupero. All’interno dell’abitacolo (noi giocatori) siamo a chiamati a familiarizzare con i pulsanti e i meccanismi in grado di metterla in moto. Lo spazio ridotto deve essere gestito al meglio, per potersi muovere con agilità. Bisogna sfruttare i ganci per appendere le casse o i bidoni che ci vengono incontro lungo la strada, in attesa che vengano bruciati per generare energia. L’organizzazione dello spazio è cruciale.

Oltre a guidare la nostra locomotiva, di tanto in tanto bisogna risolvere degli enigmi ambientali e superare imponenti costruzioni o sbarramenti. Azionando meccanismi, premendo pulsanti, saltando da un parte all’altra in quelle che sono delle piccole fasi platform, utili anche a evolvere il veicolo.

Il primo potenziamento a nostra disposizione è un albero con tre vele, che ci permetterà di risparmiare carburante sfruttando la spinta del vento. Poi arriva la saldatrice, utile per riparare quei pezzi di locomotiva particolarmente soggetti al logoramento, magari perché più esposti agli impatti e agli agenti atmosferici.

La tentazione di accostare questo titolo a Limbo o Inside è forte. Dai giochi Playdead, Far: Lone Sails riprende le meccaniche di base, la progressione lineare e gli enigmi ambientali. Inoltre, anche qui la narrazione avviene solo attraverso le immagini in movimento, senza testi o dialoghi di alcun tipo. Eppure, diversamente dalle opere citate, qui non abbiamo a che fare con agitazioni da “trial and error” o backtracking. In questo senso, siamo più dalle parti di Journey, anche per le atmosfere da mondo in decadenza che avvolgono il giocatore. Qua e là si vedono trattori o automobili abbandonate, relitti di gigantesche navi smembrate, hangar e gru dalle dimensioni spropositate.

Solo alcuni animali sono sopravvissuti a quella misteriosa società industriale, apparentemente votata alla potenza della meccanica, al ferro e all’energia a vapore, e che alla fine è stata spazzata via da chissà quale calamità. Sempre con Journey, il titolo di Okomotive eredita anche una potente metafora, come vedremo in seguito.

Da un punto di vista artistico FAR: Lone Sails è davvero ispirato. Nonostante i pochi colori, tra toni di grigio e l’uso sporadico del rosso e del bianco, il mondo di gioco è credibile, estremamente curato e affascinante nella sua desolazione. Mi ha ricordato moltissimo i dipinti di Simon Stålenhag, l’artista svedese che ha ispirato la serie Tales From the Loop recentemente apparsa su Prime Video. Stålenhag è solito inserire in questi mondi rurali degli enormi macchinari abbandonati e consumati dal tempo, che sembrano appartenere a epoche lontane. 

La serie, tra l’altro, è stata accusata di essere un po’ troppo lenta. Anche FAR: Lone Sails è lento, così come il veicolo che lo abita. La monotonia del paesaggio viene spezzata di tanto in tanto da eventi atmosferici come pioggia, vento, neve, grandine e nebbia, tutti resi molto bene, così come pure mozzano il fiato i passaggi dall’alba al giorno e dal tramonto alla notte. Il gioco non si appoggia a nessun tipo di cutscene, con la telecamera che si apre su paesaggi enormi come a sottolineare la maestosità della natura in relazione all’insignificante dimensione umana. Spesso il nostro viaggio sarà accompagnato solo dai suoni del vento, dai cigolii dei meccanismi e dagli sbuffi di vapore. Ma quando si inserisce la colonna sonora, composta in uno stile minimale che ricorda certo jazz, si decolla davvero.

Tra i momenti più belli della mia esperienza, sicuramente quelli dove venivo spinto dal vento e potevo lasciare da parte tutte le preoccupazioni legate al carburante, al motore e a tutto il resto.

Solo allora potevo uscire dalla stiva e salire sul ponte per scrutare il panorama; ascoltare il rumore del vento, godermi il viaggio. Una sensazione di leggerezza, pura poesia per lo spirito, rigenerazione dei sensi. Questa apparente idiosincrasia tra il dover tenere tutto sotto controllo e il piacere di lasciarsi trasportare dall’universo spinge davvero a riflettere sulla necessaria convivenza di filosofie di vita tanto diverse tra loro.

Detto questo, la vera sorpresa del gioco è l’empatia che viene a svilupparsi con il veicolo, per quanto mi riguarda persino più forte rispetto a quella che mi ha legato alla protagonista. La locomotiva è un’allegoria del nostro corpo. Bisogna averne cura, potenziarla, e lanciarla in un viaggio che finirà inevitabilmente col logorarla.

Quando, a un certo punto dell’avventura, sono stato costretto a sostituire le ruote ormai rotte con altre nuove e più efficienti, ho sentito un tuffo al cuore. Un tuffo che mi ha ricordato quando, un paio di anni fa, sono finito sotto i ferri per un importante intervento chirurgico. Ora una parte di me è stata buttata come le vecchie ruote della locomotiva, ma il mio viaggio continua. Con un po’ di “solitude” in più.