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Il cuore d’oro di Firefly

Take my love, take my land.

Firefly.

Devo scrivere qualcosa su Firefly, capito? Firefly, la miglior serie mai fatta a parte qualcun’altra oggettivamente superiore ma il cui enorme e insuperabile difetto è quello di non essere Firefly.

Firefly, una stagione, quattordici episodi (più un film, più svariati fumetti), praticamente nulla, una miniserie, uno sputo, un punto e virgola nell’opulenta storia della televisione seria che sforna prodotti da sette stagioni da venticinque episodi da un’ora l’uno, e invece Joss Whedon, sempre sia lodato Joss Whedon, è riuscito nel miracolo di comprimere spunti e visioni in poco più di una dozzina di cosette da quarantacinque minuti l’una, perché la sintesi è un superpotere quanto lo è la capacità di non sprecare nemmeno un secondo e dedicare tutte le proprie forze a un racconto e ai suoi personaggi e alle dinamiche relazionali tra di loro e pure a un intero universo, in senso letterale, originale e brillante e costruito a partire da un’intuizione nascosta senza saperlo nei titoli di testa di Star Trek, quella – molto americana forse – che lo spazio sia una frontiera in senso geografico e ideologico, e che la conquista e colonizzazione dello stesso non sarà una trionfale parata di astronavi scintillanti che portano la civiltà là dove c’era l’erba e ora c’è una città, ma una vera conquista, un lento trascinarsi tra pianeti inospitali che viaggia in parallelo a un pericoloso districarsi tra le schifezze che ogni essere umano lontano dalla civiltà e dal controllo sociale finisce per fare in un modo o nell’altro.

Firefly, insomma. Cosa dico, di Firefly?

«Che non siamo solo degli eroi ma anche un branco di bonazzi da paura» (Malcolm Reynolds)

Per esempio possiamo partire da qui, da quella sigla che, secondo Whedon, negli ultimi cinque secondi, quando compare il logo della serie, racconta tutto quello che c’è da sapere. Ci sono dei cavalli che corrono nel deserto e sullo sfondo un’astronave che decolla. Ha ragione Whedon: vi ho appena spiegato Firefly. È una storia di frontiera in cui la frontiera sono gli altri pianeti, e qual è il modo migliore, per un americano, per raccontare la frontiera, il luogo nuovo e vergine e senza regole dove chi primo arriva meglio alloggia? Trasformarla nel vecchio West.

Non è solo una passata di vernice arrugginita per fare figo: l’idea dietro Firefly è che non importa quanto lontano andiamo nelle nostre esplorazioni del cosmo, l’uomo rimane sempre lui, e l’uomo lontano da ogni fonte di autorità e lasciato libero di fare quello che vuole diventa criminale, ladro di bestiame, corrotto, corruttore, venditore di olio di serpente, assassino prezzolato. E d’altra parte chi è meglio, lui (cioè, loro, che vivono sui e intorno ai pianeti più esterni e lontani dai centri di potere) o “quelli che vivono nelle città”, con le loro tecnologie avanzatissime e i loro edifici di ferrocementovetro e le loro amenità e i comfort e quella vaga e impalpabile sensazione di gelido autoritarismo che aleggia loro intorno?

È, volendo, una visione estremamente nichilista, seppur nascosta dietro una patina di avventura, commedia e pure buoni sentimenti: l’uomo, dice l’universo di Firefly, fa mediamente schifo e, dovendo proprio scegliere, meglio i mascalzoni dal cuore d’oro, che i grigi burocrati postfascisti che normalizzano e appiattiscono tutto nel nome della Scienza e del Progresso e della Democrazia. È anche una visione romantica, quella di uno che ha guardato Gli spietati, o Il Grinta, o L’uomo dai sette capestri e quello che ha capito è che si stava meglio prima perché prima eravamo liberi di esprimerci e di dare il meglio e/o il peggio di noi. Credo che messo di fronte alla scelta, nessuno preferirebbe tornare ai tempi del vecchio West, degli sceriffi e dei rapinatori di banche, ma Firefly supera e anzi ignora con nonchalance questa questione, annegandola sotto una cascata di entusiasmo e di voglia di fare e persino di voglia di essere, di esserci, che è forse il motivo principale per cui la serie funziona così bene.

Nasce tutto qui.

Prima ancora che dalle sue storie e dalla sua mitologia, che viene accennata e raramente approfondita nei già citati quattordici episodi, Firefly è definita dai suoi set. Serenity, la nave mercantile guidata dal sarcasmo di Nathan Fillion, è un luogo reale, tangibile, concreto; non è solo grazie a LA MAGIA DEL CINEMA: la produzione ricostruì l’interno dell’astronave e la lasciò lì, intatta, per l’intera durata delle riprese. Whedon e compagnia potevano passeggiare liberamente tra le stanze della Serenity, permettersi di girare come volevano senza preoccuparsi di cosa dovesse entrare nell’inquadratura e di cosa dovesse rimanere fuori; il cast abitò sulla Serenity per mesi, Whedon la disegnò color-code-ando gli interni così che in coda, dove stanno le cabine dell’equipaggio, i colori fossero più caldi e diventassero gradualmente più freddi man mano che ci si avvicina al ponte di comando. È una festa di dettagli alla quale hanno contributo tutti (verso la fine della lavorazione, si era arrivati al punto che gli attori, che ancora speravano di avere davanti a loro almeno una seconda stagione, suggerivano a Whedon idee e spunti per episodi futuri), un luogo reale dove tazze e stoviglie sono di peltro in linea con l’idea di “il vecchio West portato nello spazio”; un trabiccolo, Serenity è un trabiccolo, non l’Enterprise, che assomiglia pericolosamente a un posto dove un equipaggio di spaziobriganti vive e prospera e che ha pochissimo a che fare con le artificiosità di un set cinematografico.

È possibile che mi sia perso per strada. Dov’eravamo? Giusto, Firefly. Faccio molta fatica a parlare di Firefly, per la quale ho una passione divorante, disordinata e perfettamente acritica – difetti? La la la, non vi sento. “Di cosa parla, Firefly?”, si potrebbe chiedere qualcuno che non ne ha idea e che è riuscito comunque ad arrivare fino a qui senza chiudere il tab per il disgusto. Parla di Malcolm Reynolds, un ex soldato che combatteva dalla parte sbagliata (cioè quella che ha perso) della guerra civile spaziale e che si è dovuto riciclare come contrabbandiere, e dei suoi amici e compagni di viaggio, l’ex soldatessa che ha combattuto con lui, suo marito il pilota che si libra come una foglia nel vento, l’ingegnere adorabilmente naif che ama le fragole e adora pasticciare tra gli ingranaggi, il tontolone muscoloso, la prostituta saggia e nobile che esercita a bordo del suo shuttle parcheggiato sulla Serenity dalla quale si fa scarrozzare in giro, e poi il reverendo con i capelli pazzi e i due Fratelli Misteriosi.

Best waifu.

Che incidentalmente sono l’unico appiglio di Firefly a una qualche forma di narrazione orizzontale, l’elemento di mistero che viene lentamente e inesorabilmente approfondito, fino a diventare il fulcro del film che uscirà in seguito alla cancellazione della serie. I due, Simon e River, arrivano a bordo nel corso del pilot, a completare l’equipaggio della Serenity, e rappresentano l’elemento di instabilità e il ponte che collega le personalissime avventure di Malcolm Reynolds e compagni all’intero universo di Firefly, con i suoi razziatori cannibali, gli esperimenti genetici, la gente strana con le valigette e le mani blu. Sono la fonte di instabilità che propelle la maggior parte delle pazze avventure spaziali della Serenity, il ricordo costante che c’è un mondo là fuori tra le stelle e che la posta in gioco è molto più alta di un cargo di mucche da spostare da un pianeta all’altro.

Perché di fatto, per la gran parte del tempo, Firefly questo è: bestiame da spostare da un capo all’altro della galassia, solo nel cargo di un’astronave, perché siamo nello spazio. Vi risparmio il giochino di raccontare quello che succede in questo o in quell’episodio: Whedon prende dal western gli elementi estetici più caratterizzanti (il deserto, il bestiame, i vestiti di cuoio, i cinturoni e le pistole) e quelli narrativi più avventurosi/giocosi (le sparatorie, i truffatori dal cuore d’oro, le fazze da taverna, le risse in taverna, in generale le taverne) e, puntata dopo puntata, li declina in tutti i modi possibili, pervertendoli e adattandoli al suo universo per dare vita a un ibrido che è tanto più incredibile quanto più ci si rende conto che non solo funziona alla perfezione, ma che non sembra un’invenzione, un’idea artificiale, ma il naturale prosieguo di un discorso iniziato nei libri, al cinema e nei fumetti e che aspettava solo di esplodere e uscire dai confini degli Stati Unti per abbracciare l’intera galassia.

The Space Train Robbery.

E così c’è l’episodio della rapina al treno, quello con il gran ballo di gala organizzato dal riccastro locale, quello con le prostitute cazzute ma dal cuore d’oro e i cattivi dal pianeta di fianco che vogliono sfruttarle e soggiogarle, quello con le spaziomucche nel cargo: una collezione di trope da Tex Willer che per qualche miracoloso motivo non stonano mai fianco a fianco con le intelligenze artificiali e i viaggi interstellari e la gente sparata fuori dall’airlock e abbandonata nel vuoto cosmico come punizione per i propri peccati.

È possibile che uno dei segreti di questa unione bestiale ed efficacissima sia la scelta di Whedon di mantenere intatta l’estetica e l’ideologia del western ma di abbandonarne la grammatica, in favore di una più adatta alle storie nello spazio: Firefly è più vicina a Buffy che a boh, Godless, in termini di ritmo e di densità narrativa, non esistono i sovrumani silenzi e la profondissima quiete tipiche di certi western, la scrittura dei dialoghi è ricca ai limiti dell’opulenza e rapida, martellante, incapace di perdere tempo. Il che, da un certo punto di vista, rende Firefly il western meno western della storia. Eppure, senza le mucche, il fango e le tazze di peltro, tutto l’edificio si normalizzerebbe o, peggio, crollerebbe rovinosamente su se stesso, perché prima che nel linguaggio, il vecchio West di Firefly vive nel cuore dei suoi protagonisti, gente abituata ad arrangiarsi, alla vita in condizioni meno che ottimali, tutto pur di avere la possibilità di spingersi un po’ più oltre. È il western dei pionieri e delle carovane e delle cittadine dove non è ancora arrivata la ferrovia, senza il genocidio dei nativi a macchiare l’idillio; è una condizione dell’anima, prima che un modo di raccontare una storia.

Il western negli occhi.

O forse il segreto sta nel minestrone, nella sbobba, nel fatto che Firefly è anche una space opera piena di drama e di amorazzi, ma è anche una storia sci-fi dove ci sono valigette misteriose e gente che può ammazzarti e resuscitarti a piacimento grazie alla SCIENZA, ma è anche una commedia che costruisce le sue risate sul linguaggio, su questo clamoroso contrasto tra termini aulici e/o fuori tempo massimo e momenti di rozzezza lessicale e sintattica che fanno tanto criminali da frontiera, ed è anche, perché no, un piccolo studio sociolinguistico che immagina che nel futuro, a colonizzare la galassia, saranno americani e cinesi, e quindi tutti parlano un misto dei due rispettivi linguaggi come se fosse la cosa più normale del mondo. È la storia di un gruppo di personaggi, ciascuno con mille cose da dire, e vi sfido a trovarne uno che non ne dica di interessanti. È un’orgia di spunti e suggestioni incorniciati da una struttura altrettanto ibrida e multiforme, un miracolo di equilibrismo narrativo, linguistico, registico (confrontate gli episodi ambientati su un pianeta con quelli nello spazio, ammirate quanto Alien c’è quando la crew esplora un’astronave abbandonata e razziata dagli spaziopredoni, insomma, guardate Firefly).

Difetti? Immagino che ce ne siano, visto che l’alternativa è accettare che la serie sia stata cancellata dopo una sola stagione sulla base del fatto che la gente in blocco non capisce un cazzo. Magari in giro trovate anche qualcuno che ne ha scritto, che ha affrontato l’argomento. A me, e qui indosso i professionalissimi panni del critico serio, non frega un cazzo: se lo chiedete a me, Firefly è perfetta così com’è, con i suoi vuoti, i suoi misteri non spiegati, anche i suoi imbarazzanti momenti da soap opera. È una creazione ambiziosa e ingenua, un mondo creato e messo in scena da gente che lo ama profondamente e che si affida al suo entusiasmo per tirare dalla propria parte chi guarda. È un pezzo di cuore grosso così, che trascende considerazioni critiche e analisi stilistiche (almeno le mie), come accade sempre con le robe che sono più della somma delle loro parti. È una serie della televisione che dovete guardare perché ve lo dico io e perché è bellissima. Vi basta?

(Su Serenity, il film fatto su spinta dei fan per chiudere qualche parentesi lasciata aperta dall’eutanasia prematura fatta alla serie, avrei altrettante cose da dire: che è un film politico che dice cose, che è più francamente schierato dal lato “spazio” dell’equazione “mucche + spazio”, che fa questa cosa rischiosissima di rispondere a Grandi Domande e lo fa in modo soddisfacente. Preferisco però affidarmi a quella che ancora oggi è la recensione perfetta del film pur non essendo una recensione del film: questa)

In basso a sinistra: una foglia nel vento. Guardate come si libra!

Questo articolo fa parte della Cover Story più veloce del West, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.