Grand Theft Auto III, quando il mondo diventa il tuo parco giochi | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Quando ho pensato di scrivere un pezzo per celebrare i vent’anni di Grand Theft Auto III, mi sono subito chiesto cosa mai avrei potuto scrivere su una serie conosciuta praticamente da chiunque, partendo da chi ha giocato ai primi episodi in 2D con visuale dall’alto fino ad arrivare ai giovincelli della Generazione Z che continuano a giocare il sempreverde quinto episodio.
A questo proposito, proviamo a fare un esperimento. Proviamo a tornare indietro, con la mente, all’anno 2001, ricordandoci quanto fosse differente il mondo in quel periodo rispetto ad ora. I cellulari non erano ancora diventati parte integrante della nostra vita e delle nostre giornate. Internet era un lentissimo nuovo mondo in buona parte ancora inesplorato. Le serie TV non erano ancora diventate di moda, e soprattutto non erano presenti in quantità abnormi, e l’unico modo per vederle era aspettare che passassero sulle reti televisive generaliste, su quei paracarri a tubo catodico dalla bassa definizione presenti nei nostri salotti.
I videogiochi, in particolar modo, erano ancora in buona parte composti da titoli “a corridoi”, dove i personaggi si muovevano in ambienti limitati, da un punto A ad un punto B, e i giochi che avevano provato ad offrire un’area di azione più vasta si contavano sulle dita di una mano (penso ad esempio all’ottimo Outcast di Infogrames, di cui è stato recentemente annunciato un seguito). In un contesto del genere, pensate (o meglio ancora, ricordate, per chi lo ha vissuto) cos’ha significato giocare a Grand Theft Auto III per la prima volta. Si trattava di un’esperienza mai vissuta prima, un qualcosa di completamente nuovo.
Ci si muoveva in lungo e in largo in una città, Liberty City, che sembrava senza confini, viva, palpabile, progettata apposta per dar libero sfogo a cose che nella vita reale non avremmo mai fatto: aprire la portiera di una macchina e trascinare fuori di peso il conducente, metterci alla guida del veicolo appena rubato correndo a folle velocità sulla strada inseguiti dalla polizia, magari finendo qualche istante dopo scaraventati fuori con il veicolo in fiamme. Prendere un oggetto contundente e mettersi a distruggere qualcosa. Sparare alla cieca e vedere i pedoni fuggire in preda alla paura. E quell’attività talmente famosa da essere citata praticamente ovunque: andare con una prostituta e recuperare i soldi con modi molto poco gentili. Sembrava che Rockstar volesse dire: “Vai dove vuoi e fai quello che vuoi, il mondo è tuo”. Non c’erano freni morali o limiti, se non quelli imposti dalla tecnologia dell’epoca, in Grand Theft Auto III.
Gran parte del tempo speso sul titolo Rockstar, lo si passava soprattutto così: girovagando senza uno scopo, per vedere fin dove si estendevano i confini di quella città virtuale e fino a dove si poteva arrivare. Quante volte ci siamo chiesti “ma in quel negozio ci posso entrare davvero o è solo una porta appicciata su un muro?” oppure “Se colpisco con un bazooka una fila di macchine, quante riuscirò a distruggerne con un colpo solo?”.
Grand Theft Auto III appartiene a quella ristretta cerchia di titoli che hanno tracciato una linea di confine fra quello che c’era prima e quello che c’è stato dopo la sua pubblicazione. Il titolo Rockstar ha di fatto dato il via al genere dei free Roaming, che sarebbe poi evoluto negli open world.
Oggi siamo talmente abituati a mondi dettagliati quasi fino alla nausea, dove l’aggettivo “sconfinato” assume un significato quasi reale. Eppure tutto questo ci viene a noia, senza ricordarci che vent’anni fa rimanevamo a bocca aperta, muovendoci liberi in una città composta da edifici sgranati e pixellosi.