Heavy Unit è soltanto il pretesto | Racconti dall’ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
In libera traduzione da Wikipedia: “Heavy Unit è uno sparatutto arcade a scorrimento, sviluppato da Kaneko e pubblicato da Taito nel 1988. Successivamente, ne è stato ricavato un port per PC Engine uscito il 22 dicembre del 1989. Del gioco esiste anche una versione per Mega Drive curata da Toho e intitolata Heavy Unit: Mega Drive Special, uscita il 26 dicembre del 1990. In Heavy Unit, il giocatore controlla una nave spaziale in grado di trasformarsi in robot attraverso un power up”.
Finita questa introduzione-traduzione, sono pronto ad ammettere che, fino a un mese fa, il suddetto gioco di Kaneko non lo avevo mai, non dico provato, ma addirittura sentito nominare, ché resto un ignorante pazzesco, moltiplicato per due se si parla di sparatutto vecchia scuola. La ragione per cui ho scelto di spedirlo all’ospizio dei robottoni è una, e una soltanto: mi occorreva un pretesto per parlare d’altro.
Partiamo dall’inizio: un paio di mesi fa, mi sono regalato un bel viaggio in Giappone, ossessivamente documentato sui social in via della mia totale diseducazione agli stessi (grazie mille, Mario Marino). Ora, senza entrare troppo nel merito, ché alla fine sono pur sempre un provinciale che si muove a ogni morte di papa, l’esperienza giapponese mi ha rispedito a casa con un po’ di robe per la testa, e qualcuna in valigia. Ad esempio, ho guadagnato qualche punto in educazione civica, bruciandomelo nel giro di una settimana per colpa di un tizio molto maleducato giù all’ufficio postale.
Inoltre, durante tutto quanto il viaggio, e pure al rientro, ho sperimentato una vaga saudade (termine che scomodo spesso, probabilmente a sproposito). Il punto è che per uno come me, venuto su a pane, manga e anime, il trovarsi improvvisamente fiondato in quell’immaginario lì, con le studentessine alla marinaretta, i ragazzi timidi che corrono per non perdere il treno e i vecchietti che servono il katsudon, può essere straniante. Non quanto svegliarsi una mattina su Tatooine, eh, ma quasi.
Sono stato preso in contropiede dalla sensazione di non essere in pari con la gente che incrociavo per strada o in metropolitana. Di essere piombato lì, in un luogo tanto familiare, senza aver prima percorso tutte le tappe giuste. Non riesco a metterla giù meglio di così, abbiate pazienza.
Ad ogni modo, oltre alle suddette sensazioni, ai rimpianti e ai ricordi, nella valigia del ritorno ho pure infilato un meraviglioso PC Engine. La prima versione della console, quella bianca, che mi è sempre parsa bellissima, sin da quando ne leggevo sulle pagine delle riviste di giochini durante gli anni Ottanta e Novanta. All’epoca, quella della NEC - with a little help from Hudson Soft – era nettamente la mia macchinetta preferita tra quelle “impossibili”, soprattutto per la maniera in cui condensava tutto il Giappone che vedevo in TV.
Un po’ dipendeva dal taglio dei giochi e dalle conversioni in odore di arcade perfect, tipo quella di Street Fighter II Champion Edition. Ma era soprattutto una questione di immaginario e di quel look robottoso alla Macross.
Crescendo, col fatto che sono una persona sciatta e un retrogamer d’acqua dolce, del PC Engine me ne sono un po’ dimenticato. Senza entrare nel merito dell’importazione parallela, con l’arrivo di eBay e compagnia avrei potuto tranquillamente procurarmene uno. Qualche volta mi è preso pure lo sfizio di cercare la versione GT, quella fighissima portatile, ma non sono mai andato oltre il carrello. Capita, oh.
A ‘sto giro, però, son partito deciso: il mio souvenir numero uno dal Giappone doveva essere per forza il PC Engine. Tra l’altro, per come me l’aveva messa giù il Bellotta, pareva un task abbastanza facile: «Massì, quello base lo trovi dappertutto e vedrai che non ti chiederanno più di cinquanta euro».
Beh, il cazzo.
Il primo tentativo, consumato al negozio Ojamakan di Kyoto, fa acqua. Non mi scompongo più di tanto, perché ho fatto conto di passare l’ultimo giorno ad Akihabara, e già che ci sono, decido di prendere qualche HuCard, nonostante la mozione di sfiducia proveniente dal Bellotta.
Dovete sapere che il nostro si è laureato presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II ma, da qualche anno, vive e lavora in Svizzera. In via di questo cortocircuito culturale, prima della partenza mi ha fortemente sconsigliato l’acquisto di cartucce originali raccomandandomi, invece, un accrocchio per leggere le ROM recuperate su internet. L’unico problema è che digitando su Google “PC Engine + Pezzotto” è saltato fuori che l’accessorio «imprescindibile, guarda», costa duecentocinquanta euro, circa 280 franchi, quindi anche no.
Ma passiamo direttamente all’ultimo pomeriggio di viaggio. Flashforward: sono ad Akihabara e di PC Engine nemmeno l’ombra. Giro tutti i negozi segnalati dalla Guida Nerd del Dr. Manhattan, dal popolarissimo Super Potato a roba più fina tipo Friends (gestito dalla signora della foto a titolo). Incrocio un sacco di roba fighissima, per la quale da ragazzino avrei dato una mano, ma di PC Engine lisci, nessuno. Giusto qualche Duo e un GT venduti a prezzi da rapina.
Verso sera, dopo aver rivoltato il quartiere come un calzino, e disperato al punto tale che mi sarei fatto andare bene persino il CoreGrafx scuro, trovo finalmente ciò che cerco in un negozio adiacente a un centro massaggi (sort of). Costa il doppio di quanto previsto dal Bellotta ma, a quel punto, mi pare comunque un affare e lo prendo, assieme a un AV Booster per dribblare il cavo antenna. Per un paio di minuti buoni mi sento un pirla, ma alla fine rientro in albergo, e in Italia, felice come un bimbetto.
Una volta a casa, giusto qualche rogna preventivata. Il mio televisore 4K di Sony non è il terreno di gioco ideale per la piccoletta, così mi tocca recuperare uno schermo CRT via Subito.it, che – subito la minchia - mi viene consegnato a tre settimane dall’ordine. Fai e disfa, alla alla fine sono riuscito a prendere in mano il pad soltanto ieri. Ed è stato elettrizzante.
Lo so che rompo sempre le balle col digitale, lo zen e tutto il resto, ma che vi devo dire, oh, è stato figo. Figo e strano, dopo anni di dispositivi connessi, avere di nuovo a che fare con un giocattolo pronto all’uso, senza cose da aggiornare o configurare. Senza log-in o contatti connessi. Zen pure quello, a modo suo. Tipo quando, d'estate, si finisce in qualche spiaggia imboscata dove il telefono non prende.
In più, quando ho lanciato il “pretesto” di cui sopra, Heavy Unit, acquistato su segnalazione del PC Engine man di questi paraggi, e al pelo per entrare nella Cover Story acconcia, ho riscoperto l’importanza di giocare alla roba vecchia nel modo giusto e con l’hardware giusto. Rispetto alla ROM fatta girare via OpenEmu e praticata con un DualShock 4, l’esperienza si è rivelata sensibilmente diversa. E non mi riferisco soltanto alla grafica. A colpirmi sono state soprattutto l’ergonomia e la risposta del pad, che conferiscono una maggiore agilità – mi verrebbe da dire accelerazione - all’astronave/mech; mentre la croce direzionale più ampia aumenta il controllo sull’area di gioco, finendo per ribilanciare l’esperienza. Così, per quanto Heavy Unit resti una roba stronza e difficilissima per i miei standard attuali, su PC Engine faccio sorprendentemente meno schifo. E tutto a un tratto, mi sento pure più giovane.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’arrivo di Neon Genesis Evangelion su Netflix e ai robottoni in generale, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.