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I mattoncini LEGO e la mia breve carriera di game designer | Racconti dall’ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Quando ero giovane io, non c’erano tutti questi set fighetti della LEGO ispirati a film, serie TV e videogiochi, e questo probabilmente è anche uno dei motivi per cui, nel corso degli anni, sono nati tutti questi set fighetti della LEGO ispirati a film, serie TV e videogiochi.

Se come il sottoscritto siete venuti su tra gli Ottanta e l’inizio dei Novanta, ricorderete senz’altro che gli unici set precotti disponibili all’epoca erano, con poche eccezioni, guidati da tematiche standard tipo “spazio”, “cavalieri”, “pirati”, “guardie” e “amici delle guardie”. E non è che fossero male, per carità, ma personalmente facevo fatica a trovarli entusiasmanti quanto le figate robotiche e/o trasformabili che passavano nei cartoni animati.

In ragione di questo gap, non ho mai fatto parte della fazione di aspiranti serial killer ossessivo compulsivi che montavano navi e castelli da millemila pezzi soltanto per metterli sotto teca o tirarli fuori – brividi - due volte l’anno. Decisamente, mi trovavo più a mio agio nel giro dei chaotic good, che chiedevano a Babbo Natale i set giganti con l’unico obiettivo di farli a pezzi dopo due giorni per costruirci qualcosa d’altro.

Da ragazzino, con la scusa che i LEGO erano sempre a portata di mano (e di pubblicità, e di show televisivo) ho tirato su veramente di tutto. Dai super robot in stile Jeeg o Daitarn 3, ai più elaborati real robot à la Macross. Transformers come se piovessero, naturalmente, compresi i componibili e le super-basi, nonché una mezza dozzina di versioni di Golion detto Voltron, che per un periodo è stato il mio robottone preferito.

Tutto questo per tacere dei vari tie-in abusivi tratti da praticamente qualsiasi cosa vedessi in TV. Ricordo con particolare affetto un Sectaurs nato dalla fusione tra LEGO e un paio di vecchi calzini e degli aerei che facevo decollare attraverso un meccanismo basato sul filo di spago, in un impeto di ingegno che oggi potrei soltanto sognarmi.

Per chi non mi fosse sul pezzo, i Sectaurs erano questi cosi qui (facile intuire il ruolo dei calzini).

Detto questo, non sono qui per tirare pezze a rota contro i giovani d’oggi con la pappa pronta. In primo luogo perché la pappa pronta ce l’avevo pure io, con mia madre sempre pronta a viziarmi e a riempirmi di giocattoli da affiancare alle mie creazioni. Eppoi perché, insomma, se durante gli ultimi vent’anni i capoccia dell’azienda danese sono riusciti a legolizzare praticamente qualsiasi franchise sulla terra che nemmeno la Oasis di Cline, permettendo addirittura agli appassionati (quasi sempre adulti) di proporre i propri progetti per poi selezionarne i migliori e impacchettarli a favore di altri appassionati (di nuovo, adulti), è perché abbiamo cominciato noi.

A questo proposito, se bazzicate i videogiochi è senz’altro possibile che durante gli ultimi tempi siate passati per la versione LEGO di Super Mario e compagnia, che stando a quel poco che ho capito dai video, mi pare integri le peculiarità di entrambi gli schieramenti attraverso un gimmick fra il digitale e l’analogico.

Il set nintendoso di cui sopra mi ha fatto ricordare di quel periodo non meglio precisato sul finire degli anni Ottanta quando, trovandomi a secco di console o computer, mi presi la briga e forse anche il gusto di realizzare dei piccoli videogiochi proprio attraverso i mattoncini LEGO (laddove “realizzare” e “videogiochi” vanno presi con le pinze).

Ho parlato di un periodo non meglio precisato ma, in effetti, c’è margine per provare a circoscriverlo partendo dagli oggetti delle mie conversioni, tutti usciti tra il 1987 e il 1988. Ricordo di aver sviluppato almeno due Wonder Boy, versione liscia e in Monster Land (a cambiare era solo il costume del protagonista), entrambe dotate di almeno tre categorie di avversari più boss, e ben quattro livelli – paludi, sotterranei, spiaggia e boscaglia - dagli asset assolutamente intercambiabili, proprio perché i pezzi erano letteralmente gli stessi. Questa feature, in senso lato, rendeva il mio Wonder Boy quasi un arcade perfect, visto che anche quello originale ci andava pesante col riciccio di sprite e fondali.

Sapete perfettamente a cosa mi riferisco.

Il livello di difficoltà era abbastanza elevato, nel senso che era difficile non rompersi il cazzo e decidere di mollare tutto dopo dieci minuti, anche a fronte di un’interazione giocoforza limitata e di un’intelligenza degli avversari non eccezionale, in quanto affidata al mio fratellino di cinque anni.

Più complesso e per certi versi più appagante Dynamite Düx, che oltre a tradire la mia fede di quegli anni, evidentemente rivolta a SEGA, in via dell’ambientazione metropolitana, mi aveva permesso di realizzare dei livelli più lunghi attraverso le apposite piastre, oltre che tutta una serie di bivi nel pieno rispetto del coin-op originale.

Piastre tipo queste.

Col senno di poi, dai medesimi asset avrei potuto ricavare un grande Mario Kart, solo che all’epoca non andavo pazzo per le macchinine, senza contare che all’uscita del gioco ero già un felice possessore di SNES.

Altri titoli che mi vengono in mente, in ordine sparso: Ghouls 'n Ghosts, che avevo dotato di un suggestivo sistema di illuminazione a candele; Last Battle, totalmente privo di censure e molto abbondante lato esplosioni, grazie a dei ciccioli nascosti tra i mattoncini; ma soprattutto Rainbow Islands, basato su un ardito level design verticale che faceva largo uso della mia cassettiera.

La cassettiera ce l'ho ancora.

Col passare del tempo, tuttavia, la mia passione per il game design finì per affievolirsi. Forse ero alla ricerca di sfide più appaganti, oppure ne avevo semplicemente le palle piene. Per qualche tempo mi dedicai alla realizzazione di hardware di imitazione – delle cinesate in plastica, diremmo oggi – tanto simili ai modelli originali quanto totalmente inutili. Nel giro di un pomeriggio, realizzai un NES dotato di controller, col cavo ricavato da una di quelle manine appiccicose e acchiapparelle che si trovavano nella patatine, e con i pezzi avanzati pure un SEGA Master System che, nel suo piccolo, si poteva connettere alla TV (grazie a una ventosa).

A proposito, indovinate di cosa si è parlato negli ultimi giorni?

Lo mostrai tutto orgoglioso anche a mio zio, ma credo di averlo commosso o qualcosa del genere, visto che il giorno stesso mi regalò una console vera. Rendendomi felice, certo, ma allo stesso tempo mettendo prematuramente un punto alla mia carriera da sviluppatore.

Dopo quell’esperienza con i LEGO, infatti, non ho più avuto la minima tentazione di escogitare giochini, figuriamoci pasticciare con kit, codice o quant’altro. Oggi, che anche solo l’idea di mettere le mani sugli editor dei personaggi mi fa girare le palle, qualche volta rimpiango la mia defezione. Magari, vai a sapere, se avessi proseguito sarei diventato come lui:

O forse no.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle esclusive, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.