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Il lungo addio: noir, neo noir e detective stropicciati

Si diventa adulti quando si accetta la fallibilità dei detective.

Per lunga parte della giovinezza c’è questa fascinazione per l’esattezza matematica della risoluzione di un crimine, come un’equazione per la quale se incaselli bene tutti i numeri, se ti ricordi di riportare i resti e non ti incasini con le parentesi, allora troverai sempre il colpevole. Questa è una logica narrativa positivista che pone la ragione a portare ordine nella realtà disordinata e caotica, così la vita, così il crimine: una serie di fattori come indizi, moventi e alibi che incrociati secondo logica possono essere collegati fino alla soluzione del crimine.

Non è un caso che i più famosi detective che fanno dalla razionalità la loro arma come Sherlock Holmes ed Hercule Poirot sono nati in un momento e luogo specifici, e la risposta a entrambi i complementi è l’impero Britannico, che faceva della logica, dell’avanzamento culturale, di una innata idea di progresso, il suo fulcro, anche se visto sulle due sponde della grande guerra, a cavallo della modernità.

Errare è umano, io no.

Ad un mondo di distanza, per quanto sviluppatosi grossomodo negli stessi anni (Auguste Dupin esordisce quarant’anni prima di Sherlock Holmes, e Sam Spade dieci anni dopo Hercule Poirot) , il giallo ha connotazioni diverse, come sono diversi gli anfratti di Londra o la campagna inglese da San Francisco e Los Angeles.

L’hard boiled, i detective stropicciati, nascono sulle pagine delle rivistacce di quart’ordine, quando non direttamente pornografiche. Carta da poco, racconti a puntate venduti a due spicci per la rivista Black Mask prima ancora di passare alla ribalta come fondatori di un genere e in alcuni casi specifici come Il grande sonno, “il secondo miglior romanzo giallo di tutti i tempi” secondo la Crime Writers’ Association.

Se possiamo far risalire la fondazione del genere a Dashiell Hammett, è forse Raymond Chandler a innalzare ulteriormente il livello della materia trattata animandola di un pensiero critico prima di tutto in aperta contraddizione con la poetica di Agatha Christie, fino a una prosa diretta che per certi versi ricorda Hemingway, permettendogli di elevare la sua figura a uno dei personaggi chiave del romanzo americano.

A dare e volto a Marlowe ci sono stati una serie di attori di grosso calibro, esponenti della Hollywood dei tempi d’oro tra i quali spicca Humphrey Bogart in uno strano cortocircuito che avvicina Il grande sonno a Il falcone maltese. Eppure, per quanto entrambi capisaldi del genere nella sua più classica impostazione e figli di un’epoca cinematografica ben precisa particolarmente vicina cronologicamente all’ambientazione dei romanzi, per quanto sia un fan dei vecchi film e adori quella grana e quell’impostazione, non mi sento di infilarli nella mia lista dei preferiti.

Spade o Marlowe?

Gli preferisco troppo di più i neo noir degli anni ’70 in piena nuova Hollywood, un po’ perché spostano l’attenzione dall’intreccio (quasi indissipabile per quanto tortuoso ne Il grande sonno ad esempio) alla costruzione del personaggio con le sue caratteristiche di anti-eroe umano, ambiguo, fragile e fallibile, e quindi di nuovo in contraddizione con i detective infallibili all’inglese.

Chinatown di Polanski ad esempio, per quanto sia una creatura originale e non abbia alcune riferimento letterario, ne è un chiaro esempio. Non avreste mai visto Bogart girare per mezzo film col naso rotto, e questo fa tutta la differenza.

“Non era mai successo a quello di prima".

Ancora di più, una delle mie più recenti e spiazzanti scoperte e motivo per il quale m’è venuta voglia di scrivere questo sproloquio: Il lungo addio, di Robert Altman.

SIGLA!

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Invece di seguire pedissequamente la trama del romanzo, in fase di sceneggiatura sono state compiute una serie di scelte volte al tagliare circa la metà dei personaggi e sfoltire l’intreccio (tanto per scongiurare l’arcinota tortuosità dei gialli di Chandler su schermo), aggiungendo nuovi personaggi e un nuovo finale.

Cosa vuol dire questo nei confronti dell’opera di Chandler? Che Altman, praticamente, gira un saggio sullo scrittore e sul noir tutto per mezzo del suo film. Colloca Marlowe nel tempo presente della Los Angeles degli anni ’70 e sceglie di farlo interpretare a Elliott Gould, anche lui lontanissimo da Bogart.

Il Philip Marlowe di Altman è scalcinato, stropicciato, trascinato dagli eventi, un antieroe totale finanche nella risolutezza con la quale pone fine alla vicenda, a detta di qualcuno anche meglio che nel romanzo dal quale il film è tratto.

Il lungo addio è troppo un film più sul personaggio che sul romanzo dal quale è tratto e questo lo mette in chiaro fin dall’inizio dedicando dieci minuti buoni del film ad uno spiazzante avvio di vita quotidiana.

Katchup/Catsup.

Marlowe dorme vestito, il gatto gli cammina addosso svegliandolo per la fame, lui gli dedica cure e attenzione eppure di fronte al rifiuto del cibo scende in piena notte a cercare la marca di cibo per gatti che il suo preferisce; passa di fronte all’appartamento delle sue dirimpettaie, ballerine e nudiste, e lui glissa, sornione, parlottando tra sé e sé. Una ragazza si stacca dal gruppo, chiede se, andando fuori per compere, può portargli della torta di quelle liofilizzate. Lui va al negozio, ha una discussione sul cibo per gatti con il commesso e compra due tipi di torte diverse alle vicine, rifiutandone anche una fetta perché i dolci gli causano dolore ai denti.

È bellissimo.

Tutto ciò è superfluo alla trama ma perfetto per descrivere gli aspetti del personaggio che Altman vuole portare in scena, lasciando alla scalcagnata fisicità di Elliot Goud il resto. È tutto così nuovo, così diverso da quanto la classica Hollywood ha fatto con il materiale di Chandler che quando lo vidi la prima volta rimasi spiazzato e confuso (prima di amarlo alla follia) dal modo in cui il film aggirava i cliché tipici del noir; cliché che pure arrivano, dopo un po’, ma solo quando nella mente ci si è stampata in testa l’immagine di un Marlowe gattaro. Quel personaggio adesso deve risalire la corrente degli eventi nei quali viene tirato in ballo fino allo splendido finale; un finale, se possibile, ancora più estremo e dolente di quanto sarebbe apparso se la stessa scena l’avesse interpretata Bogart.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.