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Josef Fares a ruota libera sul palco della Nordic Game Conference

Josef Fares, fondatore dello studio Hazelight, ha un passato da regista cinematografico di buon successo (personalmente, ho un bel ricordo del suo Jalla! Jalla!) e solo da qualche anno ha deciso di dedicarsi allo sviluppo di videogiochi, che gli ha immediatamente regalato due grossi successi di critica e pubblico con Brothers: A Tale of Two Sons e A Way Out. Alla Nordic Game Conference 2018 si è seduto davanti a un caminetto virtuale e si è fatto una lunga chiacchierata con Mike Gamble, European Territory Manager presso Epic Games, rispondendo anche a qualche domanda del pubblico in sala. Nel farlo, ha messo in mostra la sua personalità accattivante (quasi ibrahimoviciana, direi) e ha offerto il suo punto di vista su diversi temi interessanti.

Cominciamo con la cosa più importante che Fares ha detto, in coda all'evento: «Non ascoltatemi. Non date retta ai miei consigli o a quelli di chiunque altro. Vi limitano. Createvi i vostri, di consigli.»

Fares ha scelto di passare dal cinema ai videogiochi perché voleva inseguire una sua passione. È sempre stato un grande videogiocatore e quando, tramite delle conoscenze, ha avuto l'opportunità di lavorare su un piccolo prototipo, si è reso conto che forse aveva davvero la possibilità di provare a fare qualcosa in questo settore. E ha voluto provarci. Ma non solo: lui ama raccontare storie, ritiene che l'interattività sia uno strumento creativo potentissimo e pensa che il settore dei videogiochi stia ancora solo pasticciando in superficie dell'oceano di opportunità che l'interazione ti offre in ambito narrativo.

Un punto forte del suo approccio allo sviluppo è l'attenzione al controllo creativo. Al momento di portare avanti il suo primo progetto, ovviamente, nonostante l'esperienza in campo cinematografico, partiva da ultimo arrivato nel videogioco. Dopo il successo di Brothers: A Tale of Two Sons, però, è improvvisamente diventato molto ricercato. E questo, forse, gli ha garantito margini di manovra anche superiori per imporre la sua visione. Anche lavorando su A Way Out, ha messo fin da subito in chiaro qual era la visione per il gioco e non ha mai voluto deviare: era quel che voleva fare, era quel che avrebbe fatto. 

Durante il suo famoso intervento ai Video Game Awards, Fares, garantisce, non era sbronzo. E non fa utilizzo di droghe. Ma l'ambiente era caldissimo. E guardando da casa non si nota, non si sente, ma il pubblico reagiva esaltato e lo incitava. Era un lavoro di gruppo, tipo concerto.

Inizialmente, il gioco doveva essere sviluppato per Microsoft e i termini degli accordi erano quelli. Poi, però, Electronic Arts si è fatta avanti e Fares e i suoi hanno deciso di accettare l'offerta, banalmente, per una questione di comodità (l'accesso agli uffici di DICE in Svezia era obiettivamente utile per uno studio svedese). Ma i termini della faccenda non sono cambiati: c'erano chiaramente dubbi, da parte di EA sulla possibilità di creare un gioco narrativo incentrato sulla cooperativa, ma Fares non ha arretrato di un centimetro, ha mantenuto i piedi fermi. E, di contro, rende atto a Electronic Arts di non aver mai cercato di mettere becco nel progetto, nonostante quei dubbi. Il bello è che poi il gioco ha venduto ben oltre le aspettative e in EA ne sono rimasti molto sorpresi.

In questo senso, dice Fares, è indispensabile volere davvero quel che si sta cercando di fare, credere nell'idea, nel progetto, avere passione e anche un pizzico di arroganza. Poi, certo, bisogna tenere conto del lato economico: per creare un videogioco servono soldi e l'obiettivo è anche di generare un profitto. Ma il punto, per quanto possa sembrare banale dirlo, sta proprio nel trovare una via d'intersezione fra queste due esigenze, senza mai dimenticare la responsabilità che ci si porta sulle spalle.

Ciò non toglie che sia importante trovare idee nuove, che non si limitino a copiare i cliché già esistenti, e inseguirle con forza. Brothers, dice Fares, ha funzionato perché era un gioco unico e fresco. Ha saputo proporsi con un taglio cinematografico, in parte sicuramente figlio delle esperienze precedenti del designer, ma non utilizzandolo nella maniera che si intende spesso. La forza cinematografica del gioco sta nel modo in cui fa crescere e sviluppare i personaggi e, soprattutto, nella capacità di trattare la cosa attraverso l'interazione. E il punto alla fine e quello: fare cose che non si possono fare con film.

Sviluppare un gioco e girare un film sono attività diversissime, per mille motivi, spiega Fares, e infatti spesso chi arriva dal cinema fatica a reinventarsi con efficacia in ambito videoludico. Ma l'esperienza cinematografica di Fares può comunque risultargli utile perché lui conosce bene entrambi i medium, ne conosce le differenze, e soprattutto perché, comunque, lui mira all'interazione, a un ambito in cui c'è ancora tantissimo da esplorare e da scoprire. Del resto, l'obiettivo principale di Fares consiste nel creare cose nuove, sperimentare, inseguire strade mai percorse, anche correndo il rischio di fallire in maniera clamorosa. Non è facile, anche perché devi affrontare i preconcetti: in molti non credevano in Brothers, così come in molti non credevano in A Way Out. Ma lui ha smentito tutti.

I lavori su A Way Out sono iniziati con un team da dieci persone, poi cresciuto fino a quaranta.

Un argomento su cui Fares si trova a riflettere molto è quello della diversità fra i metodi di fruizione che caratterizzano cinema e videogioco. Per lui è estremamente frustrante la classica statistica secondo cui la maggior parte della gente non completa i giochi che inizia. Le statistiche di No Way Out dicono che il 55% delle persone che hanno iniziato il gioco l'ha anche portato a termine. Il nuovo God of War, probabilmente, faticherà a superare il 40% di giocatori che lo completano. E ancora: è la normalità. 55% è un gran risultato, sopra alla media! Vengono considerati numeri normali, addirittura buoni. Si tratta di una percentuale allo stesso tempo molto alta e tragicamente, follemente bassa. «Pensate», dice Fares, «se il 50% della gente che andava a vedere Avatar fosse uscito a metà film e James Cameron l'avesse preso come un ottimo risultato. Surreale, no?»

Si tratta di un problema che Fares sente moltissimo e nella sua testa, essendo questo lo stato delle cose, rigiocabilità e lunghezza di un gioco sono fattori estremamente secondari. Ciò che gli preme è provare a capire come tenere la gente incollata al proprio gioco, lavorando per esempio sulla varietà dell'esperienza. Al riguardo, si esprime in maniera piuttosto chiara. 

«Si produce una quantità spaventosa di contenuti che la maggior parte della gente non arriverà mai a vedere, è uno spreco colossale di soldi, di tempo, di impegno, di forza lavoro. Tanti videogiocatori pretendono quel genere di mole ma poi non la sfruttano. È come volere un tavolo pieno di ogni tipologia di cibo ma poi mangiarne solo un assaggio e lasciare il resto lì a marcire.»

«E, intendiamoci, se hai da raccontare a sufficienza per riempire venti, cinquanta, cento ore di gioco, fai benissimo a farlo. Ma è raro. In genere, è brodo allungato.»

Uno fra i giochi recenti che Fares ha preferito è What Remains of Edith Finch.

Nella parte finale dell'evento, Fares è tornato al concetto di unicità, freschezza, all'idea di provare a fare cose particolari. Secondo lui, oggi come oggi, nei videogiochi, è difficile non avere idee originali, non tirare fuori giochi dalla personalità distintiva, perché il settore è ancora molto giovane e pieno di strade non battute. In ambito cinematografico è molto più difficile avere idee nuove. Eppure, nei videogiochi si vedono un sacco di fotocopie ed è folle, considerando tutto il margine che c'è per sperimentare. E poi dipende anche da cosa si intende quando si parla di rischio. «Il nuovo God of War è un gioco sviluppato con tanto tempo e tanto budget a disposizione, in cui hanno cambiato le dinamiche, hanno spostato la telecamera… certo, in relazione all'IP, è un rischio, ma in senso assoluto lo è molto meno.»

Il fatto, però, è che vediamo spesso idee categorizzabili come rischiose che generano grandi successi. Minecraft, oggi, è un fenomeno che diamo per scontato ma all'epoca, se proponevi un progetto del genere a un grosso publisher, ti ridevano in faccia. Secondo Fares, il desiderio di rischiare e tentare vie nuove è fondamentale. E di nuovo, non significa che non sia importante valutare i rischi, far tornare i conti, ragionare a fondo su quel che si fa. Ma se hai fiducia nella tua idea, devi fregartene di chi ti dà contro. Non che sia facile, intendiamoci. Del resto, prima di sviluppare Brothers, che motivo aveva di essere fiducioso? Era l'ultimo arrivato. Ma bisogna saper bilanciare tutto. Bisogna essere umili, fiduciosi, arroganti, gentili, brave persone.

Humble, confident, cocky. Fares si definisce così. Ma ci tiene anche a precisare che la sua figura pubblica non corrisponde alla sua figura lavorativa. Nel suo studio si lavora bene.

Il settore dei videogiochi, sia dal punto di vista creativo che da quello produttivo, è ancora incredibilmente indietro, ricorda i primi anni di quello cinematografico. C'è ancora tanto da imparare e da consolidare, per esempio nella gestione dei tempi di produzione, nella capacità di prevederli, nello sviluppo di vie e metodologie creative. Ma Fares, nonostante questa convinzione, si dice orgoglioso di far parte del settore. Fosse anche solo perché la gente è decisamente migliore, più apprezzabile. Non pensa di tornare al cinema, gli piace troppo quello che sta facendo. “Farò un film quando avrò bisogno di una vacanza. Fare un film è difficile, difficilissimo, ma rispetto a un videogioco è una passeggiata di salute.”

“I videogiochi sono arte? È una domanda stupida, non vale nemmeno la pena di parlarne”.