Non chiamatelo videogioco: Kentucky Route Zero è in fin dei conti un manifesto politico. Pesante come una porzione di vincisgrassi
La prima volta che ho approcciato Kentucky Route Zero, l’ho fatto nella maniera più sbagliata: ho cercato di “giocarci” nei ritagli di tempo, giusto per distrarmi e svagarmi un po’.
Errore imperdonabile, perché arrivato più o meno a metà della storia, l’ho dovuto abbandonare, tanta era la confusione mentale che aveva generato nella mia testa. Invece di rilassarmi, dopo una giornata di problemi e incombenze più o meno pesanti, mi ritrovavo ancora più stressato, in questa specie di viaggio allucinatorio, dove reale e magico si sovrapponevano e mescolavano peggio che negli strati unti di una porzione di vincisgrassi servita in una trattoria per camionisti.
Pur essendo avvezzo a esperienze indie fuori dagli schemi, in cui la narrazione è la parte preponderante dell’avventura, ho fatto la grandissima cazzata di considerare KRZ ancora un “videogioco”. Se molti titoli (non scomodiamo neanche i Tripla A) ancora faticano a staccarsi dal suffisso “gioco”, KRZ lo ha fatto completamente. Come nella poesia di Robert Frost citata all’inizio, KRZ prende la strada meno battuta, pur ricadendo purtroppo ancora sotto l’antiquato termine ombrello di videogioco che richiama inevitabilmente all’infanzia, all’intrattenimento e al divertimento. Bene, l’opera di Cardboard Computer non è per bambini nè adolescenti, non diverte, al limite intrattiene ma richiede comunque al fruitore un’attenzione costante. È esigente in termini di pazienza, non è immediata, viene fuori sulla lunga distanza, ha bisogno di essere digerita (infatti i vincisgrassi possono essere molto pesanti!).
E allora ho riprovato con la seconda porzione. Questa volta ero armato di taccuino e matita e ho cominciato ad annotare tutti i nomi dei personaggi, le loro storie e i loro intrecci. Poi ho cercato di tirare fuori quelli che erano i luoghi che i protagonisti (si non c’è un solo protagonista, ma molteplici) a mano a mano frequentavano, in un crescendo di stranezze e simbolismi. Lasciando dietro di sé completamente la componente ludica e la sfida, KRZ può risultare piuttosto ostico, vista anche la mole enorme di testo che il fruitore è chiamato a leggere. Siamo molto più vicini alla letteratura (quella con la L maiuscola), ad una pièce teatrale, ad un’installazione di arte contemporanea, alla poesia, al cinema, a un saggio, a un manifesto politico.
Eccoci qua, dopo questa lunga introduzione, siamo arrivati al nocciolo della questione: KRZ è in fin dei conti un manifesto politico.
È la denuncia della malata società americana, dello sfruttamento dei minatori costretti a comprare dei gettoni dai loro stessi datori di lavoro per far funzionare i ventilatori e avere così un po’ di aria.
È la denuncia di una nazione che basa il sistema sanitario sulle assicurazioni, per cui si può accedere alle sovvenzioni statali solo per brevi periodi e a volte si è costretti ad assumere medicinali in maniera fai da te, con risultati alquanto impropri.
È la denuncia del costante rimpiazzamento delle persone umane con la tecnologia e i robot, costrette a lavorare per qualche spicciolo pur di non perdere il posto.
È la metafora di una società sempre più anziana, che non lascia spazio alle nuove generazioni, per cui “ci ritroviamo con una marea di alberi vecchi che soffocano quelli più giovani”.
È un forte grido di rivalsa di tutte quelle categorie di persone che hanno deciso di uscire dalla “società della performance”, come la chiamerebbero i filosofi di Tlon, ovvero una “società che richiede costantemente opinioni, condivisioni ed esibizioni e che ha paura del silenzio, dello spazio, della costruzione, e dunque di un’autentica narrazione. Perché raccontarsi oggi significa fare addizioni, sommare like e post e immagini, non lasciare che qualcosa di sacro emerga da qualche parte di noi che si trova davvero in profondità”.
È il triste falò del lavoro di una generazione che ha passato la propria vita a costruire qualcosa e che non può fare altro che assistere inerme alla sua rovina, perché l’evoluzione è più veloce e tutto diventa subito obsoleto.
È un invito a diventare se stessi, prendere delle decisioni e rimanervi fedeli. Solo così si può diventare “specifici” e non “ombre senza tratti distintivi”.
È infine una denuncia delle corporazioni che detengono e concentrano il potere e che spolpano vivi i propri dipendenti a poco a poco.
In questo senso è esemplare la distilleria Hard Times, che ha stretti rapporti con l’onnipresente Consolidated Power Co.. Già dal nome, che richiama a sua volta un romanzo di critica sociale di Charles Dickens, si può capire che chi lavora qui ha vissuto, vive e vivrà tempi difficili. I dipendenti della distilleria sono tutti scheletri filiformi fatti di luce. Li accomuna una caratteristica: hanno contratto dei debiti che non sono riusciti a ripagare. E quindi sono costretti a lavorare giorno e notte, con turni massacranti.
La fabbrica di bourbon è dislocata in una grotta sotto una chiesa e il suo cimitero, quindi non ci sono finestre a scandire il passare delle ore e delle stagioni.
Su una sorta di altare, nel punto più alto della fabbrica, si erge un’addizionatrice, un pezzo d’epoca che calcola gli interessi giornalieri e il totale restituito dai lavoratori in ottemperanza alla Formula. In una battuta che esprime bene il senso di tutto e che è degna conclusione di questo articolo politico, lo scheletro che fa da guida ai protagonisti durante la visita della distilleria pronuncia queste parole:
“The longer I sleep, the more interest accrues. It's a sin to sleep your freedom away like that.”
Ci ho messo un pò ma alla fine l’ho digerito, KR0, e ce ne fossero di piatti così!
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alla dimensione politica nei videogiochi (e non solo), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.