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La prima notte del giudizio è il sogno bagnato di Salvini

Non avendo riferimenti in merito alla serie di film di James DeMonaco, ché questo è il primo che guardo, La prima notte del giudizio mi ha ricordato diverse altre robe. In ordine sparso: Zombi di Romero, quello del 1978; I guerrieri della notte, il manga Battle Royale. Ma, soprattutto, l’episodio dell’attacco zombi ambientato nel centro di Los Angeles riportato in appendice al Manuale per sopravvivere agli zombi, di Max Brooks. Nel racconto, due bande di malviventi da strada - i Los Peros Negros e i Venice Boardwalk Reds – di fronte alla comparsa dei morti viventi, mettono da parte le rispettive rivalità per ragioni di sopravvivenza, finendo col risultare più organizzati ed efficienti delle forze di polizia:

Ah, mi gasa sempre! Riferimenti pop a parte, il presente ucronico rappresentato ne La prima notte del giudizio - così spaventosamente simile a quello reale - e l’America dei tardi anni Settanta dei film che ho citato non sono poi così distanti. In entrambi i casi, c’è di mezzo una nazione in ostaggio di una classe politica a dir poco discutibile e immersa fino al collo nel razzismo. Inoltre, è innegabile che certe atmosfere di guerriglia e di caos debbano molto all’immaginario mediatico del black-out di New York del 1977.

"Make America Great Again"

Diretto da Gerard McMurray, ma scritto dal creatore della serie, James DeMonaco, La prima notte del giudizio funge da prequel di contesto per i primi tre film. Come si può facilmente evincere dal titolo, viene qui raccontata la nascita dello Sfogo: una notte di sangue che ricorre una volta all’anno, durante la quale al popolo americano è permesso assecondare le proprie pulsioni più brutali senza preoccuparsi delle conseguenze. Stando a quel che leggo in giro, il primo capitolo era il classico “home invasion”, mentre il secondo e il terzo allargavano lo scenario affrontando a viso via via sempre più aperto la satira politica in chiave horror. Così, a pregiudizio, direi che il film di McMurray va ancora più in là, ficca il dito nella piaga di malessere che parte dei cittadini americani (e sicuramente Hollywood) covano nei confronti dell’amministrazione Trump. In effetti, con le sue mazzate al populismo e al razzismo dilaganti, La prima notte del giudizio riflette le attuali criticità di diverse democrazie occidentali, compresa la nostra: lo avessero ambientato nell’Italia di Salvini, anziché negli Stati Uniti, a livello di trama non ne avrebbe risentito. Anzi, probabilmente avrebbe funzionato meglio.

Soprattutto durante la prima mezz’ora di film, McMurray e DeMonaco non fanno nulla per nascondere le proprie posizioni politiche, ed è una cosa che ho apprezzato molto. Tutta la faccenda dell’esperimento originale dello Sfogo, formalmente rivestito di valori para-scientifici dalla Dottoressa Updale (Marisa Tomei), viene promossa dal partito ultra conservatore e ultra nazionalista dei Nuovi Padri Fondatori d'America, i cui membri fanno il verso a Trump e compagnia. Le vittime sacrificali piazzate sull’arena, di contro, sono gli abitanti più poveri dei sobborghi di Staten Island, convinti a prendere parte attiva all’esperimento dietro il modico compenso di 5000 dollari, più eventuali bonus-massacro.

I “buoni”, gli antieroi che si ribellano all’assurda trovata dello Sfogo, sono guidati dal Dmitri (Y'lan Noel) e Nya (Lex Scott Davis): due figli del ghetto, legati fin da ragazzini ma separati dalla vita. Il primo ha scelto di diventare un gangster, la seconda un’attivista politica, ed è tutto un “non sei più quello di un tempo”, “ognuno fa le sue scelte”, “ma in fondo siamo due facce dello stesso ambiente” eccetera eccetera. Questo, purtroppo, è solo il primo dei molti cliché che impediscono al film di ingranare e di raggiungere le finezze contestuali di un Get Out. Sì, perché se entrambe le pellicole di Blumhouse Productions intercettano, pur da direzioni diverse, la dimensione “horror/action/Blaxploitation”; giocandosela sull’iperbole ed eventualmente sul ribaltamento dei luoghi comuni legati al razzismo, La prima notte del giudizio non ha nessuna trovata, nessun guizzo particolare, né a livello di messa in scena, né di scrittura.

Lex Scott Davis e Joivan Wade (Isaiah, il fratello di Nya) al massimo del pathos.

Le sequenze horror o quelle d’azione mi sono parse nel migliore dei casi nella media, con una costruzione della tensione da compitino, che è riuscita a convincermi piuttosto di rado: penso, in questo senso, a tutta la parte di quiete nervosa prima dell'apertura delle danze, che ho trovato abbastanza buona. Anche la faccenda delle lenti a contatto colorate/telecamere che dovrebbero evidenziare l’aspetto bestiale dei partecipanti al massacro non è che sia poi ‘sta trovata (anche se in un paio di scene funziona).

Nel complesso, ho avuto la sensazione di un film che si è limitato a ereditare l’idea dei capitoli precedenti (o successivi, a seconda) senza deviare troppo da una traiettoria diretta e prevedibile. Sì, c’è la presa di posizione politica netta, come ho detto, e alcune scene ospitano riferimenti alla marcia dei suprematisti bianchi di Charlottesville, in Virginia, e al massacro della chiesa gospel di Charleston. Poi c’è il tema degli outsider/gangster che si fanno giustizia da soli, che mi galvanizza sempre (ma quella è una fissa mia).

Eppure, come dire, non che fossi in cerca di chissà quali finezze o analisi socio-politiche, ma tutto, persino la rabbia, finisce col restare sempre un po’ in superficie.

Questa debolezza di fondo non giova ai personaggi e, anzi, concorre a farne emergere la monodimensionalità. Ci sono i buoni, si è detto; c’è il cattivo fuori di testa e strafatto à la Battle Royale (Rotimi Paul) che si gode e fomenta il massacro. Ci sono le vecchiette psicopatiche che nascondono il C4 nei pupazzi; ci sono i colletti bianchi un po’ nazi che si gettano nella mischia mascherati, parafrasando il Ku Klux Klan. Ma tutto non esce mai dal copione, nemmeno per un secondo. Va detto che anche il cast non è che faccia chissà quale sforzo per fissarsi nella memoria dello spettatore; gli attori si limitano a “metterci il fisico” e a recitare dei dialoghi che paiono usciti da un episodio bruttino di The Walking Dead.

Non prendo come un problema, invece, il fatto che nel film facciano tutti i duri con le facce tese credendoci fortissimo. Alla fine, oh, son scelte, e in questo caso ci stanno pure. E poi, quasi sempre, dalla solennità granitica saltano fuori quei momenti comici involontari che mi fanno riderissimo.

Detto questo, se lo chiedete a me, col materiale di partenza e il suo essere così sul pezzo, La prima notte del giudizio poteva fare molto, molto di più; e senza necessariamente finire per menarsela. Allo stato delle cose, resta “solo” un filmetto divertente, con un ritmo tutto sommato decente. Buono per una serata estiva, ma lontano dall’esprimere il suo pieno potenziale sia a livello politico, che di messa in scena (va comunque detto che non mi sono annoiato e che mi è presa voglia di recuperare i primi tre film).

Ho guardato La prima notte del giudizio in contemporanea con l’uscita negli USA – il 4 luglio, pensa un po’ - grazie a una proiezione stampa alla quale siamo stati gentilmente invitati. Come ho detto, il cast non mi è sembrato memorabile, compresa Marisa Tomei, ma devo ammettere che la mia esperienza è stata in parte viziata da un doppiaggio francamente scadente, oltre che da un adattamento che ha completamente brasato ogni minima traccia di slang gangsta.