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Life is Strange 2 racconta l’America di Trump

Nonostante la narrazione nei videogiochi abbia ormai raggiunto da tempo un certo livello, raramente ho giocato a titoli mainstream che abbiano affrontato determinate tematiche (eccezion fatta per Detroit: Become Human, dove il sottotesto politico era intuibile ma non così esplicito). Poi è arrivato Life is Strange 2. Dopo aver apprezzato sia il primo titolo che il prequel Before the Storm, ho approcciato il secondo capitolo delle avventure Dontnod a scatola chiusa, senza conoscere nulla né della trama né dei protagonisti, tranne quel poco che aveva rivelato The Awesome Adventures of Captain Spirit.

Al termine dei cinque capitoli che compongono il titolo, il messaggio lanciato dagli sviluppatori francesi è chiaro come il sole: raccontare l’America di Trump attraverso gli occhi delle minoranze e degli emarginati. (Da qui in avanti ci saranno spoiler sulla trama, quindi chi non ha ancora giocato il titolo e intende farlo dovrebbe fermarsi qui). Il gioco inizia presentando la famiglia messicana dei Diaz, perfettamente integrata nel tessuto economico e sociale statunitense: il padre Esteban, dopo mille sacrifici, ha aperto la sua autofficina che permette a lui e ai suoi due figli di vivere dignitosamente. Sean, il figlio maggiore, da bravo adolescente ha in testa principalmente le feste e le ragazze, senza ancora aver ben chiaro cosa fare da grande, mentre il figlio minore, Daniel, nella sua tenera età di nove anni non si deve preoccupare di nulla se non di giocare e divertirsi. Accade poi un evento scatenante che darà il via alla trama principale: durante un litigio provocato dal vicino di casa, un poliziotto spara a Esteban uccidendolo, cosa che risveglierà i poteri nascosti di Daniel, provocando un’enorme esplosione. Da qui prenderà il via il lungo viaggio dei fratelli Diaz, ricercati per atti terroristici, che porterà i due a percorrere gli Stati Uniti con l’obiettivo di oltrepassare il confine e arrivare a Puerto Lobos, città natale del padre, con la speranza di potersi rifare una vita. Dopo aver perso tutto, Sean e Daniel si ritroveranno in condizioni estreme, diventando praticamente dei senzatetto privi sia di cibo che di denaro, e dovranno affrontare la realtà: il paese in cui si erano perfettamente integrati, è diventato il loro nemico più ostile. Ben presto faranno i conti con l’intolleranza e il disprezzo delle altre persone a causa della loro etnia. Ad esempio, nel primo capitolo, il gestore di un’area di servizio accuserà Sean di furto nonostante lui abbia regolarmente pagato la merce, facendo riferimento a quanto “sia necessario” il famoso muro che divide Usa e Messico, mentre nel quarto, sempre Sean verrà malmenato da due redneck perché stava sostando nella loro proprietà senza permesso. Il culmine dell’odio razziale esploderà poi nel capitolo finale, quando i due fratelli saranno catturati da un gruppo di cacciatori di taglie dal chiaro orientamento nazionalista che, senza tanti giri di parole, li additeranno come la causa principale del declino del Paese. Nonostante tutto, Life is Strange 2 fa trasparire un barlume di speranza, rappresentato dai personaggi positivi che Sean e Daniel incontreranno lungo il loro cammino, dai quali verranno aiutati senza chiedere nulla in cambio, come succede nel terzo capitolo, in cui i fratelli Diaz, insieme ad altri emarginati, formeranno una piccola comunità in cui si sosterranno a vicenda, in una sorta di “grande famiglia allargata”.

Life is Strange 2 è un ritratto amaro – con qualche punta di dolce sparsa qua e là – della moderna società attuale, dove regnano soprattutto rabbia e arretratezza culturale. Forse un giorno la situazione migliorerà, o forse no, ma al titolo Dontnod va dato il merito di aver affrontato coraggiosamente un tema delicato come questo, al netto di qualche debolezza di scrittura che rovina un po' il tutto.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alla dimensione politica nei videogiochi (e non solo), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.