Metroidvania – Questione di Genere (fluido)
Non ho mai nascosto che nella mia cultura videoludica ci sono delle lacune enormi e tra quelle più rilevanti c’è sicuramente Metroid. Non è colpa mia, è che mentre Metroid era figo io ero altrove, anagraficamente o in altre faccende affaccendato, nonostante in un cassetto della scrivania custodissi, tra gli altri, un disco promozionale del GameCube con il suo trailer spaccamascella di Metroid Prime.
Ma appunto, la serie non l’ho mai incontrata, similmente accaduto per Castlevania, come ho raccontato qui e qui.
Quindi il genere che prende il nome di metroidvania come crasi tra i due titoli mi era completamente alieno, almeno così credevo se consideriamo come rientranti in questa categoria solo le due suddette serie. Ma non sono proprio sicuro sia davvero così. Del resto, cosa indica cosa entra e cosa no in un genere? E del resto, cos’è un genere? E quanto è diventato inutile il concetto dal momento che un genere più che una serie di elementi alle quali attenersi è diventato più che altro un canovaccio dal quale attingere per farcire un gameplay.
Del resto, se pure Metroid poteva diventare uno sparatutto in prima persona prima del Grande Boom degli FPS della generazione X360/PS3 tutto è possibile.
Una volta qui era tutto action 2D. Del resto non che abbondassero le alternative, ma comunque. Solo che il gioco invitava ad un ritmo più ponderato, non ci si poteva buttare a testa bassa contro i nemici sparando all’impazzata, ma ci sono tutta una serie di cose da tenere in conto quando si affrontano questi giochi che invece di essere mero contorno diventano gli elementi centrali dell’esperienza. E quindi un particolare focus sull’esplorazione, aiutandosi con una mappa che torna utile dal momento che le strade sono sbarrate e solo da un certo stacco in poi è possibile accedervi tramite potenziamento ad hoc.
Per quanto riguarda Castlevania c’è da dire che non era nemmeno così netta questa linea di demarcazione in quanto i primi episodi del gioco sono più “dritti” e incentrati sul combattimento.
Sta di fatto che il concetto di metroidvania investe completamente un certo approccio al level design che si espande per blocchi progressivi al crescere dell’esperienza del giocatore, magari nemmeno come punti o level up, quanto proprio in termini di tempo speso-cose fatte. Che volendo essere sinceri fino in fondo, troviamo un po’ in giro da sempre, da The Legend of Zelda, per dire, dove senza un determinato oggetto ti sono precluse aree di gioco, tra l’altro questo concetto mi si è intrufolato nella vita ben prima che sapessi l’esistenza del termine metroidvania.
L’elemento emergente più chiaro di questo approccio l’ho assimilato inconsciamente attraverso Ocarina of Time: parla con X, ottieni bracciale che ti permette di raccogliere le bombe, con le bombe puoi aprirti la strada dove prima c’era un determinato tipo di rocce. Facile, nonostante evidentemente la crasi “zeldoid” (o “melda”) non suonasse così appagante.
Ma facendo un piccolo passo indietro già in Super Mario 64 alcune stelle erano accessibili solo se in possesso di un determinato cappello in cui possiamo comunque riconoscere un approccio “morbido” a quel tipo di esperienza, considerando come non strettamente necessari tutti i potenziamenti per portare a termine il gioco, anche se non mi verrebbe mai in mente di dire che Super Mario 64 è un metroidvania.
Subdolamente, questo approccio è diventato uno dei perni della nostra esistenza con la serie di giochi dedicati ai Pokémon, in cui la mia generazione è caduta dentro con tutta le scarpe esattamente come quella prima della mia è caduta nell’eroina, per dire.
Le tecniche MN che dovevamo necessariamente insegnare ad un Pokémon e che non potevano più essere dimenticate per progredire nella mappa, sacrificando uno dei quattro attacchi disponibili, come il flash per illuminare le grotte e il taglio per aprire le strade bloccate dagli alberelli e così via non erano altro che una reiterazione della formula metroidvania in chiave pucciosa.
Più i generi trascendono i limiti delle etichette classiche, proliferano le ibridazioni, più il termine stringente metroidvania viene stiracchiato fino a coprire un ventaglio più ampio di titoli in situazioni imprevedibili.
Il caso lampante degli ultimi mesi è Returnal, il fortunato gioco di Housemarque che ha definitivamente sancito l’entrata dello studio sotto l’egida dei Playstation Studios.
Il gioco può essere letto ed etichettato sotto diversi punti di vista e tutte le definizioni sarebbero giuste, perché oltre ad essere un roguelite per la sua chiara vocazione “ciclica” e il mondo di gioco assemblato proceduralmente ha aree e scorciatoie che diventano accessibili solo nel momento in cui si sbloccano i potenziamenti permanenti. Del resto il gioco non ha mai nascosto una certo debito nei confronti di Metroid, per quanto riguarda una matrice di riferimenti culturali in comune, tutti dalle parti di Alien, con corollario di organismi parassiti e pianeti ostili e protagonista femminile in tuta da astronauta.
Come accade nei giochi di questo genere, una volta che tu giocatore hai preso dimestichezza con l’approccio col quale vengono sviluppati i livelli inizi a vedere questi elementi in mille giochi ai quali hai giocato. Per me fu rivelatorio il primo Darksiders, dove ad una certa pensai proprio a quanto mi ricordasse Zelda come approccio alla mappa. Solo che la reference corretta erano i metroidvania.
Ma anche tutta la serie Barman Arkham ha un grosso debito nei confronti di un gusto metroidvania nel level design, al punto che più che un livello è una mappa esplorabile relativamente grossa dove alcuni punti diventano accessibili solo progredendo lato storia e gadget.
Cronologicamente parlando, l’ultimo titolo che ho giocato a sfruttare questa ibridazione tra generi è stato Star Wars Jedi: Fallen Order. Da qualsiasi parte lo si guardi può essere etichettato in un genere diverso. Superficialmente, appare come un emulo di Sekiro, tra i due giochi passa abbastanza tempo affinché se lo siano guardato bene quel combat system all’arma bianca e ne abbiamo riprodotto una versione all’acqua di rose, non pulita (o punitiva) come quella del titolo From Software ma che comunque regala soddisfazioni perché è veramente facile regalare soddisfazioni brandendo una spada laser. Ma dall’altra parte è un titolo molto narrativo, dove il combattimento è solo relativamente importante, e quindi nella rappresentazione degli ambienti e di quello che fai in quegli ambienti la prima cosa che ti viene in mente giocando è la saga di Uncharted.
Se però guardiamo alla conformazione dei pianeti, alle strade che si aprono progressivamente man mano che i poteri della forza e i potenziamenti per il droide vengono sbloccati, allora è chiaramente metroidvania, non un caso quindi che il primo pianeta che esplori è quello con la mappa più vasta fatta appositamente per tornarci più volte dopo aver sbloccato una nuova “abilità”.
Il metroidvania “quadrato” non è che si sia estinto è che sopravvive in forme diverse.
Ad esempio, da qualche parte c’è una gestione dei livelli e delle “scorciatoie” che ammicca dalle parti dei metroidvania anche nei vari titoli From Software nonostante il focus sul combattimento, così che ogni volta che appare un gioco che si pone come soulslike in salsa 2D è più facile che il riferimento sia a Castlevania anziché a Bloodborne, nonostante l’ingombrante presenza di una onnipresente barra della stamina o la gestione della vita in loop da roguelike-lite.
Si finisce quindi ad aver giocato a più metroidvania di quanti il nome esplicitamente non suggerisca ed è legittimo domandarsi quindi che senso hanno ancora i “generi”, dal momento che i giochi contemporanei si spostano tra di essi con leggerezza e che “saccheggiano” da titoli anche distanti, come lo stealth in Wolfenstein o il platform in Doom.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Metroid e ai metroidvania, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.