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Il peso delle responsabilità e della solitudine di Minute of Islands

L’ultima opera di Studio Fizbin, già autori quest’anno dell’irresistibile e irriverente Say No! More, da voce a tutto quello che gli eroi di solito non dicono, sempre stoici, convinti, pronti al sacrificio senza un attimo di anti-ludico tentennamento. E Mo all’inizio è esattamente come un Link qualsiasi, la personalità nascosta da un cappotto giallo, silenziosa, i suoi pensieri filtrati da una voce narrante calda ma distaccata, che ha ormai metabolizzato gli eventi, ripercorrendoli per raccontarceli. Una ragazzina cresciuta troppo in fretta in un mondo post-apocalittico che ha giusto ricominciato a vivere, trovando un ritmo più rilassato, a stretto contratto con la poca natura che non è ancora stata divorata dal vorace fungo che ha costretto gran parte della popolazione all’esodo, nella migliore delle ipotesi. Una fuga da quella morte troppo sazia, assonnata, con lo stomaco pieno delle anime di parenti, amici e amori di chi ce l’ha fatta, ma dal sonno leggero, sempre in agguato. Un arcipelago protetto da 4 fratelli, giganti di una stirpe che un tempo dominava il mondo, che hanno deciso di diventare déi rinunciando ai propri domini per proteggere i piccoli uomini rimasti dal loro rifugio sicuro, nelle profondità del sottosuolo, immersi in una tecnologia viva, pulsante, organica, lavorando instancabilmente per far girare un motore sacro capace di tenere a distanza la Catastrofe, rimandare la fine.

Metallo organico avvolge e protegge il gigante, creatura dai tratti disturbanti che mi ha subito rimandato indietro di anni, a quella sensazione di disagio nel guardare per la prima volta l’EVA 01 senza armatura a coprirgli il viso.

Mo è la loro prescelta, una sacerdotessa, colei che veglia sui giganti e sulla loro tecnologia, le piccole mani strette attorno all’omnichiave, oggetto di manutenzione psicologica e meccanica ma soprattutto di rianimazione, quando misteriosamente, improvvisamente, il cuore dei fratelli si ferma e con loro il moto perpetuo di protezione e fede che avvolgeva l’arcipelago. È qui che inizia il viaggio dell’eroina, chiamata a ben più del solito giro di controllo per confermare che tutti i depuratori d’aria funzionino a dovere. All’inizio ci si fa ingannare dalla maschera che la ragazza ha deciso di indossare e non togliersi mai, preferendola a quella anti-gas che la proteggerebbe dalle spore, a volte talmente dense da creare una densa nebbia gialla, insalubre, talmente corrosiva da farla sprofondare per qualche minuto in uno stato allucinatorio che la costringe faccia a faccia coi suoi pensieri più intimi, tra angoscia e ricordi. Un menefreghismo verso la propria stessa salute psico-fisica che ricorda da vicino quella degli eroi videoludici, costretti a morire e rinascere centinaia di volte, incassando fendenti, pugni, game over. A quale pro? Qual è lo scopo di tutta questa sofferenza personale? Prolungare l’agonia del mondo o forse salvare coloro che sembrano non apprezzarci mai abbastanza, nonostante la mortificazione di noi stessi sull’altare dell’impresa, dell’eroismo.

I quadri per ricordare il mondo che fu, una collezione di insetti estinti, un telescopio per guardare oltre, più in là della condizione di questi piccoli lembi di terra. Esempi di narrazione ambientale gestita divinamente.

Ogni incontro con i personaggi che popolano l’arcipelago, quasi sempre parenti, porta con sé una quota di disagio, malessere; che sia il ricordo di liti passate, l’insopportabile vista del dolore impressa nel loro volto, quella nota di disapprovazione in una voce che il giocatore non è autorizzato a sentire ma solo a immaginare, la finta compassione di chi non può capire cosa bolle nel cuore di Mo. Quasi incuranti della sua fondamentale missione le chiedono favori che lei non ha il coraggio di rifiutare, mordendo la rabbia tra i denti mentre un “si” esce dalle labbra. È la dissonanza ludo-narrativa delle side-quest, l’apocalisse che ferma il cronometro per aspettare i nostri comodi. Ma non in Minute of Islands, dove la sceneggiatura ci costringerà a subire le conseguenze di questi ritardi mettendoci davanti al nostro fallimento, inevitabile, sofferto ma da un certo punto di vista liberatorio. Niente più aspettative, niente più eroi, Mo è libera dai fantasmi che le invadevano i pensieri come una folla inferocita, insinuando incapacità, inadeguatezza, odio, pronta ad andare avanti, ad accettare le conseguenze con una serenità che forse non ha mai provato. E il giocatore che l’ha accompagnata rimane un po’ interdetto da questo finale atipico, come essere privati dell’ultimo boss, dell’ultima gara di un racing game, come se Mario non riuscisse a trovare Peach in nessun castello prima dei titoli di coda.

“Spingere casse, tirare leve, premere interruttori” è proprio un genere a sé ormai, e Fizbin fa il minimo indispensabile per portare avanti la tradizione. Un gameplay poco motivante, esattamente come poco motivata è Mo

Una sensazione incompleta, straordinariamente umana che Studio Fizbin ha provato a raccontarci e suggerirci fin dall’inizio, scegliendo una direzione artistica particolarissima, una delle più ispirate degli ultimi anni, e un gameplay basilare, privo di mordente ma forse, alla luce del racconto, solo privo di motivazione. Un tratto alla Adventure Time, infantile solo all’apparenza e dettagliatissimo, ricco, colorato di mille sfumature pastello per rendere più digeribile la morte che vive in ogni inquadratura. Balene spiaggiate in decomposizione, dilaniate dai gabbiani che banchettano mentre le spore fungine cominciano a trasformare la carcassa in altro, un’installazione artistica dalle tonalità fluorescenti; villaggi abbandonati arroccati sulle guglie naturali di isole nordiche, costruiti con materiali di recupero, pericolanti eppur curati, pittoreschi, ingegnosi, prova di quella genialità che gli uomini tirano fuori solo nei momenti di disperazione, a volte talmente insopportabili da spingerli a scappare, affrontando il mare e affondando in mare, le loro barche restituite da Poseidone in montagne di metallo, cimitero di speranze arrugginite. Ma c’è anche tanta bellezza, come osservare l’arcipelago dall’isola più alta, appuntita, “un minuto di isole”, contemplandole in silenzio come i turisti in passato si aggiravano attratti solo dalla meraviglia, capaci di far vibrare questo piccolo paradiso col loro vociare. Quante storie si possono raccontare semplicemente attraverso il colpo d’occhio, i colori del cielo, il modo di arredare una casa o di rendere onore ai propri defunti. In Minute of Islands ci sono decine e decine di questi silenziosi aneddoti, che per certi versi lo accomunano a post-apocalittici di grido come The Last of Us, sia come impatto emotivo che come densità, cura, umanità e vi dirò di più, per me l’opera Fizbin è seconda solo a quella Naughty Dog, appunto - soprattutto al secondo capitolo - per la capacità di raccontare gli anni dopo il disastro e le pene di chi è stato costretto a restare.

I sogni lucidi, psichedelici in cui sprofonda Mo dopo aver respirato troppe spore sono il suo modo per scollarsi totalmente dalla realtà, almeno per qualche minuto.

E alla fine la banalità del gameplay (un puzzle/platform poco puzzle e poco platform) viene diluita, sciolta, assorbita dal world building e dal nostro organismo, processata come un atto necessario a modulare i ritmi narrativi senza rubare la scena a questa disillusa epopea che contribuisce a scardinare gli stereotipi narrativi delle avventure videoludiche cui siamo abituati, con un approccio più cinico e sicuramente efficace, sorprendente, da sperimentare senza paura. Un grande esempio di maturità.