Outcast GOTY 2021
Ce l’abbiamo fatta! Anche quest’anno concludiamo la rassegna di OTY e, dopo avervi segnalato le nostre serie TV preferite del 2021, dopo avervi indicato anche i nostri film più bellissimi del 2021, tocca inevitabilmente ai videogiochi.
Buona lettura e buon 2022!
Antonio Bellotta
Se dieci anni fa mi avessero detto che avrei assegnato il premio di gioco preferito dell’anno a un MMORPG non ci avrei creduto o quantomeno avrei immaginato un futuro piuttosto deprimente. E invece…
Un po’ come gli undici oscar a Il ritorno del re, che erano sì assegnati al film, ma erano anche premi alla trilogia tolkeniana in toto, allo stesso modo il mio GOTY di quest’anno va a Final Fantasy XIV - Endwalker. E in realtà non è solo un premio a quest’ultima espansione che chiude, almeno apparentemente, questa fase del gioco online di SquareEnix, ma vuole essere un riconoscimento a tutto quello che Naoki Yoshida & company son riusciti a creare a partire da A Realm Reborn. Ricordiamo che Final Fantasy XIV è iniziato col fallimento cosmico della prima versione, che ha costretto i creatori a distruggere letteralmente buona parte del mondo di gioco con uno degli FMV più belli di sempre, e a ricostruirlo poco alla volta con le espansioni successive. Un crescendo di narrazione, gameplay e spettacolo visivo nonostante un motore grafico di dieci anni prima.
Endwalker è la culminazione di questo percorso di distruzione e rinascita, che accomuna la storia dello sviluppo del gioco e quella raccontata dal gioco stesso. E ci va giù pesante, trattando temi spesso snobbati dagli sviluppatori orientali e molto più spesso raccontati dalla scena indie occidentale: depressione, esistenzialismo, suicidio, senso della vita, temi che neanche ti aspetti da un MMORPG. Il tutto ovviamente con il classico tocco delicato nipponico. E poi il gioco è quel che è, divertente, molto equilibrato e costruito per non costringere a farming sfrenato. Ma forse la cosa che mi ha sorpreso di più di tutta la mia esperienza con Final Fantasy XIV è la community, molto lontana dagli eccessi tossici di World of Warcraft (perlomeno dieci anni fa, quando ho fatto la leva lì). Non ho mai incontrato persone più carine, pazienti e volenterose di aiutare come quelle che vivono nel mondo di Hydaelyn. Che in questi tempi di isolamento reale e metaforico scalda il cuore quasi più delle storie che il gioco racconta.
Menzioni d'onore per quest'anno vanno a Metroid Dread (e che gli vuoi dire?), Psychonauts 2 (che è né più né meno che quello che mi aspettavo e va BENISSIMO così) e Inscryption (che, oltre a essere un bel gioco, c'ha quelle belle paraculate “meta” che mi mandano in brodo di giuggiole fisso).
Giuseppe Colaneri
Nonostante le ore possano indicare Shin Megami Tensei V e il cuore urlare Metroid Dread, preferisco citare un gioco che dal 2021 sono certo mi porterò un bel po' anche nel 2022. Non posso che far riferimento a Guilty Gear STRIVE, ultimo episodio della ormai longeva e prolifica serie di picchiaduro Ark System che - ancor più del recente Dragonball Fighter Z - racchiude al meglio la filosofia dello studio e, soprattutto, quella del suo creatore Daisuke Ishiwatari. Che è anche autore di molte delle musiche del gioco, che sono tanto fantastiche quanto abbacinante è l'aspetto visivoo.
Ma Strive è anche dannatamente bello con pad, stick o hitbox alla mano: il ritmo un po' più lento rispetto a Xrd lascia comunque trasparire un gioco più accessibile, sì, ma sempre molto tecnico, decisamente votato all'offesa e allo sfruttare il "momentum", con un output dei danni tanto esagerato quanto esaltante. Un cast di personaggi che tra vecchie leve e nuovi arrivati è decisamente variegato, con ogni combattente che ha le sue unicità... e i tre personaggi aggiuntivi DLC lo dimostrano, con meccaniche assolutamente fuori di capoccia.
Non ci ho giocato forse quanto volevo ("solo" una cinquantina di ore abbondanti), ma dopo il mio fidato Axl sono tornato tra i round con Giovanna e mi ci sto divertendo davvero da matti. Non rimpiazzerà nel mio cuoricino Street Fighter V e il mio sfigato quanto incazzato Alex, ma sono pronto a spaccarmi le dita ancora un bel po' su Guilty Gear Strive.
Vincenzo Aversa
Ho trovato meraviglioso Returnal, con quella faccia sbirulina da cassone in sala giochi. Ho scartato pian pianino quello che Loop Hero aveva da offrirmi e ne ho conquistato la fine con ore e ore di sudato farming necessario. Ma poi è arrivato Inscryption, ne parlava bene qualcuno, e il 2021 ha avuto il suo vincitore. Perché, anche ad impegnarmi, non posso spiegare cosa ho avuto tra le mani. Inscryption non è un gioco che puoi raccontare agli amici perché vive per sorprenderti e poi, quando sei convinto di averlo capito, ti sorprende ancora. È così ben camuffato nelle carte e nelle sue meccaniche che puoi persino credere di averlo battuto, di averlo rotto, ma di nuovo qualcosa cambia e resti solo, senza poterlo davvero spiegare a qualcuno.
Andrea Maderna
Il mio gioco dell’anno è Deathloop, non perché sia un capolavoro inarrivabili, il miglior immersive sim della storia, il capolavoro di Arkane Studios o qualche altra fregnacciata sensazionalista del genere. No, solo perché è un gioco che ha il coraggio di osare, di sperimentare, di appoggiarsi su formule consolidate per trovare soluzioni fresche e tirar fuori un’esperienza che risulta allo stesso tempo familiare e nuova, tranquillizzante e dirompente. E perché mi ha sorpreso, intrigato, coinvolto e divertito dall’inizio alla fine, tirandomi fuori sorrisi, risate e sguardi d’ammirazione fino all’ultimo secondo, durando il giusto e levandosi dai maroni prima che fosse troppo tardi. E per mille altri discorsi che ho fatto nel podcast qua sotto. Fossero tutti così, i videogiochi moderni.
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Fabio Di Felice
Cosa sta succedendo? Quest’anno il mio GOTY non è il titolo giapponese misconosciuto con le loli, ma un gioco danese con un tizio calvo che spara alla gente.
Davvero? Certo che ne ha fatti di danni ‘sto Covid.
Però la questione è piuttosto semplice: negli ultimi dodici mesi, nessun gioco mi ha divertito come Hitman 3; nessun altro gioco mi ha spinto a giocare e rigiocare gli stessi livelli piegandoli al mio volere per mettere in scena azioni sempre nuove, sorprendendomi continuamente. E dire che ai primi due avevo giocato in maniera svogliata, un po’ a spizzichi e bocconi, raccattati come due cucciolotti all’interno di chissà quale bundle, chissà quale cestone delle offerte. Scattata la folgorazione con il terzo capitolo, ci ho scaricato dentro tutte le mappe degli Hitman precedenti e, oh mio dio, per un mese non ho fatto altro che travestirmi da cuoco di sushi, da parcheggiatore abusivo, da fattorino di Just Eat, per infilarmi sotto l’occhio delle telecamere e avvelenare drink, far cadere lampadari e ficcare penne a sfera nel cervello di ricchi e spietati multimilionari. Che goduria. E il terzo capitolo, probabilmente, è anche il più eclettico: per esempio, c’è tutta una missione ambientata in Inghilterra in cui rubi l’identità di un investigatore privato e giochi a una sorta di Cluedo in una vecchia magione scricchiolante, come in un libro della Christie.
Menzione d’onore: Sapienza, una città italiana sulla Costiera Amalfitana dove 47 deve far saltare le cervella a Marco Abiatti, esponente di spicco dell’estrema destra tricolore. La missione inizia nel bel mezzo di una sagra di paese, con la musica, il vino e la gente in spiaggia, e sarà che dopo due anni segregato in casa sono particolarmente sensibile, ma che bellezza starsene lì a sorseggiare del rosso mentre la signorina sul palco canta in un italiano ciancicato. Si fotta Abiatti, io mi godo la mia vacanza virtuale, che quelle vere chissà quando mi toccano.
Davide Moretto
Qui è un po' complicato, nel senso che il gioco da me preferito quest'anno non è uscito nel 2021 ma è arrivata sul mercato la sua versione Director's Cut (ma io ho giocato a quella originale). Sto parlando ovviamente di Death Stranding. Non sono mai stato un grandissimo fan di Kojima in se, nel senso che ho giocato a quasi tutto quello che ha prodotto ma non l'ho mai osannato come fanno molti, ma con Death Stranding devo ammettere che non solo ha superato le mie più rosee aspettative, ma mi ha veramente colpito e commosso. Ma dato che dire Death Stranding è un po' barare, mi salvo in corner con il multiplayer di Halo: Infinite (e solo il multiplayer, che la campagna è meglio lasciarla perdere).
Gianni Mancini
Un gioco banale, dalle meccaniche basilari e ripetitive, a tratti frustrante. Eppure è il mio gioco dell'anno. Niente mi ha colpito di più (forse solo Unpacking) di come viene raccontata la storia di Charlie. Anche se ormai è un cliché abusato, la terra devastata di Golf Club Wasteland mi si è fissata nella mente. Non grazie a chissà quale grafica fotorealistica o a personaggi memorabili. Il grosso del lavoro viene svolto dalla colonna sonora. Mentre cerchiamo di mandare in buca una pallina da golf tra mucche radioattive e monumenti sgretolati, dagli auricolari del nostro casco ascoltiamo in sottofondo Radio Nostalgia from Mars. Qui la calma e profonda voce dello speaker manda in onda le canzoni (tutte originali) che si ascoltavano sulla Terra prima dell'esodo (per i pochi fortunati) su Marte. Ogni tanto viene pubblicizzata l'unica bevanda disponibile sul pianeta rosso, che assomiglia tanto anche nel nome al soma de Il mondo nuovo di Huxley. Ad intramezzare la musica ci sono poi gli interventi dei radioascoltatori, che da ogni angolo della Terra ci offrono uno spaccato della loro vita, i loro rimpianti, le loro prospettive, le loro storie. Ecco, quello che Golf Club Wasteland fa in maniera eccelsa e nuova è raccontare una storia (se vogliamo anche banale) ma lo fa in maniera coesa, sottotraccia, coerente, su più livelli. E poi le moltissime citazioni letterarie, poetiche, politiche, musicali, cinematografiche, iconiche. Sono i piccoli dettagli che contribuiscono a rendere credibile e a reggere l'impalcatura del gioco, che altrimenti in sé e per sé crollerebbe dopo i primi due o tre livelli. Golf Club Wasteland è un giochino casual, che però nasconde una profondità unica e che riesce a sfruttare appieno il medium videoludico per raccontare una storia e lanciare un messaggio anche a chi non è avvezzo a joypad o console. Mecojoni!
Angelo Di Franco
Nessun gioco di questo 2021 ormai finito mi ha entusiasmato come Hitman III. In realtà, tutta la trilogia dell’Agente 47 mi ha divertito come poco altro durante la scorsa generazione. Hitman III è il classico more of the same ma, onestamente, non c’era bisogno di nessuna novità di rilievo o introduzione particolare: la saga, dopo aver accantonato il fallimentare Absolution, è tornata in gran spolvero ripercorrendo la strada dei vecchi episodi. Inseguire gli incauti bersagli, camuffarsi grazie ai travestimenti, studiarne le abitudini, sfruttarne i punti deboli ed eliminarli nei modi più disparati possibili, creando “incidenti” sempre più divertenti ed elaborati, mi ha intrattenuto per diverse ore. La possibilità di eliminare gli obiettivi in più e più modi, le escalation e i bersagli elusivi lo rendono rigiocabile all’infinito, senza dimenticare i corposi DLC e contenuti aggiuntivi vari, che permettono di allungare ulteriormente l’esperienza con il sicario pelato. Gli scenari, tanto suggestivi quanto curati e dettagliati, invogliano a esplorare e scoprire ogni singolo centimetro percorribile, imparandoli a memoria per poter compiere l’eliminazione perfetta. Hitman III è la perfetta conclusione di una trilogia pienamente riuscita, capace di riportare in auge una saga ormai ventennale, che mi auguro prosegua anche sulle nuove console.
Stefano Calzati
In ballottaggio c’erano anche Chicory e Returnal, due giochi straordinari e totalmente diversi per gameplay, atmosfera e valori produttivi, che rispecchiano la varietà di un anno assolutamente ricco, nonostante le apparenze, ma se c’è un’opera che merita di essere nominata più di altre è Everhood. Il gioco sviluppato da Chris Nordgren e Jordi Roca, esteticamente ispirato ad Undertale ma tutt’altro che un suo clone, è un rhythm RPG psichedelico, contorto e profondo, ambientato in un mondo sospeso tra la vita e la morte, corrotto, in frantumi, come fosse un rom hack di un JRPG i cui abitanti sono rimasti intrappolati in una dimensione eterna e disumanizzante all’interno del codice, capace di rivoltarne la mente e trasformarli in esseri senza speranza. Una riflessione sull’esistenza alla ricerca della “luce in fondo al tunnel” a colpi di battaglie musicali pazzesche, tiratissime, sulle note di quella che per me è a mani basse la soundtrack dell’anno, mentre l’art direction si distorce e prende forme confuse, colori incredibili, come fosse sotto LSD: acidissimo. L’Undertale della droga.
Natale Ciappina
Arriva un punto in cui bisogna governare i propri interessi: perché il tempo libero inizia a essere poco e bisogna fare delle scelte, anche se dolorose. L'idea di rinunciare ai videogiochi mi ha sempre messo una gran tristezza, come se fosse il segno del mio definitivo passaggio alla vita adulta. E così, di fronte alla scelta, ho fatto un passo indietro e uno in avanti, tornando a giocare a Destiny 2 (per la terza volta dal lancio del primo gioco, nel 2014), in particolare con Destiny 2: Oltre la luce, perché mi prende al massimo una decina di ore alla settimana e perché ci sono i miei amici, fondamentalmente. Ma soprattutto perché, oggi più che mai, è un gioco incredibile, nonostante tutto. "I hate Destiny, it's my favourite game", come scrivono su Reddit.
Stefano Talarico
Dottore, buongiorno. Sono qui perché ho un problema con Forza Horizon 5. Pensavo davvero che Psychonauts 2 non avesse rivali, del resto è un gioco splendido, pieno di idee, fresco come una rosa, divertente da giocare e grazioso da subire con quelle cutscene uscite per direttissima da quindici anni fa, a dimostrazione che il primo Psychonauts non è invecchiato male, era semplicemente rotto già all’epoca e non è invecchiato di un giorno. Invece, dottore, Forza Horizon 5. Dopo il more of the same del terzo e la delusione del quarto, pensavo che i fasti del secondo non sarebbero mai tornati… ma vede, io sono ancora qua in Messico, mesi dopo l’uscita, a dedicare ogni minuto di tempo libero a rilassarmi e a godermi il viaggio. Non ho neanche raggiunto la superficie di Halo: Infinite, ché mirare è veramente troppo sbattimento. Le missioni giornaliere, i regalini nei fienili, le driftate, le mille gare diverse e le modalità di gioco che altrove mi repellono e che qui mi gasano, la bellezza mozzafiato di un gioco con qualche bug di troppo ma anche troppo bello per crederci, considerando pure che ci sto giocando su una console che, nominalmente, non è la nuova generazione… dottore, ma lei l’ha mai vista la nuova generazione? Come dice? Lei non è un dottore? Il viaggio non è solo su ruote? Ruote fa rima con peyote? ¡Ay, caramba!
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Pacione Bosconovitch
A dispetto di quanti dicano in molti, il 2021 è stato un anno pieno di uscite meritevoli: fra titoli di grande spessore come Deathloop o Tales of Arise, fino ad arrivare a perle AA come It Takes Two.
Sinceramente, nel 2021 ho visto perle per tutti i palati, compresi il bellissimo Shin Megami Tensei V. Ma se dovessi scegliere un gioco che effettivamente mi ha portato a decimare le mie ore di sonno per il divertimento che mi provocava, sceglierei a mani basse Deathloop.
Il titolo di Arkane Studios non mi ha fatto dormire per alcune notti perché propone un gunplay per me eccellente, un sistema roguelike già esso togli sonno e un level design veramente magistrale.
La cosa più divertente di Deathloop, per me, è visitare e rivisitare le mappe e scoprire sempre qualche anfratto e pertugio nuovo, da cui si può predominare in maniera migliore sulla malcapitata I.A. nemica.
Deathloop, probabilmente, è il mio gioco del 2021.
Stefano F. Brocchieri
Il mio gioco dell'anno è Halo: Infinite. Anche se.
Segue flusso di coscienza di cacchi miei. Perciò scappate finché siete in tempo, vi ho avvertiti. Oppure mettevi in fila per sputarmi, che potreste essere raggiunti da delle offese buttate là in maniera rigorosamente passivo-aggressiva.
Anche se non sono mai stato un fan della serie e, anzi, sotto certi aspetti mi dà proprio fastidio e mi dà fastidio come se ne parla. Anche se Halo: Infinite non lo aspettavo e ogni singolo video della Campagna mi appallava, ma a un certo punto ho deciso di autohyparmi, perché, ehi, non c'è davvero nulla da giocare, gira pure sul mio PC e allora voglio crederci. Anche se, appunto, su PC è un port di cazzo morto. Anche se il single player è un mezzo disastro che porta chiari i segni di una gestazione travagliata e con una struttura talmente stereotipata da fare tenerezza e meritare addirittura le note di biasimo di quelli che, quella struttura, l'hanno legittimata negli anni a botte di votoni ai vari Far Cry e altri open world merdoni fintonati. Anche se la storia pare scritta da nerd che non sembrano aver mai bigiato un giorno di scuola o essersi nemmeno fumati uno spinello ed è un polpettone stopposissimo a base di Esiliati, che sono gli stessi tre scimmioni, una lucertola e un branco di chipmunk di quando si chiamavano Precursori, che erano gli stessi tre scimmioni, una lucertola e un branco di chipmunk di quando si chiamavano Covenant che al mercato mio padre comprò. Anche se il 70% dei dialoghi son frasi preoccupate/sospirate/attapirate recitate coi puntini di sospensione in cui si parla di “Auditorium Silente”, “Pantagenesi” e altre robe coi nomi altisonanti cuciti attorno alle solite cose da attivare, contro-attivare e ri-attivare, spesso e volentieri alla fine di un pallossissimo livello in interna. E il restante 30% son scambi tra Chief e la nuova companion I.A. che vorrebbero essere tanto simpa e brillanti, imbastendo il classico rapporto da strana coppia insieme per forza, à la Mel Gibson-Goldie Hawn, ma ce non la fanno mai, mentre dieci anni fa esatti quella perla di scrittura di Bulletstorm è morta nell’indifferenza generale. Anche se mentre sei lì che attivi l’ennesima roba dal nome altisonante, di cui avrai senz'altro sentito parlare in Halo Wars 2, un fumetto, tre romanzi e un fan-movie poi rimosso da YouTube, il gioco ricicla per l’ennesima volta l’animazioncina con cui Chief appoggia l’I.A. su un terminale e lei ci sale su con un doppio passetto un po’ impacciato, con le mani dietro al suo culone da Jennifer Lopez dei tempi d’oro, nel tentativo di suscitarti un misto di tenerezza e arrapamento. Anche se è tutto talmente insopportabile che a un certo punto, quando rispunta l’imbarazzante villain principale, ovvero un tizio col costumone anni Sessanta da gorilla, un vocione che sembro io con la raucedine e un set di battute titolo di studio battesimo, sei quasi contento. Anche se, al contrario, le frasette dei nemici generici, specialmente i chipmunk, non sono state mai così varie, divertenti e puntualmente collegate con ciò che succede a schermo, e mi sono riscoperto una loro groupie totale, dovendo un po’ ingoiare l’orgoglio e anni di “ah-ah, ma andate a cagare voi e l’incel con il casco che combatte i pupazzetti”. Anche se mica l’ho capito se questa fantomica I.A. della madonna, che tutti nel 2021 esattamente come nel 2001 in realtà ti descrivono come “ce sta quello che scappa, quello con lo scudo, quello che ti aggira", effettivamente sussiste, dato che a differenza di quello che faccio di solito, non sono stato lì a giudicarla col monocolo e a sperimentarci autisticamente. Anche se tanto io e la maggior parte della gente parliamo da anni lingue diverse e mi son pure stufato di provare a far capire che gli zombie di Left 4 Dead e il bestiario di DOOM 2016/Eternal hanno un’I.A. di pregio, quando buona parte dei miei interlocutori mi guarda con gli occhi spenti, mentre in testa probabilmente gli gira in loop l’immagine sbiadita di sparatutto militaroide fascistoide da camperoni giocato da adolescenti, quando ancora dovevano capire se si sentivano più di destra o di sinistra. Perché sin dai primissimi istanti, sono stato lì a giocarmela con quella roba formidabile del rampino, che trasforma i combattimenti, le traversate e, in definitiva, la percezione generale dentro a un titolo che spesso denota un vuoto cosmico altrimenti soverchiante. Uno strumento implementato da dio, in maniera fisicamente-corretta ma anche con la consapevolezza di poter rompere le cose, da concatenare slancio dopo attrito dopo un cambio di momentum dopo una svirgolata a una sorta di bunny hopping e via di nuovo, ad libitum, dove ti portano il cuore e una gioia di pasticciare tutta fanciullesca. E così profondo che dopo 25 ore di campagna pensavo di non averlo padroneggiato totalmente, mentre ancora non mi ero stufato di sperimentarci, tanto era divertente, e senza il quale questo probabilmente sarebbe stato lo stesso Halo anni Settanta di sempre, a passo di lumaca, sebbene con le migliori meccaniche sparacchine di tutti (ciao Bungie). Mentre a combattere un po’ Spidey, un po’ Rico Rodriguez, un po’ DOOM Slayer in più di un’occasione mi sono usciti fuori dei dieci minuti di gameplay semplicemente sensazionali, con le routine dei nemici e la fisica che mi venivano appresso in un disegno sandbox da Cappella Sistina, dimenticandomi per un po’ dei tanti difetti del gioco. E non mi sono mai pentito, manco per un secondo, di ignorare i veicoli il 99% delle volte, scalandomi anche i più impervi dei muraglioni ottagonali sfruttando il suo effetto-elastico. O crepando provandoci, pronto a ritentarci, over and over. Senza contare che ci puoi anche trollare Battlefield, anzi quello che è rimasto di Battlefield dopo che per più di un decennio EA l’ha mandato a morire appresso a Call of Duty, i battle royale e la sua cupidigia e una delle community più confuse e al tempo stesso supponenti sulla piazza s’è mangiata il resto, ma tanto quest’anno è l’anno del Battlefield della Rinascita™ .
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Anche se il rampino, purtroppo, in multiplayer non ha tutto questo spazio. Ma il multiplayer è comunque una roba turbofantastica, che mi sta tenendo attaccato come non succedeva dai tempi del 2, il mio Halo MP preferito. Anche se pure questa parte della proposta ha un po’ di problemi ma no, quello della progressione è tra gli ultimi e mi son rotto il cazzo sin da subito di sentir parlare quasi solo di quella da parte di farmatori compulsivi e gente che si inserisce in scia perché è l’argomento dominante o apparentemente elaborato meglio, vuoi per opportunismo, vuoi per pigrizia, vuoi perché è così che giorno dopo giorno facciamo tutti quanti un po’ schifo e rendiamo Internet e la percezione delle cose delle robe peggiori. Anche se, in effetti, son qui per il gameplay ma tanto il sistema ha ridotto anche me alla peggio casalinga farmatrice. Anche se non sento mai parlare abbastanza di una Microsoft mai così lucida e perfettamente in sintonia con i tempi, con la sua politica crossplatform, free 2 play, platform agnostic e cazzi & mazzi, mentre i competitor nell'anno di grazia 2021 coltivano ancora il culto per la scatola di plasticaccia da mettere sotto il televisore e altre perversioni che ci ostiniamo a non far morire una volta per tutte. Anche se anni fa, nel pieno del mio attivismo PCista, son sceso in tutte le piazze che potevo (forum, social, testate per cui lavoravo, incontri con i diretti interessati) a fare sassaiola contro i primi tentativi della casa di Redmond con il crossplatform. Ma non mi rimangio nulla, ne sono tuttora fiero, perché facevano cagare e il mondo sarebbe stato nettamente peggiore, lo penso anche se non vengo corrisposto, perché probabilmente il me stesso di allora tirerebbe un sanpietrino in mezzo agli occhi anche al me del 2021, novello collaborazionista. Anche se rischio di parlare poco di quanto caspita è bello il multiplayer di Halo: Infinite, in grado di instillarti quel mix di competitività e rosicamento capace di tenerti lì incollato, a voler fare un’altra partita. E poi un’altra e un’altra ancora. E l’aspetto fantastico è che è una cosa universale, perché lo genera a me come a tutti i conoscenti, i contatti e gli amici con cui ci sto giocando. Gente che io che ho abbandonato le piazze di Xbox Live una decina d’anni fa non beccavo da eoni. E già solo loggarsi e vedere i loro nomi online è stato un autentico tuffo al cuore. Figurarsi giocarci assieme, risentire la loro voce e scoprire che, anche se nel mentre sono intercorsi dei figli, divorzi, problemi di salute, sogni infranti e quant’altro, tra noi non è cambiato nulla, siamo gli stessi di sempre.
Anche solo per questo, per me, il 2021 è stato l’anno di Halo.
Alessandro De Luca
Il mio gioco del 2021 è uscito nel lontano 2017 ed è Destiny 2. I cosiddetti “Game as a Service”, o GAAS per abbreviare, i giochi che sono aggiornati continuamente con contenuti nuovi dopo il loro lancio, sono ormai una realtà consolidata del mondo dei videogiochi. Spesso e purtroppo sembrano solo una scusa per tentare di spillare soldi ai consumatori per il più a lungo possibile, ma ci sono anche rappresentati del genere che riescono anche a regalare gioie videoludiche notevoli. Intendiamoci, Bungie con Destiny 2 combina spesso disastri quando si tratta di monetizzare il proprio gioco, tra versioni multiple della stessa espansione che contengono contenuti diversi, ritiro dei contenuti vecchi per fare spazio a quelli nuovi (se questa cosa vi sembra assurda è perché lo è) e altre scelte all’apparenza inspiegabili.
Il 2021 del gioco, però, è stato davvero fantastico. Io ho ripreso a giocarci più o meno a giugno. Mi ero preso una lunga pausa, ormai trovavo Destiny 2 stantio e ripetitivo, ma in seguito ai commenti entusiasti dei giocatori, ho deciso di dargli un’altra possibilità. E sono stato davvero contento di averlo fatto. Le meccaniche di gioco sono sempre quelle solide che ricordavo, ma Bungie sembra aver finalmente trovato il giusto bilanciamento tra il modello stagionale e la necessità di avere una certa coesione narrativa lungo tutto l’anno. Questi ultimi mesi dell’anno purtroppo sono stati un po’ vuoti di contenuti a causa del rinvio a febbraio di The Witch Queen, la nuova espansione, ma i sei mesi appena trascorsi mi fanno ben sperare per il futuro del gioco. L’espansione è ormai imminente e io non vedo l’ora di continuare a giocare a Destiny 2.
Stanlio Kubrick
Il 2021 ha visto la fine definitiva ufficiale irrimediabile irreversibile di una saga ormai decennale (la versione Flash di The Binding of Isaac risale al 2011) e che è cresciuta a dismisura e disordinatamente come uno di quei tumori che si trovano in abbondanza nel gioco stesso, arrivando persino a inglobare materiale che arriva dal fandom e dalla ricca comunità di modder e content creator che si è sviluppata intorno al bambino che ammazza le cacche con le sue lacrime. Secondo la mia PlayStation, ho giocato ad Isaac per un totale di 2044 ore, che viste così mi sembrano anche poche, considerando che per una buona fetta di questi ultimi dieci anni gli ho dedicato almeno un’ora al giorno. The Binding of Isaac: Repentance è la miglior versione di Isaac possibile? Non ne sono sicurissimo al 100%, ma è sicuramente la più completa e la più varia e interessante, e visto che Isaac è il miglior gioco di sempre, non può che essere il mio VGOTY.
Andrea Giongiani
Ho sempre avuto un debole per i giochi di ruolo. Sono il mio genere preferito, insieme alla serie Mechwarrior e ai simulatori fatti come si deve. Ma Pathfinder: Wrath of the Righteous è stato, in realtà, quasi un fulmine a ciel sereno. Mi aspettavo un gioco di ruolo decente, ma non mi sarei mai aspettato, non avrei mai osato sperare, in una epica storia che richiede circa 150 ore per venir completata.
Wrath of the Righteous è il seguito del già ottimo Kingmaker, ed entrambi sono basati sul sistema di regole di Pathfinder, che è fondamentalmente D&D 3.5 migliorato, per farla breve.
Lati positivi? Molti. Moltissimi. La creazione del personaggio è qualcosa di estremamente versatile, con decine di razze tra cui scegliere, e molte delle classi a disposizione (a loro volta decine, ognuna con varianti!) offrono discendenze che permettono di creare combinazioni volendo anche estreme e fantasiose. Come, per fare un esempio, un Aasimar (ovvero un umano che ha antenati angelici) mutaforma capace di trasformarsi in leopardo i cui antenati hanno avuto relazioni sentimentali con un drago rosso e con un diavolo (gente che sa divertirsi, insomma).
Va da sé che l’ideale non è cercare di creare la cosa più arzigogolata del mondo, a meno che non piaccia proprio fare questo, ma sfruttare il complesso sistema per poter creare il personaggio dei propri sogni, l’eroe che si sarebbe sempre voluto interpretare.
La presenza dei path mitici, poi, permette di realizzare una vera e propria power fantasy, rendendo il giocatore una specie di supereroe all’interno di una invasione demoniaca del mondo di Golarion. Qui tutto il mio plauso va agli sviluppatori e agli scrittori, che hanno creato personaggi credibili e divertenti (o inquietanti, come Camellia).
Difetti? Soltanto uno. Pathfinder è un sistema di regole che si presta sfortunatamente molto al power playing, e molte delle statistiche e sfide che si incontrano sono bilanciate in modo non propriamente ottimale. Quel che intendo dire è che pensare di affrontare il gioco al livello di difficoltà che loro definiscono “da manuale” è in realtà poco realistico, se non per qualcuno che ha anni di esperienza con le regole stesse ed è disposto a sacrificare la libertà di crearsi un personaggio che “piace” per creare un personaggio che, semplicemente, picchia duro.
Se si è alla ricerca di una esperienza di gioco di ruolo entusiasmante, una bella storia, bei personaggi, bei dialoghi e soprattutto un’avventura lunga e più variegata di quanto faccia pensare un’invasione demoniaca, Pathfinder: Wrath of the Righteous è davvero vicino a essere un capolavoro. Peccato l’apertura ai poweroni, ma in fondo anche loro hanno il diritto di giocare, parrebbe.
Un ultima nota sul sistema di combattimento: è sia in tempo reale con pausa tattica, sistema sicuramente noto agli amanti di Baldur’s Gate, che completamente a turni. A differenza di quanto accade in Pillars of Eternity, non è necessario scegliere un sistema all’inizio della partita e mantenerlo vita natural durante, ma si può passare dai turni al tempo reale con la pressione di un pulsante. Non posso smettere di lodare questa scelta, che permette di superare rapidamente gli scontri più facili e di prestare tutta la dovuta attenzione a quelli più epici e importanti.
Se si amano i giochi di ruolo, Wrath of the Righteous lo consiglio assolutamente.
Andrea Peduzzi
Lato giochini, il mio 2021 è stato prima di tutto un implacabile inseguimento verso PlayStation 5, che sono infine riuscito a raggiungere nonostante gli sbalzi d’umore dei vari Amazon, Mediaworld e GameStop; e se ripenso alle code online di Ferragosto o agli sbalzi umorali di certi siti, mi viene ancora da stare male, mi viene. First world problem, lo capisco, ma d’altro canto lì son nato, e pure a ridosso degli anni Ottanta, quindi ho poco da fare il piangina.
Comunque. Una volta piazzata in casa la consolona Sony, non è che ci abbia fatto granché, eh: tra questo che mi ero già sparato di là e quell’altro che tra poco arriva sicuro sul Game Pass, alla fine ho ceduto a Deathloop. Il primo approccio con l’ultima fatica di Arkane Studios non è stato dei migliori, anzi: un po’ per l’estetica stravista, un po’ per l’organizzazione delle mansioni in odore di Excel, e dio solo sa quanto detesti i fogli di calcolo, soprattutto quando vengono decontestualizzati e trasformati in griglie - bleah! - statiche.
Fortunatamente sono riuscito a non scoraggiarmi, andando oltre la mia proverbiale pigrizia, e una volta tirata su un po’ di massa, ho finito per farmi risucchiare dai vari loop e finanche apprezzarne la spensieratezza, fino a decidere di proclamare Deathloop il mio giochino dell’anno, con buona pace di Metroid Dread. E lo so anch’io che le esperienze incredibili da mozzare il fiato son altre, ciononostante ho trovato l’avventura di Colt e Julianna morbida, scritta a modino e capace di premiare la costanza del giocatore, permettendogli di crescere in armonia con l’avatar. Soprattutto, una volta smazzato il tutorial, in compagnia dei Visionari non mi sono mai, mai, mai annoiato, e questo per me vale tantissimo.