Dieci ricordi che ho di Pengo | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Si può incenerire un bel ricordo? Ricordarlo così tanto, così tante volte e per così tanto a lungo da annientarlo, da rendertelo inviso, da non volerne più sapere? Una domanda che anni fa non mi sarei mai posto. Ero abbastanza nuovo da non aver ricordato bei ricordi abbastanza a lungo da farmeli venire a noia. Anche perché l’organismo si autotutela. Non è che puoi forzarti a pensare per ore a quella volta che hai sessuato ed è stato bellissimissimo. A un certo punto il pensiero si sposta da qualche altra parte naturalmente. siamo abilissimi a distrarci, dopo tutto!
Un videogame è un oggetto ricordabile che può essere piuttosto ingombrante. Intanto perché non è solo un oggetto, un testo semioticamente inteso. Il videogioco si completa nel momento in cui qualcuno è lì a giocarci. Pertanto, giocando innumerevoli volte, o per innumerevoli ore, ci creiamo un monte di impressioni, che diventano un monte di ricordi. Se penso a Wonder Boy in Monster Land, non ricordo semplicemente la piacevolezza del gioco in una sua forma perfetta, un walkthru ideale dei suoi contenuti: lo penso invece in rapporto a quella mia partita a Lignano Riviera del 1991, a quella volta su Twitch con Ceccotti che avevo la febbre, a quell’altra volta che ho fatto il longplay in dialetto triestino, a quando ho ricostruito le stats di tutte le armature in reverse engineering e via dicendo, fino ad arrivare alle volte che manco giocavo io, ma ero io comunque io a costruirmi il ricordo relativo a quel momento.
Wow. Mental.
Tornando alla domanda “si può incenerire un bel ricordo?” direi pertanto che per il momento non mi è mai successo, e tantomeno per i videogiochi, oltremodo spessi e forieri ciascuno di innumerevoli ricordi legati a spazio, tempo, persone, insomma tra testo e contesto. Se vivrò abbastanza, è possibile che alcuni ricordi semplicemente usciranno dall’hard disk mentale e tanti saluti, non saprò che li ho dimenticati, perché li avrò dimenticati. Ma il bello, o quello che i nostalgia goggles trattengono come bello, resta abbastanza stabile qui a farmi compagnia, a prova di inceneritore.
Userò come case study Pengo. Un gioco che ho amato densamente dal giorno in cui l’ho incontrato. Un gioco che è tra i responsabili massimi della mia caduta negli inferi videoludici, più di tante altre pietre miliari. Sono uno che non scambierebbe Pengo con Pac-Man. Ma d’altro canto sono certo che esista qualcuno che non scambierebbe Betty Grable con Marilyn Monroe (e posso dimostrarvelo col video qua sotto). Lasciate allora ch’io mi crogioli e VI crogioli nei miei ricordi. Si può, semanticamente, crogiolare qualcun altro/a o è solo riflessivo? Bo’, proviamoci e vediamo se vi resta spalmata addosso la crogiola.
1.
Sono del 1974. Non ho certo aspettato fino all’estate del 1984, per scoprire quanta fosse la peccaminosa soddisfazione nel gettare via il proprio tempo con Pong cloni, schiacciapensieri Polistil e Atari vari. Ma il punto di non ritorno, quello in cui la scimmia videoludica si gonfia tronfia nell’orizzonte del destino fino a coprirne ogni possibile sprazzo, be’, quello lo si è giunto al campeggio Punta Spin di Grado (GO) appunto nel luglio 1984.
Non mi dilungo oltre in questa sede, se proprio volete potete immergervi in un gioco di scatole cinesi con questo post sul mio blog in cui si citano altri post del mio blog.
Fatto? Ecco, la prominenza di Pengo nel carnet dei giochi che hanno obnubilato la mia coscienza dovrebbe esservi chiara. Volendo fare un’analisi un po’ meno psichedelica, Pengo era un gioco che, partendo dal canovaccio di Pac-Man, offriva uno sguardo su ciò che sarebbero potuti diventare i videogame. Pac-Man era già di per sé pop, ma la cultura popolare lo aveva messo sul podio a prescindere dalle sue indubbie qualità: era la sua natura intrinseca di nuovo medium a decretarne l’importanza per la cultura di massa. Il fatto che fosse enormemente divertente e godesse del game design più raffinato visto fino a quel punto era più il cavallo di Troia che aveva scatenato l’euforia delle masse. Il mezzo, non il fine.
Pengo, invece, arrivando dopo Pac-Man, poteva prendersi il lusso di stravolgerne le logiche, proponendo un suo preciso gusto di design alternativo. Come un disco degli Stones che esce dopo un disco dei Beatles: chiaro, quello vi piace, ma QUESTO? Siete in o out? Avete la scelta, non è roba per tutti, è di massa, ma vi chiede una scelta di gusto.
Innanzitutto perché è dannatamente cute, molto molto più di Pac-Man. C’è quella kawaii-ness Sanrio del personaggio, la rivelazione dell’immenso potere videoludico della silhouette dei pinguini, tanto che Konami ci si butta subito a capofitto (e si potrebbe fare un pamphlet anche solo sull’affollamento di pinguini nella storia dei viggì, ma quella solo se Danilo Dellafrana mi prepara una lista inquietantemente esaustiva). Ci sono le scenette di intermezzo, come in Pac-Man e soci, ma qui c’è anche, durante l’attract mode, una scena totalmente slegata dal gioco con una marea di pinguini colorati che gironzolano e un’aurora boreale talmente psichedelica che la copertina di Odessey & Oracle degli Zombies a confronto è quella di uno degli LP bianchi di Battisti. E qui, in questa estetizzazione dell’attract mode, c’è comunque già quella sboronaggine estetizzante tipica della SEGA di lì a venire.
Più prettamente legato al game design, Pengo colpisce per la sua stratificazione degli obbiettivi di gioco. Sì, è un arena shooter ante litteram in cui si usano i blocchi di ghiaccio per eliminare tutte le snow-bees, e lo scopo principale è quello. Ma la grande attrazione è data dalla possibilità di far finire contigui, in fila, tre blocchi di diamante. Riuscendoci, megabonus da 10000 punti (5000 se lo si fa a ridosso di uno dei bordi, perché va da sé che è più facile!). Per carità, il post Pac-Man arcade di qualità si gioca tutto su questo layered risk/reward design, pensate ai titoli Universal tipo Mr. Do!, ma oh, a me m’ha colpito in fronte prima Pengo.
(Ci sarebbe poi la musica, a cui andrebbe dedicato un paragrafo a parte. E infatti le dedico un paragrafo a parte.)
Pengo fa un’altra cosa coraggiosissima: non riesce a soddisfare tutte le sue promesse. Pengo è un gioco programmato un po’ col culo, cosa di cui ci si accorge ovviamente solo giocandoci ossessivamente. Gestisce approssivamente tutti gli eventi che avvengono in contemporanea, in particolare il sistema di priorità di lancio del blocco, movimento dei nemici sulla griglia, spawn dei nemici. A meno che non siate così bravi da evitare di proposito le situazioni di cui sopra, avrete un vago senso di unfairness in diverse circostanze. Che coraggio c’è in tutto questo? Il coraggio della disperazione, di qualcuno che ha messo fretta agli sviluppatori, o di loro stessi determinati a far uscire il pinguino dal nido, anche se non debuggato come si competerebbe a un gameplay molto più articolato di quanto visto fino ad allora. In un mondo senza patch. Lasciando al giocatore quel senso di imperfetto e di “nei giochi del futuro non succederà”. Sbagliato, pessimo, dionisiaco. Come gran parte dell’esistenza, d’altro canto. La perversione di lasciarsi illudere dalla promessa di un futuro migliore e con meno bug, questo è Pengo. E tanti, tanti giochi a seguire.
Naturalmente non ho pensato tutte le cose qui sopra nel 1984. Le ho pensate da allora, a spizzichi e bocconi, quando volevo avvolgermi nella coperta delle memorie di Pengo.
2.
Finita l’estate tornai a scuola, pronto per farmi l’anno scolastico 1984/1985, la quinta elementare, like a king, con i miei nuovi grandi amici: i videogiochi. Più comodi di quelli veri, tutti lì stipati nella mia mente, nel mio corpo, nel mio spirito. Bastava evocarli e sarebbero arrivati a farmi compagnia.
La forma di evocazione più semplice? Il disegno. Disegnavo tantissimo anche prima, ma i videogame erano ancora più disegnabili dei soggetti provenienti da fumetti e cartoni, perché ti dovevi impegnare per riempire gli spazi tra i pixel, magari con l’aiuto del marquee o delle side art del cabinato (sì, anche i cab tarocchi che imperversavano nella Penisola avevano talvolta degli elementi custom relativi ai giochi che ospitavano).
Essendo kami molto potenti, i personaggi dei videogiochi a volte venivano fuori nei disegni anche a sproposito. Una volta la maestra ci lesse una qualche versione abridged del Faust in classe (sì, era una grandissima) invitandoci a disegnare quello che avevamo sentito. Ed ecco che nel mio disegno il Diavolo diventò Pengo, con tanto di cravattino d’ordinanza e, per evitare confusione, un bel balloon “ciao sono Pengo sono un pinguino birichino”. La maestra si incazzò molto, ma non per il disegno in sé, ma perché erano MESI che effettivamente nella mia mente non v’era spazio per nulla che non fossero i videogame. Cioè, ormai perfino lei sapeva a menadito le regole per giocare a Pengo. Senza averlo mai visto in vita sua.
(Nota a margine: in effetti poi si è scoperto che il Diavolo veste il cravattino, intendo Pillon)
Vero però che quando arrivò l’estate, dopo aver discusso per l’esame di quinta elementare una tesina sui miei videogame in basic dedicati ai Duran Duran (ve la racconto un’altra volta), mi ritrovai in un campo scout dove la mia capacità di disegnare Pengo e gli altri personaggi fu apprezzata da molti altri lupetti, saltati nel mentre sulla carovana della scimmia videoludica, principalmente grazie a Commodore e Spectrum.
Una delle mie illustrazioni preferite da copiare di Pengo è sicuramente quella delle copertine della conversione Atari. Non capivo, era così bella che pareva giapponese, aveva una gioiosità cromatica che oh, e vabbe’ adesso anche gli americani possono farcela ogni tanto. Nel 2016, con la pubblicazione del fondamentale volume The Art of Atari a cura di Tim Lapetino, ho scoperto che uno dei più valevoli illustratori Atari si chiamava Hiro Kimura. OKKEY.
3.
Questa cosa di ficcare i videogame nelle materie di studio non mi abbandonò più. Nel senso che sì, pure la tesi di laurea la feci sui videogame.
In prima media, mi giocai meglio la Pengo-fiche allorché la nuova insegnante chiese di comporre una poesia a tema libero, seguendo una delle metriche che ci aveva spiegato. Io ovviamente non usai né sequenza né metrica come richiesto, ma composi invece utilizzando la metrica della colonna sonora di Pengo. Ricordo la prima strofa: “Son tre ore che sto qui/ e mi scappa la pipì / mamma mia mi sento male siamo solo a lunedì”. Mi fece un sacco di complimenti, dicendomi che per quanto avessi fatto di testa mia avevo di fatto imbroccato una certa metrica medievale de sarcazzo non mi ricordo. Io non seppi stare zitto e portarmi a casa il kudos, ergo rivelai l’origine, pure cantandogliela. Si mise a ridere, dicendo “ah, ma è Popcorn”
Io: “In che senso? Il gioco si chiama Pengo, non Popcorn”
Lei: “Ma no no, il titolo di quel brano musicale è Popcorn, si vede che lo hanno impiegato nel videogioco!”
AH.
Quindi quella musica elettronica fighissima non l’avevano inventata quelli di SEGA? Ma pensa te. Non sapevo proprio niente del mondo!
E sì, anche quell’insegnante lì era una grandissima. Fosse anche solo perché è la prima persona ad avermi detto, con stima, che sono uno stronzo. Altra storia, raga.
4.
E immediatamente mi si triggerò nella testa la necessità di sapere di più di Popcorn. Chi l’ha scritta? Dove potevo trovarla? Dio che frustrante il 1986, che manco nei negozi di dischi trovavi qualche commesso in grado di dirti nome, cognome, spartito in merito a Popcorn. “Ah il programma di Canale 5? No, non credo ci sia un disco con la sigla” Ma vaff. Sicuramente le mie capacità di ricerca da dodicenne lasciavano a desiderare, ma cristo, ci misi DIECI anni per trovare nome e cognome dell’autore. Fu una delle primissime ricerche che feci sul World Wide Web. Gershon Kingsley. 1969. Anche se poi la versione quella bella è la cover degli Hot Butter. 1972. Tutti i tasselli a portata di browser. Che sballo il 1996, Netscape e quella sensazione che madonna che bel futuro radioso che ci aspetta. Vabbe’, almeno da lì nacque la mia passione per la musica elettronica anche non strettamente videoludica, dai. Yellow Magic Orchestra. Andate ed ascoltate.
5.
Torniamo indietro. Al 1987. Questa poi la racconterò più estesamente quando scriverò il secondo romanzo della trilogia che ho di dentro. Però sì. C’era questa ragazza che mi piaceva, eravamo al bar a giocare a Wonder Boy, parlavamo della musica del gioco, e io, eterno timido sbruffone:”Ah, ma sai che la so suonare col piano?” L’avevo in effetti tirata giù ad orecchio il mese prima. Lei mi scherzò, mi derise, povero ciula badula ma che dici, è la musica di un videogame, NON SI PUO’ suonare su un pianoforte. “Ah no? Vieni da Orvisi che ti mostro”. Orvisi era il più grosso negozio di giocattoli della città, a cinquanta metri da là. Veramente non so dove trovai il coraggio, ma uscimmo dal bar e la portai nella sezione “tastiere Bontempi” di Orvisi. Restò di sasso - sapevo suonare la melodia stracciamaroni di Wonder Boy, e addirittura a due mani (complessivamente suonavo con due dita, ma se non altro era polifonico). Siccome era una tipa sempre pronta al rilancio, e per questo ero cotto di lei, subito mi apostrofò con un “Vabbe’, ma qualcosa di un po’ più interessante lo sai suonare?) E lì BAM ti piazzo Popcorn, suonata addirittura con QUATTRO dita, col basso sull’ottava tipo disco dance duba duba duba duba, come effettivamente nel coin-op, visto che il brano originale col suo infectious du dubadù dubadù dubadubadubadù ancora non lo conoscevo. E lei sorrideva, applaudiva, un po’ confusa che uno sfigato come me forse avesse dei lati un po’ meno sfigati, perché forse alla fine facendo la media risultava che non ero sfigato ma normale e insomma c’era questo normale che le stava dietro e tutto sommato era simpatico e no ma cosa andava a pensare ma insomma
dubadù dubadù dubadubadubadù.
6.
Era un’epoca di arbitrario oscurantismo, quella precedente all’emulazione. A Pengo non rigiocai in versione da sala giochi per oltre dieci anni. Mi tenevo caro il clone, accettabile ma senza il mordente originale, per Commodore 64, ma solo perché, cara grazia, avevo ancora un Commodore 64. Fu un leggero dolore intercostale durato una dozzina d’anni. C’è una cosa a te tanto cara e NON HAI MODO di entrarci in contatto - tanto più grave quanto non è un soprammobile feticistico, ma un qualcosa che si realizza solo nell’atto di metterci le mani sopra e giocarci.
Sapevo bene fin dai tempi dell’Amiga che era possibile simulare/emulare vecchi sistemi su quelli moderni, e già nei primi Novanta qualcosa si era visto anche sotto MS-DOS, ma mai, MAI in quegli anni avrei osato immaginare che si sarebbe poi giunti all’emulazione dei coin-op. Ora sappiamo quanto mi sbagliassi.
Purtuttavia, poco, pochissimo prima che questi emulatori arcade arrivassero, venne distribuito su Internet un emulatore Game Gear, ad opera del mai troppo lodato Marat Fayzullin. Sarà stato fine 1996, e il MasterGear - questo il nome dell’emulatore - fece apparire sul tubo catodico del mio PC una conversione potenziata dell’arcade. Un po’ più chibi, un po’ più facile, con un botto di livelli in più, con due brani musicali che si alternavano di cui uno era, fortunatamente, Popcorn. Ma solo sulla ROM giapponese, in quella europea, per questioni di diritti, niente Popcorn, dovete morire, europei. Grazie, emulazione. Anni dopo scoprii che la conversione era ad opera di Arc System Works, gente di gran garbo.
Segnalo anche come su Game Gear ci sia un gioco, Ninku Gaiden: Hiroyuki Daikatsugeki del 1995, ispirato al non chissà che noto manga Ninku. Siccome uno dei protagonisti è il pinguino scorreggione Hiroyuki, il gioco su licenza è una versione straleccata di Pengo, che tanto è sempre SEGA e allora volemose bbene e grazie a Dan Hero che me l’ha fatto scoprire. Nemmeno Dan però lo ha visto presentato da questo tipo fantastico, il VERO drugo.
Aggiungo in coda che il sequel di Pengo su Megadrive giapponese, Pepenga Pengo, fu una delle mie più grandi delusioni videoludiche di sempre. Trasformato in una specie di Bomberman. Pure programmato bene, con la grafica leccata, ma che zozzeria fastidiosa. Ecco, non voglio spenderci altre parole che non “zozzeria fastidiosa”.
7.
E qui dovrei parlare della botta nel momento in cui è infine arrivata l’emulazione arcade di Pengo. Che corrisponde anche all’arrivo dell’emulazione arcade tout court. Tra fine 1996 e inizio 1997, i coin-op emulati se magnano tutta la scena retro, la gente non capisce più niente, escono emulatori che da un giorno all’altro prima non potevi giocare a Pengo e poi SIIIII ma dopo tre ore guarda puoi giocare a Mr. Do! e poi dopo due giorni a Bomb Jack AIUTO vi giuro io non capivo più una fava avevo dimenticato perfino il sesso, tutto, decisi anzi proprio di fidanzarmi stabilmente a quel punto perché non potevo andare in giro a cercare avventure e CONTEMPORANEAMENTE gestire un simile flusso di piacere ludico.
La cosa più ridicola fu che non ebbi il tempo di dire “Ehhh sì Pengo, ma io giocavo a un cabinato tarocco che si chiamava PENTA, e vorrei rigiocare proprio quello lì per il sapore autentico della tarocc..”BAM, emulato anche Penta, emulato tutto, emulata tua madre, emulati cinque set diversi, encrypted, unencrypted, con Popcorn, con una musica alternativa che insomma anche no, prima non c’era niente e poi di colpo c’era troppo, tutto, COMPLETO.
Trasmetterò la sensazione overpower con questa cover senza senso, ma simbolica dell’overpower, di Popcorn.
Fun fact: la versione Saturn Sega Ages - Memorial Collection Vol 1 è successiva e, secondo me, ispirata da primi pengo-emulatori. E non è nemmeno ‘sto granché.
8.
Cosa poteva superare il piacere di avere Pengo sempre a disposizione in emulazione? Ma avere THE REAL THING. La scheda da sala giochi di Pengo. Anzi no, del bootleg che giocavo io a Punta Spin, Penta. Non è mai troppo tardi per cadere nelle trappola hipster dell’autenticità, ed eccomi qua, sepolto di schede PCB da sala giochi mezze rotte. Pengo, anzi, Penta, è stata la seconda scheda in assoluto che ho preso, dopo Bomb Jack. Ecco un resoconto di me medesimo che io e Fabio una fatica per fare sti filmati e poi alla fine sono stati cacati relativamente poco, però ci siamo divertiti.
Giacché come potete, anzi non potete, sentire nel filmato, la scheda aveva e ha l’audio un po’ andato, ecco che decisi nel 2019 di dotarmi della scheda originale. Visto che non si parla mai di soldi, vi dico che Penta, quindi pirata, la pagai 20 euro, mentre Pengo originale un centone. Probabilmente vi sembro pazzo,e pensate che tranquillamente i prezzi sono raddoppiati. Pengo è stata quasi l’ultima scheda che ho acquistato. Quasi.
9.
Quasi sempre, quando provo a fare musica con hardware vecchio nuovo, faccio una cover di Popcorn, pensando a Pengo, però. Qui dentro (e in apertura di ogni episodio di Outcast Popcorn), infatti, se fate bene attenzione, sentite anche il jingle di fine schermo e l’Inno alla Gioia che fa da colonna sonora alle scenette. Sul perché si chiami Super Locomotive Mix... troppo lunga da spiegare, ma si torna sempre alla Yellow Magic Orchestra e forse di conseguenza anche a Mike Bongiorno.
10.
Meta-ricordi: ecco quella volta che ho giocato a TUTTI i cloni di Pengo esistenti per Commodore 64. Un’idea del menga assurta a performance. Praticamente il mio manifesto programmatico, “un’idea del menga assurta a performance”.
Al 2018, perché poi ne sono stati fatti altri. Memorie che generano fatti che generano altre memorie. Come quelle che ho scritto qui sopra - lungi dal risalire tutte a un tempo lontano, riempiono letteralmente decenni, incastonandosi le une nelle altre. Perde chi cerca in tutto questo, o in tutto in generale, un senso. O l’assenza del medesimo. Inchiodatevi davanti a un vecchio gioco, che sappia essere allo stesso tempo mantra e mandala, e tuffatevici dentro - se state cercando qualcosa, qualcosa troverete. Anche niente, che magari è proprio quello che vi serve, anche se non lo sapete.