Pine: a story of loss dovrei farlo provare a mio padre ottantaseienne
Mio padre era un boscaiolo. Ha fatto quello per tutta la vita. E fin quando non mi sono trovato un lavoro, soprattutto da ragazzino e adolescente, l’ho aiutato per quasi tutte le mie estati. Mi ha portato con il suo camion nei boschi, lo vedevo abbattere (con la motosega) gli alberi, trascinarli (col trattore) fuori dal bosco, togliere i vari rami, caricarli sul camion, trasportarli fino a casa dove poi li tagliavamo e spaccavamo (più o meno una volta al mese venivano due signori con un camioncino dotato di sega a nastro e spaccalegna). Fatto questo, non restava che ricaricare i tronchetti di legna sul camion e scaricarli dai vari clienti che durante l'estate facevano le scorte per l'inverno. A ripensarci ora, dovrei ringraziare mio padre, che ha appena compiuto 86 anni, per avermi fatto comprendere cosa significhi lavorare con le mani, all'aria aperta, essere a contatto con la natura e con un materiale nobile e vivo come il legno. In un tempo in cui la frase memetica “go out and touch the grass” è quanto mai attuale, mi ritengo fortunato ad aver passato così tanto tempo nei boschi o comunque facendo un lavoro manuale, pesante e faticoso. Solo che all'epoca ero giovane e non capivo o non riuscivo ad apprezzare certe cose. Tutto il tempo che dovevo dedicare alla legna rubava preziosissimi momenti ai cartoni in TV o al mio primissimo home computer. E ora potrei parlare per ore del perché e del percome i miei genitori decisero di acquistare proprio uno sfigato Commodore Plus/4, ma questa è un'altra storia.
Quando ho visto il primo trailer di Pine: a story of loss, pubblicato da Fellow Traveller (publisher che raramente sbaglia un colpo e che ha distribuito tra l'altro il mio GOTY 2024, di cui magari parlerò a tempo debito), ho pensato che dovevo giocarci a tutti i costi. Le premesse erano molto interessanti. Innanzi tutto saltava subito all'occhio una bella direzione artistica. Le meravigliose illustrazioni di Tom Booth si avvalgono di colori delicati, dai toni pastello quasi slavati. Il tratto è deciso ma minimale, pochissime linee riescono a dipingere le emozioni (spesso tristi) del protagonista. Gli sfondi, invece, sono molto più dettagliati, e sono una combinazione di grafica 2D e 3D. Anche le animazioni, pur se non fluide perché fatte da pochi frame, riescono a rendere “vivo” un ambiente altrimenti molto statico. Poi l'altro aspetto che mi intrigava era quel sottotitolo “una storia di perdita". Sono stato sempre affascinato da storie che trattano il tema del lutto in maniera onesta. Tempo fa ho scritto un lungo articolo sulla morte nei videogiochi e questo Pine: a story of loss sarebbe stato un'aggiunta interessante. L'ultima cosa (o forse la prima?) è che il protagonista è un boscaiolo, proprio come mio padre.
Se c'è un sostantivo italiano che definisce bene il protagonista è “omone”. Ha braccia possenti, mani enormi, spalle larghe. Ma quello che stona, e che forse più lo contraddistingue, è lo sguardo. Ha gli occhi spenti, nonostante siano appena abbozzati con due linee o due puntini. La vitalità sembra averlo abbandonato. Per la maggior parte del tempo, se ne sta seduto di fronte alla sua casa, costruita probabilmente con le sue stesse mani, in mezzo a una radura circondata da un enorme e altissimo bosco. La casa stessa simboleggia lo stato d’animo dell’uomo: isolata, un po' decadente, in balia del tempo. Il tetto di paglia ha continuo bisogno di manutenzione. Infatti una delle poche mansioni che deve svolgere il boscaiolo nelle sue monotone giornate è quella di falciare il grano e stenderlo al sole per procurarsi la paglia per il tetto. Oppure andare a prendere l'acqua al pozzo o raccogliere le verdure nell'orto. In questo contesto pseudo-bucolico, si percepisce molto forte la solitudine sia fisica che psicologica. La potenza e la violenza della natura, la sua noncuranza nei confronti dell'essere umano che se ne sta inerme e solo ad assistere al passaggio delle stagioni, metafora stessa della vita.
Il boscaiolo sta attraversando una profonda depressione, dovuta alla perdita della moglie. Non ha sicuramente elaborato il lutto ed è rimasto impantanato nella fase della rabbia e della negazione. È evidente che ha smesso di vivere e ha scelto di sopravvivere. Per veicolare questo sentimento, gli sviluppatori hanno scelto una strada rischiosissima, anche se coerente a livello di gameplay. Al giocatore il compito di svolgere semplicissime, ripetitive e noiosissime incombenze, che il più delle volte si esplicitano nel dover muovere la levetta o premere un tasto. Anche quella che dovrebbe essere la meccanica principale, ovvero la scultura di blocchi di legno in statuine che ricordano la moglie assurta quasi a icona religiosa, risulta molto tediosa. Quà e là sono state inserite alcune parentesi più “ludiche” e “felici”, che corrispondono non a caso a dei flashback in cui la moglie era ancora viva. Questi ricordi sono innescati dalla semplice vista di alcuni oggetti, luoghi, o piccoli dettagli. Delle madeleine proustiane che fanno partire a volte un rhythm game, a volte un hidden objects, altre ancora un puzzle game simil Tetris. Solo che sembrano essere stati messi lì un po’ per forza, come quando i due sposi si mettono a battere dei legnetti a ritmo (a me non è mai capitato, ma potrei essere strano io).
Non sto dicendo che non ci sia nulla da salvare in Pine: a story of loss. Intanto ha come protagonista un boscaiolo, e già questo depone a suo favore, almeno per me. Poi è molto bello da vedere e da ascoltare. Inoltre è pensato per essere giocato in un’unica sessione di meno di due ore, quindi niente di troppo prolisso (anche perché non c’è nemmeno una parola durante il gioco, il protagonista e la moglie non parlano proprio). Ma soprattutto, racconta in maniera onesta le difficoltà e le fragilità di un “omone” solo apparentemente forte ma che di fronte alla morte della moglie cade in depressione e trova conforto (o forse no?) nel ricordo dei momenti vissuti insieme. È un gioco che può far bene a chi si trova in una situazione simile. Il lutto viene trattato come occasione di rinascita. Il problema più grande, però, è che non sono sicuro che questa volta il videogioco sia stata la scelta migliore come mezzo espressivo. L’avrei visto più come un albo illustrato, un silent book. Se al giocatore non viene lasciato un briciolo di agency, tanto vale fargli sfogliare delle pagine. O forse si voleva risparmiare l’abbattimento di qualche albero per trasformarlo in carta, chissà? Mi piace pensare che sia andata così.