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Pionieri che hanno fallito

Google Stadia chiuderà. La notizia, arrivata completamente a ciel sereno, ha colto di sorpresa l'intera industria dei videogiochi… No, per niente! I problemi della piattaforma sono stati evidenti da quel 19 novembre 2019 che ne ha visto i natali, e lo saranno fino al 18 gennaio 2023, data della chiusura. Tre anni e due mesi di attività sono un periodo incredibilmente breve per una piattaforma di gioco, in particolare quando questa propone una tecnologia talmente innovativa da cambiare la fruizione del medium.

E se le mille motivazioni per le quali era chiaro come il sole che Stadia non ce l’avrebbe fatta sono già state snocciolate nell’editoriale del Maderna, vado ad aggiungere il mio pezzettino nel cercare di scavare nella storia del medium e rendere evidente che il fallimento di progetti pionieristici possono dimostrarsi prassi, vuoi per mancanza di precedenti, vuoi perchè sostanzialmente nessuno fino a quel momento ne aveva sentito la necessità.

Pronti a fare una visita al cimitero dei pionieri del videogioco? Via!

Computer Space e i cabinati arcate

Immediatamente dopo l’uscita di Computer Space, se qualcuno avesse provato anche solo a pensare che i cabinati arcade avrebbero avuto successo, sarebbe stato preso per pazzo. Il buco nell’acqua che fece il primo cabinato della storia sarebbe infatti stato pari solo al successo che le sale giochi avrebbero riscontrato nei successivi tre decenni. Se pensiamo infatti agli anni ‘70, ‘80 e ‘90, una delle prime immagini che ci tornano alla mente sono le rumorose e stroboscopiche sale giochi dove, tutti noi, abbiamo passato intere serate fra Metal Slug, Street Fighter 2 e Bubble Bobble.

Eppure, il tutto è partito da un clamoroso flop: un flop che porta la firma di Nolan Bushnell.

Ben prima di fondare Atari infatti, Bushnell era già stato stregato dal profumo di dollari che proveniva da questa nuova tecnologia, e in particolare da Spacewar!, titolo che sarebbe poi stato insignito dell’appellativo di primo videogioco della storia.

Già esperto di macchine con attivazione a moneta, Bushnell non fece altro che applicare una gettoniera ad una riproposizione di Spacewar! creata dal suo socio: l’ingegnere elettronico Ted Dabney. Il tutto venne poi inglobato da una sgargiante cover in vetroresina che gridava futuro da qualsiasi angolazione. Bill Nutting, proprietario dell’azienda produttrice di macchine da sala giochi Nutting Associates, rimase folgorato dal progetto e si prese in carico la produzione e distribuzione dello stesso.

Bushnell volle tuttavia arricchire un po' il gameplay di Computer Space rispetto a quello di Spacewar!, inserendo nuove meccaniche che, però, complicarono eccessivamente il gioco tanto da rendere necessario leggere un lungo manuale di istruzioni per riuscire a fare anche una sola partita. Ora, immaginatevi gli avventori di una sala giochi di inizio anni ‘70 che, fra pantaloni a zampa, bandana e Disco Inferno, si mettono a studiare un manuale di istruzioni… Se non è fantascienza questa. Alla faccia di Computer Space. Infatti la stragrande maggioranza delle 1500 unità prodotte rimase invenduta e le poche piazzate vennero relegate nei più lugubri anfratti delle sale giochi. Computer Space divenne quindi il più futuristico acchiappa polvere di inizio anni ‘70.

Ovviamente Bushnell non ci pensò nemmeno a prendersi la responsabilità dell’accaduto e appioppò tutta la colpa alla campagna marketing della Nutting; da quel momento avrebbe fatto tutto da solo: fondò quindi Atari dando così il via sia alla sua fortunata carriera, sia alla golden age dei cabinati arcade.

Magnavox Odyssey e le home console

“A parte guardare programmi, per cos’altro potrebbe essere usato un televisore?”. Questa è la domanda che si fece l’ingegnere Ralph Baer alla fine degli anni ‘60 e la risposta fu: Magnavox Odyssey.

Completamente incapace di eseguire qualsiasi calcolo matematico, la prima console della storia era appena in grado di mostrare a schermo una manciata di punti luminosi direttamente controllabili dai giocatori grazie ad una coppia di potenziometri posti su un rudimentale controller dall’ergonomia di una scatola da scarpe.

Dove si fermavano le capacità computazionali della macchina, arrivavano però i gadget forniti in dotazione. Dadi, fiches, carta e penna erano a disposizione dei giocatori per eseguire calcoli e segnare punteggi, mentre una serie di pellicole elettrostatiche potevano essere applicate allo schermo televisivo così da simulare il comparto grafico, altrimenti completamente su sfondo nero.

I ventotto giochi disponibili per Odyssey erano selezionabili tramite un set di dodici schede… Occhio! Schede, non cartucce. Questo perché i giochi erano già tutti presenti all’interno del corpo macchina e le schede servivano unicamente per unire degli specifici jumper sui circuiti interni della console eseguendo così, di volta in volta, una differente logica di gioco.

Sebbene a oggi un oggetto del genere possa far pensare maggiormente ad un gioco da tavolo, Magnavox Odyssey segnò un punto fondamentale per l’intrattenimento domestico, portando una ventata di futuro all’interno dei salotti di migliaia di acquirenti.

Tutto molto bello, perché dunque una tale innovazione vendette così poco? La causa è da ricercare in un grossolano errore di marketing che spinse i potenziali acquirenti a credere che Odyssey funzionasse solo con i televisori di quella stessa Magnavox che ne stava curando la distribuzione, cosa assolutamente non vera. Così, in un’epoca nella quale i televisori costavano una follia, nessuno pensò minimamente di comprarne un secondo per godere di un tipo di intrattenimento del quale, fino a quel momento, non si era sentito il bisogno.

Il mercato dei videogiochi sarebbe comunque decollato da lì a poco grazie al già citato Bushnell che, dopo aver visto la simulazione di tennis presente in Odyssey, ne realizzò una propria versione chiamata PONG; da qui ebbero i natali sia il mercato dei cabinati arcade, sia delle home console.

Fairchild Channel F e le rom su cartuccia

Ognuna delle unità vendute di PONG (e dei suoi numerosissimi cloni), era segnata da un destino inevitabile: passare buona parte del tempo a prendere polvere. Avere un solo gioco all’interno della console era immediatamente apparso come un limite davvero troppo stringente: occorrevano più giochi, occorreva più varietà.

Così, tante delle aziende che avevano sviluppato il proprio clone si misero al lavoro per sradicare le logiche di gioco dai circuiti interni della console e esternalizzarle su rom che potessero essere collegate e scollegate a piacere; in questo modo il creatore della macchina avrebbe potuto guadagnare sia dalla vendita della console, sia dai nuovi giochi venduti separatamente. Questo cambio radicale di filosofia porterà in dote una lunga serie di rivoluzioni, dando il via alla seconda generazione di console ed inaugurando quel paradigma di videogioco su unità esterna che solo oggigiorno i recenti modelli di business ad abbonamento stanno rendendo obsoleto.

Parlando di seconda generazione, i nomi che certamente saltano più alla memoria sono quelli di Atari 2600, Intellivision e Colecovision; al limite Vectrex, Philips Videopac e Sega SG-1000 per i più esperti. A battere tutti sul tempo fu però una grande azienda di elettronica già famosa per avere perfezionato il processo di fabbricazione dei transistor rivoluzionando quindi la fabbricazione dei microprocessori: la Fairchild Semiconductor.

Ammaliata dai soldoni che stava generando il neonato mercato delle console domestiche, Fairchild aprì una divisione di ricerca e sviluppo con l’obiettivo di creare la propria console a cartucce intercambiabili. A capo di tale divisione venne messo Jerry Lawson: uno dei primi ingegneri afroamericani a lavorare nella nascente Silicon Valley, il quale aveva già dato prova del proprio genio realizzando il primo arcade basato su microprocessore.

E così, nel 1976 venne immessa sul mercato Fairchild Channel F: la prima console a cartucce intercambiabili, i cui meriti, tuttavia, si fermano qui.

Nel frattempo infatti, in Atari si resero conto che non sarebbero mai riusciti a completare lo sviluppo di Atari 2600 in tempo utile, e Nolan Bushnell prese quindi l’amara (e successivamente rimpianta) decisione di vendere l’azienda a Warner, così da avere il budget necessario alla conclusione del progetto. Ecco quindi che con l’uscita di Atari 2600, Fairchild Channel F venne completamente dimenticata, scomparendo dal mercato dopo solo un anno dalla sua uscita e aver piazzato appena 250.000 unità. Insieme a essa, anche il nome del suo geniale creatore, Jerry Lawson, finì ingiustamente nell’oblio, per tornare ad essere celebrato solo di recente da alcuni articoli e documentari sul retrogame.

Atari Lynx e le portatili a colori

Dopo il famigerato crack del mercato americano dei videogiochi del 1983, Nintendo era riuscita a far risorgere il settore dalle sue ceneri e a dominarlo da assoluta monopolista sia nei salotti, sia in portabilità.

Tuttavia, un imponente competitor era pronto a sfidare Nintendo sul mercato portatile, proponendo una console di una potenza mai vista prima dotata di uno sfavillante monitor a colori. Sega Game Gear, diranno i più. No, stiamo parlando di Atari Lynx.

La poca popolarità di una console marcata Atari è un chiaro segno della parabola discendente che l’ormai ex azienda di Bushnell si trovò a tracciare a seguito del già citato crack del 1983. La realizzazione di Lynx non fu tuttavia farina del sacco di Atari, bensì di una azienda terza chiamata Epyx la quale, per problemi economici, dovette cedere i diritti di pubblicazione.

Atari Lynx era una vera bomba tecnologica per l’epoca. Stiamo parlando di una console portatile che equipaggiava un processore a 16 bit, uno schermo dotato di una palette cromatica di 4096 colori ed il gioco in rete locale per diciassette giocatori. Inoltre, l’insolito posizionamento dei tasti era pensato per offrire una maggiore inclusività nei confronti dei mancini: la console poteva infatti essere anche afferrata ed utilizzata al contrario.

Purtroppo, il prezzo da pagare per questo agglomerato tecnologico fu salato. Lo schermo a colori portò la durata della batteria a crollare vertiginosamente, arrivando ad una autonomia di appena tre ore. Come se non bastasse, il prezzo era esattamente il doppio rispetto a quello del Game Boy, mentre le esagerate dimensioni della macchina portarono a scoraggiarne l’acquisto anziché dare una sensazione di maggior valore come sosteneva l’ufficio marketing.

Pochi anni dopo, le stesse identiche motivazioni avrebbero portato all’insuccesso commerciale anche Game Gear, il quale, quantomeno, riuscì a vendere diversi milioni di unità e ad entrare nella memoria collettiva come il vero competitor dell’inarrestabile Game Boy.

Virtual Boy e la realtà virtuale

Erano i primi anni ‘90 e la grande N si trovava in stato di grazia essendo assoluta dominatrice dell’intero mercato dei videogiochi, sia nel segmento delle home console con SNES, sia nel comparto portatile con Game Boy. Come utilizzare dunque questa inarrestabile montagna di denaro che stava inesorabilmente travolgendo l’azienda? Investendo sulla più futuristica e visionaria tecnologia della quale il cinema di quegli anni stava riempiendo l’immaginario dei ragazzini: la realtà virtuale.

Entrare all’interno dei propri videogiochi preferiti è sempre stato il sogno di ogni giocatore, e alcuni timidi tentativi per provare a realizzare tutto questo si erano già precedentemente palesati nella figura di improbabili accessori da collegare alle console, ma questa volta l’azienda di Kyoto aveva intenzione di fare le cose sul serio. Si diede quindi il via alla realizzazione del primo dispositivo in realtà virtuale standalone. D’altra parte stiamo parlando della grande Nintendo, cosa sarebbe potuto andare storto? Tutto.

Considerato che non era necessario collegarla ad un televisore, Virtual Boy (a proposito, qui potete trovare il Retroutcast dedicato a Virtual Boy Wario Land) venne reclamizzata come una console portatile. Peccato che praticamente ogni caratteristica della macchina stridesse parecchio con questa definizione. I materiali costruttivi non si presentavano di una qualità sufficiente a sostenere le inevitabili botte a cui potrebbe essere sollecitata una macchina portatile, inoltre dimensioni e peso non consentivano un trasporto né comodo, né agile, oltre a rendere impossibile indossare il dispositivo come si confà ad un visore di realtà virtuale.

Quindi, per giocare con Virtual Boy all’utente non restava altro da fare se non sedersi, appoggiare la console su un tavolo grazie ad un “portabilissimo” piedistallo in ferro, ed incastrarci dentro il cranio… C’è da aggiungere altro? Purtroppo, sì.

La realizzazione di quello che sarebbe stato il Nintendo 64 procedeva a rilento e venne così deciso di accelerare il più possibile l’uscita di Virtual Boy. Il risultato fu la messa sul mercato di una macchina ancora in stato prototipale, stato che vedeva i 32 bit del processore restare sostanzialmente inutilizzati. Gli unici colori che Virtual Boy poteva riprodurre erano infatti il rosso ed il nero, e più che ad una macchina di nuova generazione sembrava di trovarsi davanti ad un simil Game Boy. Completava il disastro un effetto 3D ben realizzato, ma in grado di causare forti nausee ad alcuni utilizzatori.

Ma ciò che è più triste, sono le voci secondo le quali la grande N si sarebbe rifiutata di prendersi la responsabilità del fallimento del Virtual Boy e abbia riversato tutta la colpa sul capo progetto: un certo Gunpei Yokoi. Se questo nome non ci dice nulla, vi basti sapere che fu il creatore di innumerevoli progetti di enorme successo per Nintendo quali i Game&Watch, il Game Boy e quella croce direzionale che è tutt’oggi uno standard dei controller moderni. Ebbene, dopo aver dato tanto all’industria e a Nintendo stessa, Yokoi venne sostanzialmente costretto alle dimissioni.

Virtual Boy venne dismesso dopo solo un anno di commercializzazione e non varcò mai i confini europei. Come ben sappiamo, il tempo della realtà virtuale era ancora molto di là da venire.

Apple Pippin ed il gioco in rete

Erano gli anni in cui il connubio Steve Jobs-Apple era stato rotto, rassegnando creatore e creatura alla mediocrità durante un periodo nel quale altre società propinavano innovazioni tecnologiche come fossero caramelle.

Un certo Michael Spindler era ai vertici di una ammaccata mela morsicata e per cercare di fuggire dalla irrilevanza a cui Windows lo aveva relegato decise di aprire l’hardware del Macintosh alle terze parti, dando così il via ad un proliferare di macchine di altri produttori compatibili con lo standard Apple.

Inoltre, per cercare il più possibile di diversificare la propria offerta, l’azienda di Cupertino iniziò a spiaccicare il proprio marchio su qualsiasi oggetto elettronico le passasse per la testa, portando alla creazione di una serie di aggeggi improbabili che manco “SpaceBall il lanciafiamme”.

Nel frattempo, il mercato dei videogiochi stava venendo rivoltato come un calzino dalla neonata PlayStation, raggiungendo vette mai toccate prima e stimolando l’appetito di tante altre aziende. Se una esordiente come Sony poteva farcela, perché la grande Apple non avrebbe potuto fare altrettanto?

All’hardware del Macintosh venne quindi fatto indossare l’ennesimo vestito a festa e dotato di un controller dalla forma piuttosto bizzarra. In Giappone, intanto, c’era un’altra compagnia che, nel buio del proprio castello, bramava la conquista del mondo: quella Bandai che per cercare di spodestare Sony, Nintendo e Sega si prese volentieri in carico la fabbricazione e la commercializzazione del nuovo hardware.

Uno degli aspetti più peculiari della console erano le sue inedite capacità di collegamento alla rete che l’utente poteva sfruttare appieno grazie al modem incluso nella confezione. Cosa poteva andare storto? Il fatto che fosse il 1996 e che Internet fosse ancora una cosa per pochi. Il parco titoli della macchina era inoltre pressoché inesistente: con il fatto che Pippin fosse pienamente compatibile con ogni altra macchina dell’ecosistema Macintosh, perché mai preoccuparsi della realizzazione di videogiochi proprietari?

Inoltre, pensavate davvero che un dispositivo marchiato Apple potesse essere a buon mercato? Ovviamente no. Pippin costava la bellezza di 600 dollari, un prezzo esorbitante rispetto a quello delle altre console, ma giustificatissimo dal momento in cui puoi offrire un accesso ad Internet di cui non fregava niente a nessuno ed un parco titoli sostanzialmente inesistente. Giusto, no?

Inutile che stia qui a raccontarvi di quanto la console fu un buco nell’acqua. Guarda caso, quando Steve Jobs tornò ai vertici di Apple, Pippin fu uno dei primi progetti ad essere sciaquonati.

PSP Go e l’all digital

Metal Gear Solid, God of War e Little Big Planet erano solo alcuni i grandi capolavori approdati sulla prima portatile Sony, capolavori che portarono PSP a vendere bene, benissimo, ma mai quanto la diretta competitor Nintendo DS. La differenza di vendite era apparsa incolmabile già dall’inizio della generazione, ma nel 2009 rappresentava una delle poche certezze del mercato mobile, in particolare a fronte dell’incerto destino delle console portatili davanti all’inesorabile successo del nascente mercato degli smartphone. Tuttavia, né Sony né Nintendo erano intenzionate ad abbandonare questo mercato, e lo sviluppo delle portatili di ottava generazione era ormai il segreto di Pulcinella.

I tempi per il salto generazionale tuttavia non erano ancora maturi e dopo aver ricevuto tre diverse versioni hardware, Sony si presentò sul palco dell’E3 con l’annuncio della quarta: PSP Go. La nuova incarnazione si presentava tuttavia parecchio differente rispetto alle precedenti: più piccola e più leggera sì, ma soprattutto dotata di tasti a scomparsa e completamente priva dei lenti ed ingombranti UMD.

Come fare quindi a giocare senza un supporto fisico dal quale leggere i giochi? Scaricando l’intero titolo da quel giovane PlayStation Store che si stava pian piano riempiendo di contenuti.

Per quanto tutto il progetto odorasse incredibilmente di futuro, l’idea di non poter più usufruire della propria collezione di UMD e doversi accontentare dei soli contenuti digitali spaventò non solo una enorme fetta dei giocatori, ma anche distributori e rivenditori, i quali, intimoriti dall’idea di non poter più guadagnare dalla vendita dei giochi, diedero il via ad una massiccia operazione di boicottaggio nei confronti della portatile.

PSP Go divenne quindi una console fantasma: presente ma introvabile, in un periodo nel quale l’acquisto online ancora non era la norma.

La botta finale la diedero i 250 euro richiesti per l’acquisto: prezzo ingiustificatamente alto che, di fatto, riportava il costo di PSP a quello del day one, vanificando anni di progressivi ribassi. Insomma, la risposta del pubblico fu chiara, quella dei rivenditori ancora di più: non era ancora tempo per l’all digital.

Insomma, come avete potuto constatare, il cimitero dei pionieri è composto non solo di nomi di sbarbatelli e esordienti inesperti, ma anche di altisonanti colossi e multinazionali. I becchini sono già all’opera per farsi trovare preparati al prossimo 18 gennaio 2023, allestendo l’alloggiamento per quella che sarà la lapide più sfarzosa di tutte, lapide che non coprirà una tomba, poiché il nome di Google Stadia non si è mai corrotto attraverso un “hardware mortale”: è sempre stato lassù, nell’alto del Cloud.