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La verità è che all'inizio, di Torment, non ci avevo capito nulla | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

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Il primo ricordo che ho di Planescape: Torment, una copia del quale andai a ritirare il 12 dicembre 1999 in un qualche negozio di giochi in scatola di Milano di cui non riesco a ricostruire il nome, è che mi respinse. Duro, fortissimo, a calci in faccia: doveva essere "il nuovo Baldur's Gate di quelli di Baldur's Gate" e invece era spostato lievemente di lato – il che mi sembrò un'inutile perversione di una formula collaudata e mi irritò profondamente fin dal principio, nel momento in cui mi resi conto che NON avevo appena comprato un altro classico RPG da centinaia di ore di gioco.

C’erano anche due o tre dialoghi qui e là.

Oggi Planescape: Torment è ricordato come un classico, un cult, un capolavoro, uno dei migliori esempi di come si scrivono una storia e dei personaggi per un videogioco; un riferimento che ha trasceso i suoi confini per diventare uno standard applicabile a qualsiasi opera che preveda una notevole quantità di dialogo, scelte non binarie, sovvertimento dei canoni. Non ha creato un genere, al massimo tracciato la strada per una manciata di giochi più o meno simili (Tyranny, Divinity, il recentissimo Disco Elysium); ma viene sempre citato e usato come metro di paragone ogniqualvolta un videogioco abbia una componente narrativa un po' più che elementare e una struttura da gioco di ruolo, per cui "carini i personaggi ma non c'è un Morte/Ignis/Fall-From-Grace" è un'espressione che è stata usata un numero impressionante di volte negli ultimi vent'anni.

All'epoca, però, Planescape: Torment, almeno per chi come me apparteneva alla generazione Baldur's Gate e al tempo della sua uscita era in piena adolescenza, fece tutt'altro effetto; certo, i più colti e i più furbi già avevano colto le dimensioni dell'opera, ma ehi, noi s'aveva sedici anni e un grande amore per le schede personaggio e per il loot di Diablo. E Torment era qualcosa di abbastanza diverso da lasciare spiazzati. Non era, è importante rendersene conto oggi, una rivoluzione totale: lo scheletro era ancora decisamente quello dei precedenti giochi Black Isle, i sistemi più o meno gli stessi, persino il luogo comune secondo il quale "praticamente non c'era combattimento" è una mezza panzana, o un'esagerazione che ci siamo raccontati negli anni per sentirci intellettuali. Erano più le piccole cose che spiazzavano, almeno a un primo impatto: l'impossibilità di cambiare armi e armature agli altri membri del party, per dirne una, l'assenza quasi completa di penalità in caso di morte (OK, questa non è proprio una piccola cosa), l'apparente disinteresse per tutta la componente numerico/statistica del giocare di ruolo. E ci credo che mi sentii respinto: per tutte le cose che contavano davvero, Torment era poco più che una sciacquatura di Baldur's Gate.

Quella familiare condizione per cui vedi i numerini che svolazzano a mezz’aria.

A parte che ovviamente non erano il THAC0 e quindici tipi diversi di spada lunga tra cui scegliere le cose che contavano davvero di Baldur's Gate, e sicuramente non di Torment; ma avevo sedici anni, ne sarebbero passati altri tre prima della localizzazione italiana e Torment era, è, prima di tutto, un gioco raccontato, da leggere, su cui riflettere; verboso ed esistenzialista, interessato ai suoi personaggi più che al giocatore. E non era una cosa facile da accettare ma anche da capire, tanto più che all'epoca non c'era ancora tutto l'Internet di oggi e capitava ancora di arrivare impreparati, di rimanere stupiti. O irritati, come nel mio caso. O incuriositi, perché altrimenti non avrei ingoiato il fastidio e non sarei arrivato in fondo, per poi ricominciare e provare pian piano a capirci qualcosa di più.

Ancora oggi non so se ci ho capito tutto, anche perché non tocco Torment da almeno dieci anni e forse mi farebbe bene rigiocarci con la consapevolezza odierna. Tutto quello che ho scritto finora, però, è quello che mi viene in mente quando ci penso, è il tipo di ricordo che mi ha lasciato e l'impatto che ha avuto sulla mia visione di cosa può fare un videogioco se si impegna. E allora tanto vale non rigiocarci e tenermi il ricordo.