Post Mortem #15: Ms. Pac-Man, un seguito di straforo
Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.
A cavallo fra anni Settanta e Ottanta, il videogioco da sala era in pieno boom ed era fiorita un'industria enorme attorno alla produzione di quei cabinati. Era però un settore dai profitti a dir poco ballerini, soprattutto per chi gestiva le sale giochi: ogni nuovo campione d'incassi fruttava monetine a catinelle, ma si spegneva sulla distanza, appena i giocatori iniziavano a diventare anche solo "più bravi", non necessariamente "campioni del mondo", e, di conseguenza, spendevano sempre meno. Del resto, non è certo un mistero che molto del game design di quei tempi ruotasse attorno alla ricerca del miglior bilanciamento possibile fra il mantenere alto l'interesse di chi giocava, il dargli soddisfazione e il prenderlo a schiaffi al momento giusto, per fare in modo che scucisse altre monetine.
Si creava quindi questa situazione in cui tu, gestore della sala giochi (o del baretto), ti trovavi ad avere per le mani una macchina ancora perfettamente funzionante ma che non fruttava come un tempo. Era un po' un peccato liberartene, ma che dovevi fare? Enter the speedup kit! Ingegneri virtuosi iniziarono a creare schede da infilare nei cabinati per modificare elementi base delle meccaniche di gioco e rendere l'esperienza sostanzialmente più infame. Per esempio, Asteroids, era un gioco interamente basato sugli interrupt e bastava una piccola modifica per velocizzarli, rendendo ovviamente più difficile respingere gli sciami alieni. Ancora meglio con Galaxian, un gioco basato su delle tabelle immagazzinate nella ROM che gestivano gli attacchi alieni: modificando le tabelle con un modkit, potevi variare gli schemi di attacco e dare sostanzialmente vita a un gioco nuovo. E Pac-Man funzionava in maniera simile: il labirinto era una tabella in ROM. Ma ne parliamo dopo.
Nel 1981, Steve Golson, studente dell'MIT appassionato di videogiochi (nel tempo libero, all'istituto, non si faceva altro che stare attaccati ai cabinati), decise di fondare assieme ad alcuni compari una piccola azienda chiamata General Computer Corp. per lavorare sulla produzione di questi kit di modifica. Insieme ai suoi compari, si mise al lavoro sul progetto di un enhancement kit per Missile Command, che ancora nessuno aveva prodotto. Come titolo per il loro progetto puntarono su un ottimo Super Missile Attack. L'impresa non fu banale: dovettero lavorare di ingegneria inversa su Missile Command in una maniera che, oggi, appare più o meno come l'equivalente dell'età della pietra in campo tecnologico. Utilizzavano un macchinario per disassemblare il codice, che appariva su uno schermo e veniva da loro copiato a mano su carta. Comodissimo.
I nostri amabili ragazzi crearono dunque una scheda da infilare nel cabinato di Missile Command e ne vendettero centomila pezzi nel giro di un paio di mesi, tirando su 250.000 dollari. Buttali. A quel punto, che fai? Abbandoni l'università, ovvio, del resto hai trovato un lavoro fantastico. Enter Atari. L'azienda di Nolan Bushnell decise di portare in tribunale Golson e i suoi per la manovra fatta con il suo Missile Command e fra le varie cose per cui li citò c'era anche l'accusa di concorrenza sleale. Che, diciamocelo, arrivando da Atari ha un po' il sapore del "Cornuto!" lanciato dal bue all'asino. Ciononostante, tribunale fu ma, nonostante i rischi per la piccola General Computer Corp. fossero ovviamente enormi, la cosa finì per risultare positiva, perché generò un sacco di pubblicità sulla stampa mainstream, subito innamorata della favola di Davide contro Golia.
Con la faccenda che si trascinava lungo tutta l'estate, in Atari finirono per decidere di chiuderla con un patteggiamento e proporre a Golson e compagni un contratto di collaborazione. Bushnell e i suoi volevano che diventasse ufficialmente fuorilegge la produzione di modifiche come quelle, ma allo stesso tempo perché non provare ad assicurarsi i servizi di questo gruppo di giovani talentuosi? E allora offriamo loro cinquantamila dollari al mese, tanto è probabile che se li prendano e svaniscano nel nulla. Ops. Quel che non sapevano in Atari è che Golson e amici, nel frattempo, da bravi furbetti, si erano messi al lavoro su un altro kit. E il patteggiamento, in quanto segreto nei dettagli dell'accordo, finì per giocare a favore della furbata.
Nel 1981, se vuoi aggredire un gioco di successo probabilmente facile da modificare, che fai? Beh, è ovvio, ti getti sul fenomeno del momento, Pac-Man. Oltretutto, il bimbo di Toru Iwatani era strutturato in una maniera tale da invitare a nozze un kit di modifica: era prevedibile. Gli schemi di movimento erano quelli, il labirinto era quello, "bastava" imparare tutto a memoria e non a caso erano stati pubblicati fior di libri che spiegavano come padroneggiarlo. E quindi, a giugno del 1981, ancora pienamente in ballo con la causa, Golson e compagni si misero al lavoro, dotandosi però di un hardware migliore. Per il processo di studio del gioco originale, per esempio, si procurarono un Tektronix 8550, che grazie al cielo supportava le stampanti e, incredibile ammisci, perfino i dischetti da otto pollici (un megabyte di spazio, mica cotiche!).
Non solo, recuperarono anche i manuali con gli schemi del cabinato e della scheda originale, simpatici volumi che venivano venduti ai proprietari di sale giochi per permettere a chi aveva conoscenze tecniche di riparare eventuali guasti. Ma soprattutto, adottarono uno strumento che permetteva di far funzionare il gioco al rallentatore, cosa che permise loro di notare un sacco di dettagli utili e non necessariamente semplici da cogliere giocando normalmente. Qualche esempio? Quella specie di derapata che Pac-Man esegue in curva, tagliando gli angoli e svoltando più rapidamente dei fantasmi. O il fatto che i fantasmi, prima di curvare, spostano lo sguardo nella direzione che vogliono prendere. Tutte cose molto comode da analizzare al rallentatore, per studiare un'intelligenza artificiale sicuramente molto rozza (stiamo parlando di 16 K di memoria), ma a modo suo estremamente efficace.
Il progetto di modifica, come detto, non si voleva limitare a una semplice velocizzazione. Golson e i suoi applicarono anzi numerose varianti al gioco originale. Innanzitutto, quattro nuovi labirinti rispetto all'unico di Pac-Man. In secondo luogo, schemi di movimento casuali per i nemici, che non andavano più sempre nello stesso angolo e sceglievano invece a caso, cosa che sbarellava completamente gli schemi comportamentali. Inoltre, sfruttando il fatto che l'hardware supportava sei personaggi nonostante il gioco originale ne utilizzasse solo cinque, decisero di far muovere per il labirinto i frutti bonus, assegnando loro quattro percorsi selezionati di volta in volta in maniera casuale. E ancora aggiunsero colori, suoni, musiche, animazioni, oltre a cambiare le fattezze del protagonista (comunque ispirato agli artwork antropomorfi di Pac-Man) e degli antagonisti.
Ma ci furono anche idee prese in considerazione e poi abbandonate. Per esempio l'inserimento di tunnel verticali, abbandonato quando si resero conto che i nemici non li utilizzavano mai. O anche la possibilità di permettere ai fantasmi di attraversare i muri. Inoltre, nella ROM di Pac-Man c'era uno sprite che riproduceva un'esplosione e non veniva utilizzato nel gioco. Pensarono di utilizzarlo per far esplodere il frutto, ma anche quest'idea venne presto abbandonata. In tutto questo, il design del gioco venne effettuato utilizzando gli strumenti di fortuna più disparati. Se i labirinti vennero interamente creati lavorando nella maniera più tradizionale possibile, lavorando di carta e penna, per i personaggi decisero di non seguire il solito metodo del design su carta quadrettata e successivo trasferimento in ROM. Per farsi un'idea concreta del risultato finale in maniera rapida, comprarono un giocattolo per bambini chiamato Lite Brite, che permetteva di disegnare utilizzando un pannello luminoso, e lo utilizzarono per studiare gli sprite.
E insomma, dopo un bel po' di lavoro, girando attorno ai limiti dell'hardware (inserire un accompagnamento musicale era difficile, perché Pac-Man era molto sofisticato), riuscirono a tirar fuori il loro gioco, intitolato Crazy Otto e dotato di svariate caratteristiche abbastanza innovative, compreso un Attract Mode che mostrava il gioco in azione tramite delle vere e proprie partite simulate di volta in volta, quindi sempre diverse. Nel mentre, si azzuffavano in tribunale con Atari, cosa che li aiutò fra l'altro a capire cosa non andava fatto nello sviluppo del loro kit, per evitare il più possibile eventuali futuri problemi legali. La causa in tribunale si chiuse con un accordo, che sanciva l'impossibilità di sviluppare kit di modifica senza avere il permesso da parte dei proprietari del gioco originale. Solo che, come detto prima, i termini dell'accordo erano ovviamente segreti. L'immagine pubblica della cosa mostrava solo che Atari aveva mollato il colpo.
In Atari erano convinti che nessuno avrebbe mai dato a chicchessia il permesso di fare una cosa del genere. Poveri stolti. Kevin Curran, compare furbetto di Golson, chiamò Dave Marofske di Midway e si giocò il bluff, buttandola sull'aggressivo: "Forse hai sentito dire che abbiamo sconfitto Atari. Ora siete nei guai. Forse è meglio se ci mettiamo d'accordo subito, altrimenti vi trasciniamo in tribunale." E insomma, il risultato fu che nel giro di poche settimane la piccola General Computer strinse accordi di collaborazione con Atari e Midway, sostanzialmente i due nomi più grossi nel campo dei videogiochi. A quel punto, OK, il saluto all'università fu proprio definitivo.
Ma come si passa da Crazy Otto a Ms. Pac-Man? Beh, per esempio, dopo una fase in cui si ipoteizzava un Super Pac-Man, l'idea di una protagonista femminile arrivò da Stan Jarocki di Midway. Se da un lato c'era la convinzione che i videogiochi fossero roba da ragazzini maschi, dall'altro Pac-Man era famoso per essere il primo titolo di gran successo presso il pubblico femminile, quindi aveva senso dargli un seguito con una protagonista armata di rossetto. E l'animazione pseudo-3D con cui Crazy Otto curvava venne abbandonata, perché la signora Pac-Man, vista di spalle, era un po' inquietante. Ah, inizialmente il gioco doveva intitolarsi Miss Pac-Man, ma poi si resero conto che, siccome nelle scene d'intermezzo si vedeva un figlio, poteva essere sconveniente proporre una coppia con erede concepito fuori dal matrimonio. Altri tempi...
Ah, a proposito, in tutto questo, al contrario di quel che si legge ogni tanto su internet, Namco era perfettamente a conoscenza dello sviluppo di Ms. Pac-Man e, anzi, partecipò al design. Golson ci ha tenuto a precisarlo di fronte alla platea della GDC 2016. Ma ha voluto aggiungere anche altri piccoli aneddoti, per esempio bullandosi dell'aver ideato un sistema anticopia che brevettarono e che tenne botta per sei mesi (visti i tempi, siamo dalle parti del record). Ma non solo, ha anche accennato al famoso bug del livello 255 ("Se riesci ad arrivare fino a quel punto, sei tu il bug") e ha mostrato una rivista che parlava del gioco ma su cui, per qualche motivo, era finita una foto di Crazy Otto, arrivata da non si sa dove.
La creazione di Ms. Pac-Man lanciò definitivamente la carriera di Golson e compagni, che successivamente lavorarono anche su Jr. Pac-Man, svilupparono l'hardware dell'Atari 7800 (e quattordici giochi), crearono il primo hard disk per Mac, sbugiardando tutti quelli che avevano detto a Steve Jobs che era impossibile, e proseguirono lavorando quasi sempre in ambito hardware, creando macchinari di vario tipo e set top box. Ma Ms. Pac-Man, probabilmente, è e rimarrà sempre la loro creatura più simbolica e iconica. Oltre che un qualcosa capace di tornare e ritornare più volte nella loro vita grazie all'attenzione ai dettagli.
Vent'anni dopo, a giugno 2002, Namco butta fuori Ms. Pac-Man 20th Anniversary Edition. Ma Golson e compagni non si vedono arrivare le royalty. Che succede? Succede che fanno causa a Namco e vincono, perché sì, ne avevano diritto. Il fatto è che in Namco non sapevano del contratto originale e non sapevano, oltretutto, che quei furbetti avevano inserito nel codice sorgente una sorta di firma, un "Hello, Nakamura" tramite cui potevano dimostrare di aver sviluppato il gioco originale E quindi ka-ching, fuori i soldi. Anche per la versione iPhone, prego.