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Rambo: Last Blood, se uno non si perde in chiacchiere da giovane, figuriamoci quando invecchia

«C’era bisogno di un nuovo Rambo

Questa domanda mi è capitata davanti agli occhi qualche giorno fa, attraverso uno dei tanti gruppi di cinema che lurko su Facebook. E come sempre, quando incappo in robe del genere, mi sono girate le balle.

Che cavolo di argomentazione è, il bisogno? Voglio dire, a stringere proprio, le robe di cui abbiamo realmente “bisogno” sono poche. Persino io, che sono un tipo ad alto mantenimento pieno di nevrosi, potrei tranquillamente risparmiarmi un sacco di affanni, tra i quali rientra probabilmente l’ultimo film di Rambo.

Insomma, ero a tanto così dall’attaccar briga. Mi son fermato giusto perché sono pusillanime e pigro. E a certe robe, una volta che sei in ballo, poi tocca starci dietro.

Eppure, non nego che in casi come questi mi piacerebbe avere il potere dell’evocazione tipo Woody Allen in Io e Annie, solo che al posto di McLuhan, con Rambo di mezzo, citofonerei al mio vecchio professore di Italiano, un intellettuale barbuto insospettabilmente diviso tra il Leopardi e l’ex berretto verde nato dalla penna di David Morrell, ma reso immortale da Ted Kotcheff e Sylvester Stallone.

Ricordo che durante le sue lezioni, ogni volta che c’era di mezzo un qualche eroe tipo Ercole o Orlando, saltava fuori il paragone con Rambo. «Un campione nel senso classico, un eroe dal background tragico che si racconta attraverso l’azione, dotato di attributi fissi riconoscibili, tipo archi e amuleti, e portato per sviluppi narrativi reiterabili all’infinito e flessibili ad ogni contesto».

Il contesto.

Come aveva ragione, oh. Il Rambo del 1982, ad esempio, racconta questa America ancora incasinata dalla crisi economica e dalle guerre, incapace di venire a patti con il proprio passato, mentre quelli del 1985 e del 1988 hanno un afflato più reaganiano. In questo senso, l’evoluzione del personaggio ricorda quella di un altro (anti?)eroe degli anni Ottanta, Rocky, e solleva tutto un ragionamento sul valore iconografico di Stallone.

Ma sto divagando e non è questo il punto. Il punto, tornando alla domanda iniziale, è che c’è sempre bisogno di un nuovo Rambo, volendo, perché un personaggio del genere può cavalcare dappertutto, a patto che lo si tratti con un minimo di decenza. E in Last Blood - che nel titolo evoca una chiusura, ma vai a sapere – direi che gli è andata abbastanza bene. Adrian Grunberg, che firma il suo terzo lungometraggio dopo una fittissima carriera da aiuto regista, spesa soprattutto tra film d’azione e produzioni ambientate in Messico, si è rivelato la persona adatta per accompagnare Stallone (attore e sceneggiatore) in un’avventura oltreconfine.

All’inizio del film ritroviamo John Rambo, ormai anziano, bello tranquillo nella natia Arizona, intento a cavalcare e prendersi cura del ranch di famiglia assieme alla vecchia Maria (Adriana Barraza). Purtroppo, come sappiamo, la pace non sorride agli eroi d’azione e il rapimento della nipote putativa, Gabrielle (Yvette Monreal), lo trascina in un conflitto contro il cartello messicano presieduto dal crudele Hugo Martinez (Sergio Peris-Mencheta).

«Zio, va' che prendo la macchina».

Ora, la trama del film è estremamente asciutta e si riduce sostanzialmente a un paio di inseguimenti e a un’imboscata. Rambo: Last Blood è tutto nervi e muscoli, ma senza un filo di grasso in eccesso. Così, a naso, direi che uno degli obiettivi di Grunberg è stato quello di non scalfire il mito di Rambo neanche nella vecchiaia, preferendo girare in interni e, in generale, tra spazi chiusi che fanno gioco all’età dell’attore e alle abilità del personaggio: una robusta, inarrestabile e violentissima macchina da guerra. E ci è pure riuscito, direi, nonostante la trasferta messicana, di tanto in tanto, tamburelli a ritmo di filler con le dita nascoste sotto al tavolo.

Pur se senza fronzoli, ma mai sciatte, ho apprezzato le scelte di fotografia e la messa in scena generale, che non ruba mai il palco all’azione, ai personaggi e al ritmo. Soprattutto, non esagera col montaggio. Grunberg rimedia giusto un paio di trovate dal secondo Equalizer di Antoine Fuqua, altro action geriatrico votato all’imboscata, e qualcosina dagli ultimi film di Leitch e Stahelski, almeno a livello di spirito.

«Fuori dal mio cazzo di pollaio!»

In effetti, Rambo condivide con John Wick lo status di pensionato con cui sarebbe meglio non bisticciare, con la differenza che la pericolosità del personaggio di Reeves viene svelata attraverso il film, e ne intercetta diegeticamente la narrazione, mentre il mito di Rambo non ha bisogno di presentazioni, soprattutto agli occhi dello spettatore.

Come ho detto, il film asciuga tutto il superfluo e lavora soprattutto di sottrazione, sacrificando qualsiasi backstory, anche a dispetto di un paio di personaggi che avrebbero meritato più respiro. Penso alla reporter di Paz Vega o al boss del cartello, che pare esistere soltanto in funzione della vendetta di Rambo.

«Vabbè, io sto qua, se serve, chiamatemi»

Eppure, piacciano o meno, mi sono parse tutte scelte consapevoli e a favore di un film che (giustamente) rilegge il mito di Rambo attraverso l’azione pura, prendendosi totalmente sul serio e senza tirarsi indietro nemmeno di fronte all’involontaria comicità generata dall’estrema violenza di alcune scene. Nel complesso, sfiziosissimo, direi.

Ho visto Rambo: Last Blood in anteprima grazie a una proiezione stampa in lingua originale alla quale siamo stati gentilmente invitati. Ogni volta che Rambo ammazzava un cattivo, veniva giù il cinema.