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Outcazzari uniti! La multirecensione di Avengers: Infinity War

La scorsa settimana è finalmente uscito al cinema Avengers: Infinity War, il culmine (assieme alla seconda parte, che arriva fra un annetto, e probabilmente ad Ant-Man and the Wasp e Captain Marvel, che saranno film per i fatti loro ma – suvvia – sappiamo benissimo che in qualche modo ci si ricollegheranno) di un progetto ambiziosissimo, nato dieci anni fa e giunto là dove il cinema seriale non aveva mai nemmeno provato a giungere. Nel bene e nel male. E il pubblico, in linea di massima, continua a rispondere, se consideriamo come è andato il primo weekend d’incassi. Ve lo faccio riassumere qua sotto da un collega in Disney di Tony Stark e compagni.

Su Outcast, di gente che apprezza i film Marvel ce n’è parecchia. Magari non li apprezziamo tutti, anzi, ci siamo trovati più volte a discuterne partendo da pareri non troppo compatibili su Outcast Popcorn, ma li seguiamo con piacere e alcuni di noi sono anche (ancora) affetti dal morbo dei fumetti originali, chi più, chi meno. E infatti, caso più unico che raro, è capitato che diversi di noi avessero voglia di scrivere del film, fra chi ha chiesto il permesso e chi proprio è partito e ha scritto senza nemmeno avvisare. Al che, che fai, deludi i poveretti? No.

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Buona lettura!

Stefano Talarico

Come è giusto che fosse, dopo dieci anni in cui tutto il mondo non ha fatto altro che lamentarsi della povertà d’intenzioni e della bidimensionalità dei cattivi nei film Marvel (ciao Christopher Eccleston, limortacci tua), Thanos è finalmente uscito dalla sua gabbia fatta di scene post-credit, mangiandosi tutte le scene in cui appare e distruggendo mondi come se fosse un Galactus qualsiasi. Avengers: Infinity War è un film di supereroi in cui, quasi inaspettatamente, il protagonista è il cattivo, l’uomo venuto da un’altra galassia per spaccare tutto. Il solito tizio gigantesco che, appunto, essendo apparso solo in scene di un minuto, rischiava di essere l’ennesima macchietta, il diciannovesimo stronzo dalla motivazione risibile, un MacGuffin su gambe buono solo a mettere in moto i salvatori della patria.

Age of Ultron, sei tu?

Al contrario, Avengers: Infinity War si apre proprio con una dichiarazione d’intenti, un colpo di teatro che mette subito le cose in chiaro e ci fa capire che, per le due ore e mezza che seguiranno, non avremo altro villain al di fuori di Thanos. Nel continuo ribaltamento di fronti narrativi, le scene con il gigante viola sono quelle più interessanti, se possibile più diverse da quanto abbiamo già visto nella serie negli ultimi due lustri, perché si prendono il loro tempo nel delineare le motivazioni e i turbamenti di quello che, negli altri film, è sempre stato poco più di un pretesto narrativo per mettere in scena le botte, consegnandoci finalmente un personaggio vero, più che un “cattivo”.

Senza contare che, laddove gli altri film corali perdevano sistematicamente di pathos, erosi dal meccanismo di una macchina che andava avanti a piani triennali, andando a minare la tensione e le possibili svolte narrative, Avengers: Infinity War si bea del suo essere ultimo atto di un cammino lungo dieci anni, coronamento del più grande e ambizioso serial TV concepito per il grande schermo, tenendoti incollato allo schermo a ogni scontro. Sì, perché lo scopo di Thanos è quello di raccogliere le Gemme dell’Infinito, e per farlo non si fermerà davanti a niente e nessuno, figurarsi le aspettative del pubblico. Quando pensi che una cosa non può succedere, succede. Quando pensi che no, dai, veramente? Eh, veramente. Quando pensi che invece no, lui ride e ti schiocca le dita in faccia.

Thanos è una figata, e Josh Brolin è il suo profeta.

Un titano in grado di reggere sulle sue spalle due ore e quaranta di film che, come detto, fungono anche e soprattutto da nodo conclusivo a dieci anni di storie e diciannove film con personaggi, trame e sottotrame, registi e sceneggiatori completamente diversi e distanti l’uno dall’altro. Un titano che fa da specchio al lavoro spettacolare dei fratelli Russo, già registi dei due precedenti Captain America e qui chiamati alla prova di maturità. Davanti a un cast gargantuesco e a un’insieme di universi e storie infinite, il duo è riuscito a tenere insieme tutto nel migliore dei modi, non solo dando a tutti i personaggi la stessa importanza e lo stesso spazio, ma soprattutto unendo sapientemente la realtà umana di Iron Man e Spider-Man con il Wakanda super sci-fi di Black Panther, passando inevitabilmente per la Marvel di drogarsi di Doctor Strange, Guardiani della Galassia e tutti gli altri.

Una capacità straordinaria, che lo fa sembrare quasi un film à la Four Rooms in cui James Gunn si dirige il suo pezzettino tutto schizzato con le battutine, i Russo il loro pezzettino serioso con le seghe mentali, Favreau fa i campi larghi e Edgar Wright viene cacciato perché voleva metterci più scrittone fighe. E invece, in barba a quelli che “ma i film Marvel sono un po’ tutti la stessa roba”, i Russo riescono ad allargare il respiro dell’universo, esplorando meglio alcuni anfratti che abbiamo già visto, allargando mitologie e dando un peso a praticamente ogni scelta che vediamo compiere dagli innumerevoli personaggi che si alternano su schermo.

Il tutto, va detto, senza risparmiarsi un fiume di parole abbastanza considerevole (che, tuttavia, difficilmente scade nella spiega fastidiosa), mantenendo sempre un buon ritmo e mostrando un’azione più che dignitosa, senza abusare dei tremolii ma, anzi, dando il giusto peso a ogni guanto, ogni martello, ogni razzetto e, soprattutto, ogni pollice/indice. Insomma, Avengers: Infinity War è probabilmente la candelina migliore sui primi dieci anni dei Marvel Studios. La titanica pellicola dei fratelli Russo è riuscita a chiudere un cerchio grande come un universo, stupendoci a ogni cambio di scena e lasciando tantissimi spiragli a quello che, almeno per il momento, non può che sembrare un futuro radioso quanto le Gemme dell’Infinito.

Davide Moretto

Raramente vado al cinema al day one, ma stavolta qualcosa mi diceva che dovevo farlo (oltre a mio figlio, che mi ha quasi strappato l’anima a forza di chiedermi “Ma quando andiamo?”; il ciuchino di Shrek era meno cocciuto). Per fortuna ho dato retta a tutti e sono stato ripagato. Avengers: Infinity War è un film spettacolare, che ho apprezzato tantissimo e che porta l'universo cinematografico Marvel ad un livello che credo fino ad oggi aveva forse solo intravisto: lo porta tra i film di fantascienza (e non solo di supereroi) che rimarranno, come altre pellicole ormai diventate classici. Sala gremita in ogni ordine di posti, gente che applaude (sì anche io) quando appare Cap o Thor che sfascia tutto, risate, dramma, epicità, azione... insomma, 'sto film ha tutto. Peccato che per poterlo apprezzare appieno sia necessario aver visto almeno i film della saga che sviluppano bene le trame, conoscere i personaggi, esserseli ficcati in testa e avere familiarità con le loro dinamiche. Detto questo, chi deve ancora vederlo lo faccia senza leggere nulla: bisogna andarci a scatola chiusa, perché è un film (inaspettatamente) ad altissimo rischio spoiler. Per me può finire tutto anche così, che figata.

Andrea Peduzzi

Come ho già scritto altrove, non sono mai stato un fan sfegatato dei film a tema supereroi, e a dirla tutta non ho nemmeno letto troppi fumetti in merito. Giusto una Morte di Superman di qua e un Guanto dell’Infinito di là ai tempi del liceo, o una Civil War. Tutte saghe che i veri appassionati – credo – diano abbastanza per scontate, e che mi sono capitate tra le mani per via di un amico (lui sì) lettore e collezionista appassionato. Il classico tizio che ha la cassetta personale in fumetteria dalla quale attinge ogni tot le ultime novità, lasciando giù ogni volta mezzo stipendio.

Io sono più un tipo da manga. Eppure, qualche giorno fa, quando al termine dell’anteprima de L’isola dei cani ho notato che proprio nella sala di fianco stava per cominciare Avengers: Infinity War, non ci ho pensato mezzo secondo. Ho raccattato un biglietto e mi ci sono tuffato.

Mi ci sono tuffato perché, nonostante io faccia probabilmente parte della fascia di mezzo del pubblico Marvel, quella “semi-generalista”, nel corso degli anni, tra una cosa e l’altra, non mi sono perso un solo film della serie. E se sui primi ci sono capitato un po’ per caso, giusto perché in generale vado volentieri al cinema e guardo di tutto, alla fine sono stato travolto dalla continuity. Ho imparato a riconoscere e ad apprezzare le dinamiche di questo o di quel gruppo di eroi, le variazioni di tono, gli scherzi, gli ammiccamenti, i misteri e tutto quanto il resto (ah, #team cazzoni tutta la vita).

Insomma, sono uno di quelli che hanno fatto vincere a Kevin Feige la sua scommessa, lanciata ormai dieci anni fa col primo Iron Man. Quella di provare a far funzionare anche al cinema le saghe dei supereroi, abbandonando progressivamente la formula “one shot” in auge negli anni Ottanta e Novanta.

E sono ben contento di avergliela fatta vincere, tra l’altro. Perché nonostante tutti i compromessi o i difetti di cui può soffrire a livello formale questo tipo di cinema “seriale”, alla fine ha raggiunto il suo ambizioso obiettivo. È riuscito a fare appassionare anche il pubblico generalista alle sorti dei vari personaggi in calzamaglia. A creare fidelizzazione.

Le action figure degli Avengers recuperate alla proiezione

Ecco, forse l’ho presa un po’ alla larga, ma ammetto che per me sarebbe stato impossibile parlare di Infinity War tacendo del suo contesto, dal momento che il film dei fratelli Russo, di quel contesto, rappresenta la più totale, esaltante esplosione. L’attimo in cui si fanno cadere i pezzi del domino infilati per ore.

Perché sì, se è pur vero che la pellicola resta godibile anche in modalità stand alone (me lo hanno confermano un paio di amici entrati in sala digiuni di tutto il resto e usciti con un sorrisone largo così), per quelli che si sono sciroppati tutte le “puntate precedenti”, beh, diventa una bomba.

Con in testa il quadro generale, si può davvero apprezzare il gran lavoro fatto dai Russo e dalle loro squadre, che nel giro delle due ore e botta di film sono stati capaci di passare da un registro all’altro con una fluidità pazzesca; di tenere alta la tensione dell’orchestra senza mai perdere di vista un solo musicista. E magari gli equilibri non saranno usciti tutti perfettini, OK, e i fan di questa o di quella fazione potrebbero seccarsi per qualche dislivello. Eppure, già così, siamo davanti a un mezzo miracolo. Miracolo che deve molto anche alla presenza di un cattivo come Thanos, che col suo carisma fa un po’ da prisma per tutta quanta la risma (ah, la rima :D), e davvero non gli puoi dire niente.

Insomma, già prima quella degli Avengers era la mia serie TV preferita al cinema; ma questa, come ha detto Davide, è stata davvero una gran puntata.

Alessandro Di Romolo

Il marketing che ruota attorno ad Avengers: Infinity War ha giustamente messo in risalto il decimo anniversario dall’uscita nelle sale di Iron Man. Ma per quanto il traguardo sia assolutamente eccezionale e i festeggiamenti siano più che meritati, forse, limitarsi a parlare di questo senza fermarsi a riflettere sui dettagli non rende giustizia all’enorme lavoro di pianificazione che ha condotto filmmaker, personaggi, attori e pubblico al film attualmente in sala.

La prima apparizione di una gemma dell’infinito nell'universo cinematografico Marvel risale al maggio del 2011, quando il Tesseract venne mostrato nella scena dopo i titoli di coda di Thor. Circa un anno dopo, nell’aprile del 2012, esordiva con un fugace cameo Thanos, che si rivelava essere il mandante del tentativo dei Chitauri di conquistare New York. Nessun’altra major, nel panorama attuale dominato dalla frenesia e dall’hype, riuscirebbe a lasciare in panchina per sei anni un villain così importante. Al contempo, nessuna avrebbe il coraggio di correre il rischio di saturare il mercato (e di abusare della soglia d’attenzione degli spettatori con un gran numero di pellicole che si somigliano) pur di costruire, mattone su mattone, le fondamenta per un giro in giostra di questa portata.

Cosa resterà di questo grande racconto popolare è una questione che affronteremo a tempo debito, guardandoci alle spalle con occhio critico e col senno del poi. Ciò che conta qui e ora è che Avengers: Infinity war sia il frutto dell'incastro perfetto di una serie di fattori.
Il merito che, nonostante la mole enorme di personaggi, non sia un pastrocchio totale, bensì un ordinato ed equilibrato blockbuster in cui ognuno ha il suo momento di gloria, è da attribuire tanto alla capacità dei fratelli Russo nel gestire questo genere di situazioni (già mostrata in Captain America: Civil War), quanto alle possibilità offerte dalle precedenti diciotto pellicole, nelle quali era già stata sbrigata la pratica di introdurre, approfondire e far interagire tra loro i vari supereroi. Se esistono diciotto pellicole che precedono Infinity War, bisogna ringraziare non solo il pubblico, che ha risposto sempre con calore crescente e con una buona predisposizione ad accogliere nuove situazioni e nuovi personaggi meno blasonati dei primi tre Avenger (Thor, Captain America e Iron Man), ma anche una major che ha creato un modello produttivo fino a questo momento infallibile - che genera introiti immediati ma che funziona anche e soprattutto in termini di lungo periodo - e che ha avuto la pazienza di costruire il proprio successo in dieci lunghi anni. Pazienza che, evidentemente, tutte le altre major che si sono fiondate su fallimentari progetti di universo condiviso non hanno.

Per questo Avengers: Infinity War rappresenta un unicum nella storia del cinema, che non può che suscitare sincera ammirazione anche in coloro che si sono chiusi a riccio nei confronti del fenomeno dei cinecomic. Un film sul quale si può dire poco senza rovinare il piacere della scoperta a chi ancora non l'ha visto, perché stavolta gli sviluppi della trama sono davvero imprevedibili. Si può dire che non è mai nostalgico (e avrebbe ben donde di essere autoreferenziale in maniera molesta, visti il substrato dei diciotto episodi precedenti di cui sopra), che la durata massiccia (149 minuti) fila via liscia senza momenti di stanca e che fa la voce grossa anche sul fronte dell'impatto visivo.

Ci sono azione, commedia e dramma dosati in egual misura, cosa a cui la formula Marvel Studios ci ha abituato. Quel che sorprende, però, è che c'è anche tanto sentimento ed è facile emozionarsi, se non addirittura rimanere scioccati. In tutta sincerità, soprattutto considerati i precedenti dei fratelli Russo (a onor del vero un po’ asettici sotto questo punto di vista), non mi aspettavo fosse un film così caldo, o che fosse così emotivamente coinvolgente.

Se tutto il baraccone funziona a meraviglia, il merito principale va attribuito alla nemesi di questo episodio. Thanos è un antagonista eccezionale, non solo perché rappresenta fisicamente una minaccia concreta e davvero spaventosa - al punto da ribaltare almeno un paio di rapporti di forza che, fino a ora, avevano rappresentato elementi costanti dell'universo cinematografico Marvel - ma anche e soprattutto perché ha la sostanza che rende memorabile un villain: un ideale socio-politico semplice ma forte, una determinazione folle nel perseguire la propria missione e la predisposizione a sacrificare tutto pur di raggiungere i propri obiettivi. Predisposizione contraddistinta da un dramma interiore dilaniante, messo in mostra senza nascondere né il (salatissimo) prezzo da pagare, né tantomeno la fragilità emotiva del personaggio.

Ed è inevitabile fare una considerazione su quanto tutto questo ben di Dio avrebbe avuto un impatto meno intenso se Disney non avesse protetto noi spettatori da ogni possibile rischio di spoiler, attraverso un’imponente campagna marketing che si è preoccupata tanto degli aspetti promozionali, quanto dell’inevitabile fuga incontrollata di notizie post data di uscita. Al di là dei trailer vaghi e pieni di scene tagliate dal cut finale o pesantemente ritoccate in postproduzione, il simpatico hashtag #ThanosDemandsYourSilence ha lo scopo di ricordare a chi ha già visto il film la grande responsabilità che ha nei confronti di tutti gli altri, ma anche di alimentare il senso di appartenenza del pubblico a questo grande fenomeno culturale pop.

Andrea Maderna

Ieri sera la baby-sitter ci ha paccati perché stava male e quindi andiamo a vederlo domenica prossima.