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Un'eterna ghirlanda brillante: buon compleanno Rogue | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Uh?

L’altro giorno, ho finalmente comprato e cominciato a giocare a Hades, il nuovo gioco di Supergiant Games, quelli di Bastion, Pyre e soprattutto del magnifico Transistor. Rispetto ai tre giochi precedenti, tutti costruiti intorno a una storia che detta sempre il ritmo dell’azione, Hades si appoggia a una struttura vecchia come i videogiochi stessi e che in questi ultimi anni è tornata prepotentemente in auge, fino a diventare uno tra i punti di riferimento di qualsiasi sviluppatore indie alle prese con il suo primo gioco. Parlo di quella roba che, con un termine sul quale potremmo stare a discutere per un intero pezzo, viene definita “roguelike”, o forse più precisamente in questo caso “roguelite”, e cioè: giochi che si basano su un loop di esplora, uccidi, vai avanti, diventa più potente, muori, ricomincia da capo, sperando questa volta di andare un po’ più avanti perché sei riuscito a diventare un po’ più potente. Nello specifico, Hades sposa quella scuola di pensiero secondo la quale il modo migliore per convincere un giocatore a ricominciare da capo come se la partita precedente non fosse mai esistita è quello di regalargli piccoli o grandi miglioramenti permanenti dell’esperienza di gioco, di spingerlo a raccogliere risorse che gli serviranno solo dopo la morte, per rendere le run successive un po’ più facili – da cui il suffisso “-lite” al posto di “-like”, a rimarcare la differenza di approccio tra giochi come Hades e quello che da quarant’anni è il titolo di riferimento per questo genere.

Quarant’anni non è una cifra a caso: con quest’anno Rogue entra negli -anta, un primato di longevità che condivide con roba tipo Pac-Man, Missile Command e Zork, ed è proprio da quest’ultimo che vorrei partire, per cominciare a tessere le lodi di uno fra i giochi più importanti di sempre.

Aaah!

Al legame tra Zork e Dungeons & Dragons avevo già accennato qui, pur senza mai citare Gary Gygax; più in generale, c’è tutta una fetta di storia del videogioco che ruota attorno ai giochi di ruolo e al sistema informatico PLATO, e che anche lei meriterebbe di essere raccontata in un pezzo a parte. La versione estremamente breve è che c’era un gruppo di persone che, con l’arrivo di Dungeons & Dragons sul mercato, si convinsero che il futuro dell’intrattenimento fosse un sistema in grado di generare automaticamente storie e campagne di D&D, giocando secondo le regole ma puntando la sua originalità non tanto sull’attento parto di una mente umana, quanto sulla capacità di randomizzare le situazioni, muovendosi sempre all’interno di un recinto di regole ben precise, propria dei computer. Voglio dire che quando sentite parlare di “generato proceduralmente”, il vostro pensiero dovrebbe correre a questa roba e a un gruppo di informatici americani che per primi sperimentarono con l’idea di creare un’infrastruttura in grado di generare piccole e imprevedibili storie fantasy di esplorazione di labirinti e scoperta di magici tesori.

Rogue, in particolare, uscì due anni dopo Beneath Apple Manor (che, per semplificare il discorso, indicheremo come “il primo roguelike della storia, pur essendo uscito prima di Rogue”), e rispetto al gioco di Don Worth, aggiungeva una serie di migliorie negli algoritmi di generazione dei dungeon che diventeranno poi standard per il genere: dove BAM si limitava a creare ogni volta labirinti con una geografia differente, Rogue aggiungeva al calderone della casualità anche mostri, oggetti e altre amenità, che rendevano ogni livello un’esperienza realmente nuova. Michael Toy e Glenn Wichman, i creatori originali di Rogue, giurano che al tempo non sapevano neanche dell’esistenza di BAM e il loro gioco, che girava su molte più piattaforme rispetto a BAM, che era stato programmato per Apple II, divenne nel giro di un paio d’anni lo standard di riferimento per tutti i dungeon crawler generati proceduralmente degli anni a venire, a partire dai suoi primissimi eredi Hack e The Dungeons of Moria (che a sua volta darà vita, dieci anni dopo, a un altro dei titoli fondamentali per il genere, Angband) fino ad arrivare alle versioni più sofisticate, tipo Castle of the Winds.

Ooooooh <3

Da allora è cambiato veramente poco, se non in superficie. Rogue non era un gioco complesso, soprattutto per gli standard a cui siamo abituati oggi, quando anche prodotti minuscoli come Tangledeep e Unexplored sono costruiti su una quantità francamente impressionante di sistemi collegati tra loro. Però era un gioco sorprendente, capace di scatenare le stesse reazioni di piacere da rischio vs ricompensa di una slot machine e insieme di costruire (a botte di caratteri ASCII, tra l’altro) una clamorosa atmosfera da avventura di D&D, tra i corridoi di un labirinto che il dungeon master sta chiaramente improvvisando sul momento, piano dopo piano. Il loop di Rogue, come di qualsiasi roguelike o lite o quello che volete uscito dopo, era semplicissimo: andare da un punto A a un punto B, raccogliendo nel frattempo una serie di roba gettata casualmente lungo il tragitto e utile a migliorare le possibilità del giocatore di arrivare vivo al traguardo. È proprio in questa scoperta che sta tutto il gancio di Rogue: che cosa mi riserverà, l’algoritmo, questa volta? Una pozione che mi fa muovere più velocemente? Un’arma mai vista prima? Una pergamena che fa spaventare i mostri e li fa scappare? E in che modo quello che ho appena raccolto interagisce con quello che ho tirato su fin qui? Posso costruire una qualche forma di strategia basata su sinergie o devo arrangiarmi con quello che ho?

Ed è proprio su quest’ultimo aspetto, più ancora che sull’idea del “live, die, repeat”, che hanno costruito la loro fortuna tutti gli imitatori di Rogue, in particolare quelli venuti alla luce dopo che, nel 1996, Diablo mostrò al mondo un nuovo modo di approcciare il genere. I migliori roguelike sono quelli che vanno contro l’idea che vedere il finale di un videogioco significhi averlo finito e che abbracciano senza riserve quella roba da baci Perugina per cui il viaggio è più importante della meta. Il bello dei roguelike non è finirli ma prenderli a schiaffi, giocarci talmente tante volte da imparare a memoria tutto quello che possono rovesciarti in faccia e riuscire a completarli senza sudare. È, in un certo senso, l’evoluzione del videogioco nella sua forma più pura, lo high score di Pac-Man applicato a una struttura ruolistica che supplica di essere conosciuta e sviscerata e anticipata, non solo, uhm, reagita. I roguelike migliori sono quelli nei quali ignorare un pick-up è importante quanto raccoglierlo, che invitano il giocatore a studiare la grammatica del mondo e a conoscerla abbastanza da saperla manipolare a proprio favore; i roguelike migliori sono quelli in cui l’elemento di casualità non è un ostacolo o un fattore di difficoltà fine a se stessa ma un generatore di scelte interessanti.

Eh!

Tutto questo, a onor del vero, in Rogue c’era sì e no: con tutta l’ammirazione e il rispetto per un’opera che quarant’anni fa fece cascare tantissime mascelle, la potenza di calcolo era quella che era e oggi non ci vuole poi troppo tempo a vedere tutto quello che Rogue ha da offrire e a poter dire di conoscerlo davvero. Quello che fa impressione è che il passaggio da Rogue ai suoi eredi non sia stato un salto di qualità o un cambio di paradigma, ma una semplice operazione di accumulo, finché la quantità di variabili coinvolte non è salita abbastanza da mascherare perfettamente la semplicissima infrastruttura. I tre giochi che hanno ridefinito il genere negli ultimi anni e ne hanno ri-codificato e modernizzato la grammatica, cioè FTL, Spelunky e The Binding of Isaac, si basano tutti e tre su loop semplicissimi e su una manciata scarsa di regole, e la loro complessità è tutta data dalle variazioni sul tema, dal modo in cui queste poche regole interagiscono tra di loro e danno vita a situazioni più complesse della semplice somma delle parti – niente di diverso dal trovarsi in un livello di Rogue, inseguito da un mostro, usare una pergamena non identificata sperando di cavarsela con qualche effetto positivo e ritrovarsi all’improvviso addormentato in mezzo al corridoio, solo con molte, moltissime, apparentemente infinite iterazioni possibili.

Tracciare la storia del genere e le direzioni in cui si è mosso (partendo dal modello di riferimento dell’esplorazione di un dungeon per arrivare ai salti tra galassie, con magari una lunghissima deviazione in territori giapponesi, con la loro interpretazione del concetto) è un’operazione che lascio volentieri agli storici, come lascio ai filosofi le discussioni su cosa veramente appartenga a questo sottogenere e cosa invece ne prenda a prestito alcune idee per muoversi in altre direzioni. Prendete il recentissimo Sundered, che usa una mappa in stile Metroid e una progressione altrettanto in stile Metroid ma genera proceduralmente, cambiandola ad ogni morte, il grosso della geografia del mondo, o la mia ossessione preferita Slay the Spire, che unisce il loop del roguelike con una struttura da gioco di carte single player. Tutta roba apparentemente distantissima, ma che prende le mosse dallo spirito di Rogue, quello del “solo un’altra partita”, quella sensazione di “chissà che cosa mi riserva il destino”, che assomiglia molto al brivido del gioco d’azzardo, ma anche quella capacità di creare dal nulla piccole storie che nascono e muoiono nel giro di pochi minuti ma che non per questo sono meno memorabili (uno dei migliori imitatori di Rogue degli ultimi anni, in questo senso, è Streets of Rogue). Quarant’anni dopo, il fascino dell’ignoto e la voglia di aprire quella porta per scoprire cosa ci sia dietro non hanno perso un’oncia di potenza e Rogue rimane uno fra i giochi più importanti di sempre.

IIIIIIIIIIII!

Suca, Pac-Man.