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Ronin, vent'anni dopo, ha ancora un tiro micidiale

Per me è praticamente impossibile scrivere di Ronin in modo obiettivo. Classe 1998, sette anni più giovane del sottoscritto, la penultima pellicola di John Frankenheimer passò da parte a parte le mie retine, come un proiettile spruzzato con il teflon, un paio d’anni dopo, recuperato in VHS da mio padre quando la rivista Panorama allegava alla sua uscita settimanale film di un certo livello. Fu un vero battesimo del fuoco, una folgorazione, probabilmente il mio primo contatto con De Niro e col cinema d’azione tout court, a memoria. Da allora l’avrò visto altre decine di volte, l’ultima qualche giorno fa, proprio in vista di queste righe e, nonostante divori cinema sempre con grande appetito, Ronin non accenna a invecchiare, non perde un colpo, non cede un fotogramma. Talmente indistruttibile da sembrare girato su granito. Frankenheimer scolpisce uno spaccato criminale di fine millennio con qualche candelotto di dinamite fatto detonare nei punti giusti: la Russia, l’IRA e un manipolo di mercenari a caccia di una classica, intramontabile, imperscrutabile, valigetta.

Scusi, buon uomo, un’informazione. Di che colore era la rimessa a Hereford?

Oggetto del desiderio e del potere attorno al quale si attorciglia un canovaccio tipicamente hitchcockiano nei suoi checkpoint principali, un Intrigo internazionale costruito sul doppio gioco, sui tradimenti reciproci e sul denaro. Fondamentalmente, il film inizia e finisce sul (secondo) piano narrativo, gli stessi attori non sono troppo loquaci a riguardo, svolgono un lavoro nel lavoro, sospendendo l’incredulità con un realismo magnetico, per quanto entro certi limiti cinematografici. Parigi-Nizza-Arles-Parigi, un tour a tappe segnate sullo stradario con piombo e sangue, dove a fare da cicerone è il Vincent di Jean Reno, gentiluomo nei modi, chirurgo con un’arma da fuoco in mano, che presto troverà in Sam (Robert De Niro) il compagno di cui fidarsi ciecamente in questa operazione. Un rapporto di amicizia cameratesca tra gente senza un passato, specializzata nell’eseguire gli ordini senza fare domande e rischiare l’osso del collo dietro compenso. L’azione è pesante, ruvida, densa, sia di proiettili che di comparse, passanti e automobilisti che finiscono spesso tra due fuochi, con la sequenza della sparatoria nel Colosseo di Arles gremito di turisti a ricordare mestamente, nel panico e nella fuga disordinata delle persone, certe scene dei recenti attentati terroristici.

“Hai mai ucciso qualcuno?” “Una volta ho offeso qualcuno.” E non saprei cosa sia più temibile.

Minuti in cui risuonano gli schiocchi metallici delle pallottole, le grida, le sirene della polizia in avvicinamento. È un modo di intendere il thriller quasi da cronaca nera, asciutto e privo di pose. Gigantesche coreografie in location spesso aperte, ariose e diurne, azioni calcolate, studiate ma troppo soggette agli imprevisti. Scontri a fuoco che sublimano e trovano una soluzione solo in auto, con almeno due tra gli inseguimenti più belli, intensi, tachicardici della storia del cinema. Quello che Frankenheimer e i suoi stuntman sono riusciti a tirare fuori sull’asfalto francese è qualcosa di incredibile, impressionante, rigorosamente dal vivo e a velocità reale, in purezza. Perché al di là di una regia luminosa, pulitissima, è nel montaggio che sta il vero virtuosismo di Ronin, capace di trasmettere tutta la velocità e il dinamismo di un’Audi RS8 lanciata nei caruggi di Nizza, vivendo la sequenza come fosse stata girata in un blocco unico. Una combo di crimini stradali che toglie il fiato, studiata al millimetro e al millesimo. L’ultimo tango automobilistico a Parigi è qualcosa di fenomenale, un senso di pericolo tangibile, in totale apnea come gli stessi protagonisti, che praticamente non dicono una parola per sette minuti abbondanti. Non sono gli attori che rubano la scena, è la scena che li ingloba totalmente. Contromano nell’affollata periferia della capitale, i clacson che tengono il tempo e gli abbaglianti sparati in camera, come le strobo di una discoteca che urla il suono di motori ancora privi di uno spiccato senso ecologista. Una quantità esagerata di auto in scena, come molecole di adrenalina nelle arterie (stradali), l’ora di punta che diventa puro delirio ed estasi cinematografica.

Un pezzo di storia degli inseguimenti cinematografici, a livello pratico e teorico.

Anche da questo si capisce tutta la poetica dietro al film, la messa in scena di gente priva di qualsiasi rimorso, pronta a tutto, sprezzante. Ronin, appunto, samurai senza padrone, erranti, distrutti dalla vita e pronti a prendersi quella altrui, per denaro o torbidi ideali, danzando con la morte. Un esotismo calzante incarnato nel personaggio di Jean-Pierre, la sua passione per il medioevo giapponese e il mito dei 47 Ronin, che contestualizza interpretazioni tendenzialmente glaciali, in cui il De Niro post Heat è la scheggia impazzita che, quando vuole, si mangia tranquillamente il film. Eppure, anche lui non abusa del suo carisma, con la coralità dell’intrigo che ne esce rafforzata, lasciando respirare un cast di primo livello, tra Natascha McElhone, Stellan Skarsgard, Jonathan Pryce e Sean Bean. È poi in un finale elegantissimo e teso come un cavo d’acciaio, all’interno del palazzo del ghiaccio, che il film si compie. L’ennesimo esempio di folla gestita in maniera superlativa, coi protagonisti e le macchine da presa che ci si muovono in mezzo in scioltezza, pattinando come l’inconsapevole Natasha Kirilova (Katarina Witt), impegnata a danzare e ammaliare il pubblico al centro della pista e di un mirino, sotto tiro. Il volteggio interrotto, il costume bianco sempre più rosso, macchiato di sangue, a terra, fredda come il ghiaccio. Per me è impossibile non vedere, ancora oggi, in lei una trasfigurazione di Diana Spencer, primo dramma “pop” di cui ho consapevolezza, la cui gravità era percepibile nonostante i cinque anni scarsi. È come se le immagini di quei servizi sull’incidente di Lady D e certe sequenze di Ronin, nei cinema due anni più tardi, si sovrapponessero e diventassero un tutt’uno nei miei ricordi, dandogli ancora più peso emotivo. Parigi, l’inseguimento in macchina, l’incidente, una vita spezzata e le teorie del complotto. Immagini ricorrenti, tra realtà e finzione, di quella seconda, disillusa metà degli anni Novanta. La favola era finita e Frankenheimer non aveva alcuna intenzione di raccontare una morale, chiusa e dimenticata in una valigetta mai aperta.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a The Irishman e al crimine, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.