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Se Saint Seiya fa schifo, guardiamoci allo specchio

Di recente la piattaforma di streaming Netflix ha pubblicato un documentario dalla titolazione piuttosto pittoresca, che i più maligni hanno già definito uno spottone per gli anime in CG. Vi offro immantinente il trailer, quando leggerete (se leggerete) questo approfondimento, avrete sicuramente già visto il documentario e mi starete già mandando impropri.

ENTER THE ANIME cito - «È un tuffo profondo nel mondo degli anime.
Dai un'occhiata più da vicino al mondo dietro a questi spettacoli che conosci e ami, con alcuni dei migliori uomini del settore»

Uao. Un documentario perfetto per boccaloni e disinformati di sorta, che fa sembrare Netflix una specie di benefattore patrizio che dona a noi poveri federati romani non solo anime di indubbia qualità ma persino un’industria che sopravvive grazie a questi ricchi mecenati, che investono cifre considerevoli per il nostro gaudio. Evoco queste metafore non a caso. In realtà, dietro a questo documentario c’è un tentativo, l’ennesimo, da parte di Netflix, di prepararsi alla grande guerra imminente, un autentico guanto di sfida lanciato apertamente e che coinvolgerà le altre piattaforme di streaming, che presto saranno lanciate sul mercato mondiale. Combattere ad armi pari con gli altri colossi dello streaming, che si avvicinano minacciosi a questo mercato con offerte sempre più vantaggiose, sta alla base di questo documentario, nient’altro. Ma andiamo per ordine. Durante questo lungo articolo, vi spiegherò perché non è tutto oro quello che luccica, di quale guerra esattamente si tratta, come Netflix produce gli anime, come sta sovvertendo i pilastri dell’industria dell’animazione e perché, in ultima analisi, se siete appassionati di anime, dovreste sapere come il mondo che amate si sta trasformando anche per colpa vostra (e di Netflix, ovviamente). Non tutto il male viene per nuocere, insomma.

Saint Seiya non è semplicemente una serie che fallisce su tutta la linea, è uno dei tentativi più bassi e mal realizzati che siano mai stati fatti in questo settore. Un prodotto che poteva uscire forse difficilmente da un Pachinko-Game. L’industria non è mai scesa a questi livelli. Mi preme sottolineare specialmente il fatto che non ci sia un filo di passione e amore in quanto fatto e ciò traspare chiaramente anche allo spettatore più curioso, mentre per quello nostalgico è uno spettacolo indecoroso ed estremamente doloroso.

Siamo sul divano. L’aria del condizionatore ci solletica piacevolmente la nuca, sul poggiolo una birra leggermente condensata, fresca e invitante, ciabatte d’ordinanza e immancabile canotta, completano il quadro vagamente fantozziano (manca il classico rutto).

Siamo nella categoria ORIGINALS Netflix e stiamo scorrendo le numerose offerte che il colosso dell’intrattenimento ci offre, ogni settimana, ogni sera, nell’intimità della nostra Colazione da Campioni.
Essendo veterani asciutti di Netflix, siamo abituati a veder comparire sul catalogo della nostra piattaforma favorita, sebbene ad intervalli regolari, un sacco di nuove stuzzicanti offerte, al solito. Mentre scorriamo avidamente lo sterminato catalogo, però, realizziamo fin da subito che abbiamo notato molti più anime nel catalogo rispetto a prima. Che succede, esattamente? Ci stiamo forse aprendo maggiormente all’animazione giapponese? Siamo dinnanzi ad una nuova ondata aurea anni Novanta a base di produzioni e serie TV anime? No di certo, ragazzi miei, no di certo.

Il direttore del settore dell’animazione di Netflix, Taito Okiura, ha recentemente dichiarato che prevede in futuro di aggiungere trenta nuove serie di zecca tra quest’anno e il 2020. Per l’appunto, la società multimiliardaria di streaming ha già annunciato una dozzina di serie di anime in arrivo nel 2019/2020, come per esempio Ghost in The Shell, che sarà diretto da Shinji Aramaki (Appleseed) e Kenji Kamiyama (Ghost in The Shell: Stand Alone Complex) o anche Masters of The Universe: Revelation (che è pur sempre di anime, nella squisita accezione del termine stesso)

Fece abbastanza scandalo, nel 2016, scoprire che alcuni di questi anime definiti "originali" non erano affatto originali, a conti fatti. Secondo un’indagine precisa, svolta da alcuni enti per i consumatori americani, alcuni prodotti definiti “Netflix Original Anime”, tra cui figuravano per l’appunto Knights of Sidonia, Ajin: Demi-Human e Glitter Force furono smascherati. Non si trattava dunque di creazioni originali per Netflix, bensì serie anime già create e successivamente definite “Originali” nei paesi in cui Netflix le distribuiva in esclusiva (esattamente come accade, per esempio, con Better Call Saul, di AMC, o Star Trek: Discovery, di CBS, che in Italia arrivano come Netflix Originals). Ad un occhio poco attento si potrebbe trattare di mere quisquilie, ma non secondo il rigido codice di regolamentazione dei consumatori, che invece segnalò una grave e deliberata truffa nei confronti dei consumatori. Per provi rimedio, Netflix creò la specifica categoria “Netflix Original Anime Distribution”

L'aggiunta di tonnellate di contenuti potrebbe sembrare, per Netflix, normale amministrazione, ma si nasconde ben altro, dietro a questo improvviso interesse verso l’animazione giapponese. Tutto il settore anime di Netflix, in realtà, sembra essere l'arma segreta di Netflix nella sua lotta contro la minacciosa Disney e Amazon Prime Video, che si stanno avvicinando minacciosamente. La guerra tra Netflix e Disney è già iniziata, del resto, sembrano dirci molti addetti al settore, che conoscono molto bene i sottili equilibri commerciali delle piattaforme di entertainment online. Il servizio di streaming Disney, che presto verrà lanciato a livello mondiale, ovvero Disney + (Disney Plus), arriverà a novembre 2019 in America. Noi europei potremo sottoscrivere questo ennesimo abbonamento nel 2020, in leggero ritardo rispetto alla controparte americana. Tuttavia la divisione italiana Disney ha già allestito la pagina ufficiale di Disney Plus Italia, comprensiva di pulsante per iscriversi alla mailing list per rimanere informati a riguardo e non perdersi l’offerta.

Mentre il lancio di Disney+ si avvicina, sempre di più, contenuti Disney stanno lasciando progressivamente Netflix. C'è stato un tempo, piuttosto speranzoso e condito ad onor del vero da false promesse, in cui un nuovo ipotetico film degli "Avengers" o dell’MCU, sarebbe stato una presenza fissa sul catalogo di Netflix. Quasi scontata. Ma le cose sono drasticamente cambiate nel corso degli ultimi mesi. Ora che il loro accordo di distribuzione è terminato, si prospettano tempi molto difficili per la sopravvivenza di Netflix. Dato che la Disney possiede tutto l’intratteniment… ehm, così tanti contenuti, Netflix potrebbe perdere grandi nomi come Pixar, Lucasfilm, Marvel e persino la leggendaria 20th Century Fox. E Disney non è l'unica azienda a lanciare il proprio servizio di streaming prossimamente, come se ciò non bastasse.
WarnerMedia, la società madre di CW, HBO e DC, si sta preparando per lanciare un nuovo servizio nel 2019/2020. Quindi, oltre ai contenuti Disney, Netflix potrebbe anche dover dire "addio" a film e spettacoli della Warner Media, come "Friends" o "Riverdale". Una bella botta, se si considera che proprio queste due serie sono le più viste sulla piattaforma. Se Disney, molto presto, toglierà IP di sicuro successo come Star Wars o Marvel, a Netflix rimane il film con Will Smith e l’orco, estremizzo.

Man mano che altre compagnie di intrattenimento inizieranno progressivamente a lanciare i propri servizi di streaming, Netflix sarà costretta a fare affidamento sul proprio contenuto originale, ma proprio come nelle favole con la morale “Chi troppo vuole”… Netflix è già impegnata a comprare e finanziare serie televisive, che sono state il suo successo ai primordi. E anche la produzione altalenante di film corrobora questa volontà editoriale.

Devilman Crybaby, a cui ho offerto alcune disamine proprio in questi lidi, si distingue nettamente dal resto della produzione Netflix Originals. L'ultimo adattamento del manga leggendario di Go Nagai del 1972 riapre e ricontestualizza la sua storia per i giorni nostri. Devilman Crybaby, con la sua ultraviolenza pornografica ed i suoi eccessi, può sembrare una serie violenta e cupa ad un colpo d'occhio disattento, ma al suo centro c'è una storia d'amore tormentosamente tragica, semplicemente toccante e profonda. Devilman Crybaby ha canalizzato l’attenzione di moltissimi spettatori extra-Netflix, sia per lo spettacolo offerto, che per la curiosità dell’intero progetto, e ha probabilmente fatto sottoscrivere parecchi abbonamenti.

Negli ultimi anni, Netflix ha aumentato sensibilmente la produzione dei suoi contenuti originali, questo è davanti agli occhi di tutti, producendo il quintuplo di spettacoli nel 2018 rispetto al 2016, e gli analisti pensano che Netflix potrebbe spendere circa quindici miliardi di dollari in contenuti originali nel biennio 2019/2020. Per un rapido e facile confronto, HBO di solito spende circa due miliardi di dollari per le serie autoprodotte e originali. Oltre ai suoi discutibili adattamenti LIve Action, come Death Note o il prossimo (temutissimo) Cowboy Bebop, Netflix ha aggiunto serie anime originali, come i passati Castlevania e Devilman Crybaby, e nel contempo hanno anche comprato i diritti di molti anime classici, come Fullmetal Alchemist e Bleach, o il recente acquisto di Attack on Titan.

Netflix, però, non sta solo acquistando molti anime dall’industria giapponese, come dovrebbe logicamente fare per offrire ai suoi abbonati un catalogo vasto da cui attingere, sta cercando di cambiare il delicato ecosistema dei mondo giapponese degli anime, una autentica cristalleria di artigianato di piccoli e medi studi (come Kyoani), con una politica e un’etica commerciale piuttosto discutibile. Ma prima di arrivare a questo punto spinoso, è bene chiarire che questo improvviso interessamento al mondo anime di Netflix non è riconducibile esattamente al lato meramente artistico degli anime, è solo e unicamente dovuto ad un’attenta pianificazione commerciale di chi opera, verso tale senso, cercando di combattere colpo su colpo gli avversari che si avvicinano.

Kengan Ashura, tratto da un manga edito dalla Shogakukan, non è esattamente un prodotto originale Netflix, si tratta invece di un prodotto distribuito esclusivamente da Netflix. La serie, creata da Makoto Uezu e prodotta da Larx Entertainment, racconta la storia di un combattente clandestino che combatte in arene sotterranee, che corrono sotto la superficie di vite apparentemente normali ma rivelano desiderio di sangue e vittoria a qualunque costo.

Gli anime potrebbero dare quindi a Netflix un grande vantaggio contro Disney nell’imminente guerra dello streaming. Il contenuto originale Disney, infatti, non include alcun anime e la stessa Disney ha affermato di recente che il loro servizio streaming sarà orientato esclusivamente sulle famiglie. Quindi, Disney+ non includerà in alcun modo contenuti per adulti visti in serie anime spettacolari come Baki di Netflix. Avere un'intera categoria di contenuti che sostanzialmente manca a Disney+ potrebbe essere, a conti fatti, un grande vantaggio per Netflix, specialmente visto che la domanda di anime ha continuato a crescere nell'ultimo decennio, in maniera esponenziale. Come tutte le strategie commerciali, però, questa faccenda ha molte ombre al suo interno. Non tutti, infatti, sono contenti che Netflix abbia annunciato questo improvviso interessamento al mondo degli anime giapponesi, e non sono in pochi a levare dubbi e lecite perplessità sul loro operato e su come si muovono in questo settore, con la stessa grazia di un elefante.

È interessante notare anche il metodo comunicativo che utilizza Netflix, non delineando correttamente la differenza sostanziale che passa tra un prodotto originale ed uno autoprodotto (anche se per conto terzi), come appunto Saint Seya rispetto alla sola distribuzione di una serie anime a dir poco storica come Neon Genesis Evangelion. Tutto fa parte di un sistema di eliminazione del bianco e del nero, con l’introduzione di innumerevoli scale di grigio. Perché dunque puntare sull’industria anime? Gli anime sono numeri, in questo caso, l'enorme popolarità degli anime in tutto il mondo, unita ai suoi costi di produzione molto convenienti, oltre al fatto che si codificano molto bene per lo streaming digitale, li rende prodotti praticamente perfetti.

Per guardare da vicino i delicati processi produttivi dell’industria giapponese, punteremo l’obiettivo su un prodotto recente, a dir poco controverso, di Netflix, presente attualmente sul loro catalogo, e che ha lasciato molti appassionati sgomenti. Tranquilli, non si tratta di Neon Genesis Evangelion (per una volta).
Saint Seya è veramente un prodotto osceno. I gusti personali non c’entrano più di tanto, in questo caso, la bocciatura del fandom è stata quasi unanime ed è sufficiente compiere una rapida ricerca nella clinica del Dr. Google per incappare in dozzine di articoli, video e approfondimenti di sorta, che sostanzialmente annichiliscono la miniserie del tombino parlante e di Pegasus con il sombrero, in maniera quasi totale. Prenderemo come esempio proprio questa monnezza, per chiarire alcuni passaggi della produzione targata Netflix. Il primo problema della nostra lunga discussione divulgativa è che Netflix commissiona serie TV di merda come questa, offrendosi di trasmetterla, per fare solo e unicamente catalogo. il committente (cioè Netflix) non supervisiona nulla, il suo ruolo è semplicemente limitato ad essere quello di un acquirente che - in ogni caso - comprerà il prodotto finale, a prescindere dal risultato, sostanzialmente per fare mucchio e riempire il suo catalogo streaming. Laddove la quantità ha dimostrato che ripaga abbondantemente più della qualità. Sembra assurdo, eppure è così che funziona.

Di conseguenza, chi produce serie come questa tende a ricorrere a bassa manovalanza, fregandosene bellamente del risultato finale o, come in questo caso, servendosi di studi coreani/cinesi che lavorano a cottimo, senza alcun coinvolgimento artistico nella creazione, limitandosi a fare il famoso compitino.
Dopotutto, Netflix pagherà lo studio anime realizzatore, a cui ha commissionato il lavoro, solo a prodotto finito e valutando il compenso relativo, da elargire a seconda della ricezione del pubblico, calcolata seguendo i suoi algoritmi interni di rilevamento (presenti sulla piattaforma fin dalla sua creazione).

Affrettata, superficiale, raffazzonata, sprovvista del carisma storico e anche del comparto sonoro che tanto l’ha resa riconoscibile, cambiata per inseguire sensibilità molto discutibili degli spettatori e infine doppiata (nella versione italiana) da un cast di voci semplicemente inadatte e palesemente fuori contesto, in rapporto a età di personaggi e doppiatori, Saint Seya sembra un perfetto vademecum su come non realizzare una serie anime. In aggiunta a questo, la serie non è stata fatta utilizzando l’animazione tradizionale, ma insiste ad utilizzare una soluzione estetica in CGI che avevamo lasciato sui giochi Bandai per PS2.

Come ho cercato di spiegare in un mio precedente articolo su Outcast, scritto dopo una certa ricerca e documentazione specifica, il comitato di produzione di anime, film o serie TV, in Giappone, è un elemento imprescindibile dell'industria fin da tempi remoti. Di solito, il “Seisaku Inkai Hoshiki” contempla diversi comitati al suo interno (da cinque a quindici), che supervisionano il prodotto, piazzandolo in un circolo di spamming pubblicitario, o su prodotti specifici per un pubblico accuratamente selezionato. Potrà sembrare incredibile ma Netflix ha sovvertito questo storico tassello dell’industria degli anime, preservato nell'industria nipponica da tempo immemore e presente nella società giapponese fin dal dopoguerra. I comitati di produzione a cosa servono, in sostanza, sembra chiedersi il colosso dello streaming? I comitati aiutano a condividere costi e rischi, oltre a dare ad agenzie pubblicitarie, emittenti televisive e magazine cartacei una partecipazione attiva al successo della produzione e un ulteriore incentivo economico a promuoverlo al meglio. Dovete immaginare l’industria anime giapponese come un brulicante formicaio, pieno di operose formiche che hanno compiti specifici. Solo una collaborazione su più livelli, magari persino definibile lenta, porta gli anime ad essere anime.

È incredibile pensare che del fiacco adattamento in due parti e live action di Attack on Titan, sia responsabile, almeno ideologicamente, lo stesso comitato di produzione che ci ha garantito una enorme qualità per la serie animata, arrivata alla quarta stagione e prossima al concludersi. Eppure si tratta di pesi e contrappesi, difficilmente non correlati tra loro.

Gli svantaggi di questa metodologia per un colosso come Netflix, che non si cura affatto di questi delicati processi produttivi, sono a dir poco evidenti: si tratta di formule arcaiche e desuete, che non possono essere nemmeno prese in considerazione da un colosso dell’intrattenimento del suo calibro, il cui unico scopo è oliare una catena di prodotti da piazzare in serie, senza preoccuparsi troppo del risultato finale.
D’altro canto, il Seisaku Inkai Hoshiki offre un eccessivo rallentamento del processo decisionale e un po’ di soffocamento dell'assunzione di rischi creativi; poiché di solito è richiesta l'approvazione di tutte le parti, è quello lo svantaggio evidente del Comitato di Produzione. Senza contare che Il comitato serve per garantire la qualità, ma al contempo (spesso) soffoca il lato artistico di un prodotto, piazzando attori ed attrici o registi a seconda di formule commerciali e di tornaconto. Tuttavia, negli anime, la cosa è ben diversa: il Comitato di Produzione aiuta moltissimo lo studio anime nella creazione, dato che lo stesso anime è considerato un vanto nazionale di difficile estrazione e spiegazione. In qualche modo, nell’anime è rispettata la sua più intima essenza, in concomitanza con la visione dell’autore e del suo staff, mentre per quanto riguarda il prodotto cinematografico, si opera in un contesto molto più difficile. Un film deve piacere a quanti più spettatori possibile, spesso viene distribuito all’estero e deve quindi essere in possesso di alcune caratteristiche marginali ma determinanti, che sono un problema per l’industria giapponese. Per esempio, l’uso degli effetti speciali è un serio grattacapo ma se ne possono rilevare molti altri.

Non tutti, infatti, nell'industria, accolgono volentieri una totale libertà creativa: Keiichi Hara, regista di Miss Hokusai, afferma che prenderebbe in considerazione un'eventuale offerta da parte di Netflix ma durante gli anni si è abituato ad adattare le proprie storie alle richieste dei produttori, le quali spesso gli hanno dato ispirazione. In breve, secondo l'autore, la pressione dei piani alti può aiutare la creatività, in un modo o in un altro. Un concetto totalmente alieno a Netflix, che non mette voce nel prodotto.

Il presidente della Funimation, Gen Fukunaga, ha fortemente criticato Netflix quando ha acquisito i diritti per lo streaming di Neon Genesis Evangelion. Fukunaga e altri si preoccupano che una serie anime di qualità venga sepolta nella grande libreria di Netflix, invece di ottenere la visibilità che merita.

Netflix, inoltre, non è senza competizione nello spazio di streaming anime. Il gigante dello streaming anime Crunchyroll, ora di proprietà di AT&T, vanta quarantacinque milioni di utenti e due milioni di abbonati. A marzo, Crunchyroll ha annunciato un'estesa collaborazione con Adult Swim, che consente a quest’ultima di trasmettere in TV più contenuti disponibili su Crunchyroll, per esempio Mob Psycho 100, andato in onda l'anno scorso. Anche Hulu vanta un'impressionante libreria di anime e ha persino acquisito i diritti di streaming esclusivi per la stagione 2 di One Punch Man. Ora che Disney possiede una partecipazione del 60% in Hulu, dopo tutto, potrebbero avere un'apertura sul mondo degli anime, sebbene indiretta.

Normalmente, in Giappone, diverse compagnie negoziano insieme per produrre, finanziare e distribuire una serie anime. In questo modo, il rischio commerciale è distribuito tra tutte le società che partecipano. Netflix, d'altra parte, è disposta ad assumersi più rischi da sola. A marzo, Netflix ha annunciato partnership con tre case di produzione giapponesi, in aggiunta alle due partnership già esistenti. Queste case di produzione creeranno cinque nuove serie anime per Netflix.

Le condizioni di lavoro nel settore degli anime possono essere faticose, con lunghe ore e margini ridotti. Molti sperano che degli accordi diretti con Netflix possano consentire una maggiore libertà creativa e maggiori profitti per le case di produzione, e poiché Netflix è disponibile in oltre 190 paesi, avere queste serie anime su Netflix potrebbe attirare un pubblico più ampio. Ma perché Netflix si sta concentrando così tanto sull'anime? Perché, come detto, potrebbe essere un grande differenziatore tra Netflix e Disney.

Le case di produzione, in Giappone, spesso lottano per far quadrare i conti, mentre molti animatori lavorano duramente per salari incredibilmente bassi. Ma la lista di oltre trenta titoli di anime attualmente in produzione per Netflix sta sconvolgendo il settore, spostando il modello di business e dando molta più libertà creativa agli animatori, come mai prima d'ora. Non essendoci più una supervisione “stringente” su questi prodotti, tutti guadagnano da questo nuovo modello di business.

Sebbene produzioni come Ghost in the Shell o gli anime di Studio Ghibli abbiano conquistato l’audience mondiale nel corso degli anni, le serie TV domestiche nipponiche sono e restano la spina dorsale del settore, portando a oltre dieci volte le entrate annuali delle uscite al cinema, sopra ai cinque miliardi di yen. Addirittura, in Giappone è avvenuta una cosa veramente inaspettata: alcune serie anime sono andate in onda prima su Netflix e poi sulle emittenti locali. Sulle prime, questo modello di business spericolato potrebbe sembrare in forte contrapposizione con l'etica nipponica, ma a conti fatti, questo non avviene, non del tutto, almeno. La mole di lavoro prodotta per le piattaforme di streaming occupa totalmente l'industria, oggigiorno.

In qualche modo, Netflix è riuscita a trasportare le stesse perplessità che circondano le sue serie TV anche sulle sue serie anime. Cannon Busters è un prodotto dimenticabile. Non si tratta assolutamente di una brutta serie animata, anzi: i valori produttivi, la storia e i personaggi non sono deprecabili, si tratta semplicemente di un anime molto standard.

Pensate, per esempio, che fino alla fine del 2020 TUTTI gli studi di animazione in Giappone sono occupati con prodotti realizzati appositamente per piattaforme streaming. Questo crea una mole sconsiderata di lavoro, come riportato da AJA (The Association of Japanese Animations), però a basso costo, ma anche con enormi margini di guadagno per gli animatori che MAI come adesso hanno tempi di consegna (in alcuni casi) molto dilatati, che permettono loro di prendersela comoda. E stiamo parlando di Giappone.

Nonostante negli ultimi decenni l'industria sia andata incontro al suo periodo più fiorente, fatturando dieci volte gli introiti raggiunti dall'industria del cinema, il sistema di affari di queste aziende non porta un guadagno adeguatamente proporzionale al lavoro svolto. Il metodo classico non sembra più funzionare, insomma. Molte case di produzione si ritrovano infatti puntualmente in debito, dopo aver distribuito le proprie opere in TV, trovandosi costrette a recuperare i profitti soltanto con le vendite di DVD, Blu-ray e l'immancabile merchandise allegato, che spesso ha momenti inaspettatamente fortunati, per esempio associando la serie anime a videogiochi di successo o indovinando un oggetto particolare.

Le vendite d’oltreoceano, inoltre, rimangono una fonte di entrate non indifferente, ma la situazione migliora ulteriormente proprio con l'arrivo dei colossi dello streaming come Netflix, Amazon Prime Video e naturalmente Crunchyroll.

Conosciuta dalla quasi totalità di consumatori di serie anime, Crunchyroll è una delle piattaforme più popolari per lo streaming di serie animate (ma anche videogiochi, Drama-CD, Manga e Musica). «Alcuni contenuti richiedono un abbonamento a pagamento mensile, mentre altri diventano gratuiti a distanza di un periodo di tempo predefinito dalla pubblicazione. A seconda dei contratti di licenza, i titoli possono essere riservati agli utenti abbonati e possono essere resi disponibili solo in alcune parti del mondo. La grande accessibilità e la possibilità di vedere serie anime completamente sottotitolate in maniera professionale ha portato, nel 2018, 2 milioni di abbonati e 40 milioni di utenti registrati» [Wikipedia]

Questo metodo ha dunque solo elementi positivi?

No di certo. In primis, gli studi anime possono liberamente affidare la produzione della serie a conto terzi, puntando su una grossa manovalanza, spesso straniera. Questo aspetto non garantisce sempre una qualità costante nelle opere. Questi studi, che spesso collaborano sotto altre forme contrattuali, si limitano semplicemente a consegnare il lavoro, senza preoccuparsi esattamente della qualità complessiva dello show o dei suoi standard. Secondariamente, quando questo si verifica, viene ulteriormente abbassato lo standard (non essendoci più un comitato di produzione che controlla il lavoro svolto), anche se la serie resta prodotta in patria. Netflix, commissionando direttamente le serie agli studi d'animazione, elimina certamente i costi (anche umani) dei comitati di produzione, una costante nell'industria dell'intrattenimento giapponese, che spesso rallentano il processo decisionale nell'elaborazione di un prodotto. Tutto sembra dirci quindi che questo metodo sia più veloce e snello, ma a discapito della qualità, sia ben chiaro. Abbiamo detto dunque che Netflix non solo non è coinvolta in alcun comitato di produzione di una serie anime che sta concedendo la licenza, o che sta realizzando in maniera autonoma, ma è assolutamente un agente esterno che paga a lavoro ultimato e tutto sembra suggerire che paghi bene. Meno lo studio spende per fare una serie anime, più in sostanza guadagna con i margini che il metodo Netflix standardizza. Si tratta di dati molto riservati, certamente non resi pubblici, ma alcuni CEO di certi studi studi giapponesi hanno affermato (senza fornire cifre specifiche) che il pagamento delle piattaforme streaming supera di diversi zeri il pagamento (per esempio) di una Toei, una Tsuburaya o una Bandai.

La seconda discussa stagione di Castlevania, trasmessa su Netflix, ha fatto seguire qualche inevitabile polemica, specialmente quando alcuni animatori dello studio americano hanno specificato che, avendo limiti di budget piuttosto evidenti, sono stati costretti a concentrare l’azione in alcuni momenti specifici dello show e trovare un metodo di animazione più “animate-able”.

C’è poi da ribadire, a costo di risultare ripetitivi, che di “Originals” non c’è alla fin fine niente su Netflix, tranne pochissimi prodotti, a conti fatti. Per esempio, un Netflix ORIGINALS popolare e riconosciuto come Devilman Crybaby è puramente in grado di esistere grazie alla partnership tra Aniplex e Dynamic Planning; solo successivamente arriva Netflix ad offrire la sua piattaforma per la diffusione streaming. E se avete seguito le vicissitudini di Aniplex, spesso rivelate dallo stesso Maasaki Yuasa, i soldi per Devilman non bastavano per una serie inizialmente composta da 20 puntate, quindi si pensò di ridurre il numero degli episodi, secondo alcuni a discapito di una narrazione che doveva essere più dilatata. Netflix, nel caso di Devilman Crybaby, arrivò solo dopo che l'accordo fu siglato, offrendo la sua piattaforma per la messa in onda, ma alla fine di questo processo, Netflix non ha aiutato in nessun modo il suo “ORIGINALS” si è limitata a comprare la serie e fortuna ha voluto che fosse Devilman Crybaby, aggiungo. Se il fine ultimo è arrivare all'interesse del committente.

Grazie a Netflix, insomma, o per colpa sua, in Giappone le cose stanno cambiando, ma come affermano tanti addetti al settore, non siamo ancora arrivati al culmine dei profitti creati da questo cambiamento e quindi è difficile stabilire esattamente se il metodo, alla lunga, si rivelerà positivo o negativo. Dopotutto, Netflix è una società che sopravvive con i soldi di Wall Street. Se Netflix investe troppi soldi negli studi anime, l'esposizione del settore può portare ad una crisi dei mercati finanziari abbastanza pericolosa da danneggiare gravemente l'industria giapponese. Che è poi quello che tanti temono.

Nel bene e nel male.