La lentezza di Sonic The Hedgehog | Racconti dall’ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
L’ho raccontato anche nel podcast sul Mega Drive Mini ma tanto vale ripetersi. Se penso a Sonic The Hedgehog, per qualche motivo, mi viene quasi sempre in mente un aneddoto non particolarmente illuminante, ma che mi è rimasto in testa. Il protagonista era un mio compagno di classe, credo in prima o seconda superiore, non so quanto effettivamente videogiocatore, ma certo non appassionato come me. Non giocava come un matto a qualsiasi cosa uscisse e/o su cui riuscisse a mettere la mani, mettiamola così. Magari era uno che andava a giocare saltuariamente a casa dall’amico coi videogiochi. Posso sbagliarmi, ma nella mia memoria è così. Ecco, lui conosceva Sonic The Hedgehog. Ci giocava. Ricordo proprio una volta in cui eravamo in classe e, non so per quale motivo, si finì a parlarne. E, per lui, Sonic The Hedgehog era una mezza palla. No, non è vero, non era una palla di suo, era una palla quando si giocava in quelle situazioni di gruppo.
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Avete presente, no? Quando si è tutti assieme lì sul divano, si sta giocando e, anche se non si ha per le mani un gioco strettamente multiplayer, si sta facendo multiplayer, dove per multiplayer si intende il giocare a turni, il passarsi il pad da una coppia di mani all’altra. Una vita a testa, se non proprio una partita a testa. Ecco, in quel tipo di situazione lì, Sonic The Hedgehog era un po’ una palla. E infatti lui me lo descrisse come un gioco in cui uno si metteva a giocare e gli altri russavano. Perché Sonic The Hedgehog era facile, o comunque ci metteva parecchio tempo a diventare difficile, i livelli potevano essere anche molto lunghi se ti mettevi a cazzeggiare e/o a cercare i segreti, ogni volta che ti fermavi ci mettevi un quarto d’ora (metaforico) a ripartire e quando arrivavi alla zona acquatica, mamma mia, la lentezza, la pesantezza, non finiva più.
Non so perché questa cosa mi sia rimasta così impressa. Magari, con un inconscio senno di poi, la vedo come testimonianza personale di come effettivamente Sonic The Hedgehog sia riuscito, all’epoca, a sfondare il muro del mainstream e uscire dal confino degli appassionati, in una maniera che, in fondo, prima dell’era PlayStation, non è riuscita a poi così tanti. Del resto, la sua pubblicazione segnò il punto di svolta definitivo nella guerra (soprattutto americana) fra Sega e Nintendo e nella rimonta che portò la casa del porcospino al suo apice di forma, prima del crollo allucinante che seguì. Quel che so, però, è che quel tipo di “lamentela” ammiccante e simpatica coglieva nel segno.
Sonic The Hedgehog, se lo chiedete a me, era un gioco splendido, poco importa se Super Mario World giocava in un’altra categoria. È la categoria Mario, non partecipa nessun altro, ogni tanto qualcuno viene ospitato, tipo il Giappone che partecipa alla Copa América, ma è un intruso e figurati se vince. Nella categoria “giochi di piattaforme”, però, quella a cui Mario non partecipa perché fa campionato a sé, Sonic, il Sonic vero, quello 2D, sta là in cima. E il primo episodio è, forse, quello più equilibrato e preciso. Certo, per quanto all’epoca facesse spavento, con il suo sfrecciare, il suo stile, la sua personalità, la sua voglia di fare, è quello tecnologicamente meno avanzato, e ci mancherebbe. I seguiti introdussero finezze, novità di controllo, idee folli, sperimentazioni tecnologiche e di design, e i miei preferiti rimangono Sonic The Hedgehog 2, con la sua pulizia estetica e l’introduzione di Tails, e Sonic CD, con la sua pacca volgarissima e l’idea dei viaggi temporali. Ma il primo Sonic ha… equilibrio, purezza.
Si percepisce proprio una cura, una ricerca, un’attenzione al level design che nei seguiti, fra i tempi di sviluppo costretti e le mille beghe interne agli studi che se ne occuparono, tornò solo in maniera altalenante. Il primo, invece, è quello in cui ricordo il miglior bilanciamento fra la voglia di correre come pazzi senza mai guardarsi indietro e la possibilità di attardarsi, esplorare, scoprire, cercare ogni segreto. Gli stessi livelli segreti, necessari per scovare tutte le gemme e finire sul serio il gioco, seppur tosti, impegnativi, sono decisamente più morbidi, meno aleatori rispetto a quelli che verranno negli altri episodi. Funziona tutto. Funziona bene. O, perlomeno, lo fa nei miei ricordi.
Ciò non toglie che quella lamentela cogliesse nel segno. Una partita a Sonic The Hedgehog… anzi, no, una vita a Sonic The Hedgehog si sviluppava come… una vita, appunto! Sembrava una partita a un puzzle game di quelli dinamici, tipo, che so, un Columns. Partiva lenta, progrediva lenta, la sfida era minima, rischiavi giusto se ti impuntavi a fare il fico, a giocare “bene”, a scovare i segreti e fare i numeri, e ci mettevi un secolo a raggiungere quel punto in cui la faccenda acquisiva un minimo di abbrivio e ti metteva alla prova. Ma in fondo era giusto così. Il bello di quel gioco era anche un po’ il viaggio, il passeggiarci dentro, il vivere in quei mondi assurdi e colorati, zompettare in giro, sfrecciare senza pensieri o magari esplorare alla ricerca di anelli e gemme, senza bisogno di fartene trascinare. Era piacevole starci dentro, anche se non eri in tensione continua. Praticamente, era il C’era una volta a… Hollywood dei giochi di piattaforme.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al Sega Mega Drive (Mini e non), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.