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Come spade laser, X-Wing e Natalie Portman hanno condizionato irreparabilmente i miei gusti

Il mio incontro con Star Wars è stato prima di tutto tattile. Ero molto piccolo, diciamo sei o sette anni (‘97/’98, Coppa UEFA all’Inter, quel periodo lì), e i miei avevano appena portato su dalla cantina uno scatolone di giocattoli che erano stati di mio fratello, dodici anni più grande, e che in quei giorni era sicuramente in giro a drogarsi e correre dietro a qualche ragazza, vai a sapere, ma non divaghiamo subito. Fatto sta che quello che videro i miei occhi, una volta tolto il nastro adesivo e aperta la scatola, fu qualcosa di folgorante, che oggi mi immagino illuminato da una luce dorata spontanea e accecante, tipo arca dell’alleanza. Un Millennium Falcon enorme e dettagliatissimo, un Tie Fighter e soprattutto un X-Wing, con tanto di ali che si potevano aprire e chiudere. Roba buona, giocattoli prodotti tra gli anni Ottanta e Novanta, che adesso potrebbero pure valere qualcosa, se qualcuno si ricordasse dove siano finiti. Ma sto divagando di nuovo. Premetto che non avevo ancora visto uno Star Wars; per carità, non posso giurarlo, ma il ricordo è quello di un incontro vergine con quel design incredibile. INCREDIBILE.

Probabilmente non è questo, il modellino, ma ci va terribilmente vicino. Ed era clamoroso.

Non avevo mai visto niente di così bello, avveniristico, sensuale. Era il futuro, qualcosa di proveniente da un altro tempo, lì tra le mie mani, altro che vederlo bidimensionale in TV! Da quel momento, la mia mente di bimbo ha cominciato a vagare per galassie lontane lontane, creando storie probabilmente contaminate dall’effetto lisergico che poteva produrre la conversione di Space Harrier per Master System (altro residuato di mio fratello) su una mente ancora innocente. È stata una bella infanzia. La cosa più eccezionale era però rendersi conto di come quel design “parlasse”, raccontandomi già tutto quello che c’era da sapere, puro spoiler visivo. È come trovare un fossile, osservarlo e fare congetture sulla natura di quell’animale mai visto prima. Era chiaro come il Tie, così austero, nero smoking, regolare nelle geometrie, fosse qualcosa di nato dalla mente di un “cattivo”, cui si contrapponeva il disegno rozzo, spigoloso, dell’X-Wing, quasi fosse una creatura di Frankenstein messa insieme dall’assemblaggio dei rottami di altri caccia spaziali (cosa probabilmente vera), eppure fiero, appuntito, pronto a fendere lo spazio siderale. Va da sé che la scimmia per i combattimenti spaziali è rimasta intatta nel tempo, con gli Star Wars: Rogue Squadron per GameCube lì, a svettare in cima ai desideri di un ragazzino sonaro e diventando pornografia quando capitava di vederlo su qualche rivista. Recuperato un casino di anni dopo, pareva di avere davanti un’opera contemporanea, perfetta al pixel, solidissima, con quel gusto per il dogfighting spaziale che prende vita dalle pellicole, diventando multi-sensoriale e buttandoci in mezzo all’epico assalto alla Morte Nera. Totale. E adesso quelle emozioni le cerco un po’ ovunque, nelle esperienze videoludiche, dai più “terrestri” Ace Combat agli Star Fox, tanto che mi è piaciuta pure quella mezza schifezza firmata Platinum per Wii U, ed esaltandomi quando c’è qualche sezione extra di questo genere, tipo gli intermezzi tra un pianeta e l’altro di certi Ratchet & Clank. Ma anche quando vedo Tom Hardy in Dunkirk, per dire.

Due gocce d’acqua!

Dallo spazio delle mie battaglie immaginarie, entrai poi nell’orbita del pianeta Star Wars con un rocambolesco atterraggio di fortuna, tanta era la foga di approfondire il mondo da cui provenivano quegli oggetti incredibili travestiti da giocattoli. L’impatto fu abbastanza devastante, non tanto per gli intrecci, il sottotesto politico e la romance di fondo, cose abbastanza irrilevanti nella mia mente di allora, o per i personaggi in sé, quanto per le loro armi. La spada laser è quell’oggetto che se lo fai vedere a un bambino lo segni per tutta la vita, basta quello a rifornire la saga di nuove generazioni di appassionati ogni vent’anni. Nient’altro. È un simbolo universale della figata, un fascio di plasma abbagliante (neon RGB che mi hanno poi fatto amare Refn e tutti quelli che nel cinema li usano con mestiere), pericolosissimo e attivabile con un PULSANTE (tutto quello che si attiva premendo un pulsante è figo, anche un abat-jour), oggetto talmente iconico e affascinante da non sembrare fuori luogo anche lontano dal periodo “fine Settanta inizio Ottanta”. E poi quel lavoro incredibile sul sonoro, che sarà stato per molti il primo effetto cinematografico a marchiare indelebilmente la memoria uditiva, capace di rendere da solo elettrica la scena, tesissima e incerta. Un suono proprio di un materiale impossibile, alieno, nuovo, che associato al gesto di brandire quell’elsa, ha lo stesso significato di “adesso sono cazzi amari”, si dia inizio alle danze, liberate la forza. Si può dire che per parecchi anni, inconsciamente, abbia guardato i vari Star Wars solo per questo, non avendo grandi possibilità di ritrovarla in qualche videogioco e tanto meno in forma fisica, ché io la volevo vera, mica una cinesata di plastica con una lampadina colorata dentro, su. Mi sono tolto lo sfizio il mese scorso, con l’ottimo Star Wars Jedi: Fallen Order (mai giocato ai due Force Unleashed e nemmeno ai Knights of the Old Republic, quindi, alla fine, sono anche un po’ pirla io), ed è stata una sensazione di coronamento dell’ossessione pari a quella che fu per Rogue Leader. Perché diciamolo, di giochi come l’opera Respawn ce ne sono a pacchi, ma inserire una lightsaber in quel template cambia tutta la prospettiva e ne aumenta esponenzialmente il sex appeal. Tutto sembra più croccante, importante, esaltante, che è poi il trucco da prestigiatore che Lucas ha usato per reinterpretare il fantasy: attraverso il design.

Ma in tutto questo sproloquio, dov’è Natalie Portman? Come tutte le storie di formazione, anche quella di cui tratta questo pezzo ha la sua componente di amore (in questo caso parecchio platonico). La trilogia prequel è stata quella che ho vissuto con più trasporto e un minimo di coscienza cinematografica (un minimo proprio, perché per me a suo tempo furono film BELLISSIMI e travolgenti, poi vabbé, lasciamo stare), senza contare che la portata dell’evento si tagliava con un coltello anche a scuola, così incastrato nel periodo orribile dell’adolescenza, che vado a rivangare in esclusiva per Outcast (qui la pagina Patreon per l’analista). Padmé Amidala era in quel contesto la più classica delle cotte adolescenziali nerd per personaggi di finzione/attrici/gente che mai si incontrerà dal vivo, capace di influenzare un certo gusto estetico verso il gentil sesso (sto cercando di capire se inconsciamente sto facendo discorsi sessisti ad ogni lettera battuta, che qui è un attimo). Agli occhi del Calzati ragazzino (che nessuna ragazzina si cagava), era proprio un diamante che brillava, in tutto quel mulinare di spade laser e CGI, così regale, elegante, pura. Poi, ovviamente, calato l’ormone svariati anni dopo, quella purezza idealizzata è stata sostituita dalla certezza che la Portman desiderasse ardentemente sparare ai testicoli di Lucas, per quelle battute che era costretta a leggere. E da allora bramo un revenge movie che parli proprio del trauma subito dall’attrice israeliana, che secondo me quei tre film li ha proprio vissuti male. Tutte le storie d’amore adolescenziali finiscono, che ci volete fare, però continuo ad avere un debole per la Portman attrice e tendo a dare credito a qualsiasi film la veda nel cast. Se non è amore questo…

Che poi, anche qui, il lavoro sui costumi, sull’estetica, è incredibile. Ovvio che poi un ragazzino si innamora!

Entrando in contatto con Star Wars, si sviluppa per forza di cose un qualche tipo di ossessione, in chi lo ama e in chi lo detesta, perché è un immaginario troppo forte, che va ben oltre la narrazione e le citazioni, ma soprattutto va oltre la qualità formale dei singoli episodi. Ha più i connotati di un’esperienza turistico/spirituale, con i suoi panorami, oggetti, usi e costumi tipici di quel luogo e della sua storia, che inevitabilmente diventa anche un po’ nostra.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Star Wars, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.