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Super Meat Boy - Fail Faster, Fail Better | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Prima di Twitch, prima di YouTube c’era l’aula studio ħ (acca tagliata) del dipartimento di Fisica di Napoli. Era un orrendo ed enorme scantinato impolverato coi muri a mattoncini rossi, pieno di tavoli scribacchiati. La luce filtrava debolmente solo da due enormi finestroni posti su un lato: che fuori fosse giorno o notte, ogni dì era neon-dì. Forse era un’astuta mossa psicologico-architettonica per abituare gli studenti alla loro futura vita in laboratori polverosi e senza luce. Fra questo e il puzzo micidiale che veniva dalla mensa poco distante, fatico a capire come potessi chiamare quel luogo “Casa”. Perché era una casa, per me, e tutte le altre persone che ogni giorno vivevano quel luogo erano una famiglia. Ma ogni tanto anche nelle famiglie si litiga e nell’aula studio tipicamente si litigava per le prese di corrente, che erano tre e tutte nello stesso angolo. Onde evitare guerre fratricide capimmo che comprare un paio di ciabattoni era cosa buona e giusta, ma comunque eravamo costretti a usare i computer portatili tutti nello stesso angolo che durante la mattinata si riempiva rapidamente fino a sembrare un LAN party. I computer li portavamo all’università principalmente per studiare e lavorare ai progetti per gli esami, o almeno questa era la scusa ufficiale perché poi alla fine sfruttavamo la rete veloce dell’università per scaricare e per giocare a World of Warcraft tutti insieme nella stessa stanza. In pausa pranzo i fogli di calcolo e le righe di codice sparivano dagli schermi e lasciavano gradualmente spazio a schermate videoludiche di varia forma e natura.

Come in una moderna sala giochi ogni tanto si formavano i capannelli di persone attorno a questo o a quel videogame. Il formarsi del capannello era l’equivalente di un marchio di qualità per il gioco o per il giocatore, e visto che non sono mai stato un ottimo giocatore potevo solo contare su quello che stavo provando.

Una roba così ma con un’età media molto più bassa.

Super Meat Boy è stato il mio primo capannello. Il secondo e ultimo sarebbe stato FTL. 

Cosa aveva attirato l’attenzione di così tanti ragazzi e ragazze sullo schermo del mio scassone ACER 17 pollici dal peso di quattro chili e mezzo? Semplice: Super Meat Boy, che dieci anni fa sembrava uscito da un altro mondo. Era veloce, fluido, colorato, brutalmente difficile e con un perverso senso dell’umorismo, perfetto per quell’età in cui un po’ tutti siamo stati quello che oggi definiremmo “edgy”. C’era un altro importante tassello che contribuiva al successo di Super Meat Boy in sala studio ed è più legato alla psicologia umana che altro.

C’è qualcosa di visceralmente assuefacente nel guardare qualcuno fallire, fallire e fallire ancora prima di riuscire. Forse perché a suo modo è una forma molto naturale e istintiva di narrazione, come una sorta di “viaggio dell’eroe” in forma compressa. Forse è una forma leggera di schadenfreude, qualcosa che ci ricorda costantemente che fallire è normale, che è nell’ordine delle cose e che dovremmo perdonarci più spesso gli sbagli.

Sono una persona che si scoraggia molto facilmente, eppure c’era qualcosa in Super Meat Boy che mi metteva profondamente a mio agio. Qualcosa che mi spingeva a riprovare continuamente e ossessivamente pur di fronte alle peggiori avversità, che avessi un pubblico o che fossi solo alla scalcagnata scrivania della mia stanza da fuorisede. All’epoca sembrava magia ma erano solo una serie di scelte di game design estremamente oculate, e per alcuni versi rivoluzionarie per l’epoca, che spingevano il giocatore a resistere prometeicamente; morte, dopo morte, dopo morte.

Innanzitutto l’assenza di punizioni pesanti per il game over: sei morto? Fa nulla. Esattamente mezzo secondo dopo puoi riprovare a fare il livello. Niente schermatine demoralizzanti, niente “SEI MORTO” a schermo, niente tempo perso: solo un semplice e velocissimo reset del livello.

Poi c’è l’assenza totale del concetto di vite, per cui si può morire un numero arbitrario di volte in un determinato livello senza alcuna punizione se non, al massimo, il proprio ego. C’è anche la completa coerenza dei livelli che sono sempre esattamente gli stessi ad ogni giro, eliminando di fatto la presenza, a volte frustrante, di elementi legati alla casualità.

Pixel che vanno incontro a morte certa.

Infine c’è il replay finale che si ottiene quando si riesce a completare un livello: mostra tutte i tentativi precedenti del giocatore sovraimposti l’uno all’altro. Specie nei livelli più difficili questo si traduce in uno sciame di piccole pallette di carne rossa che si schiantano progressivamente contro gli ostacoli del livello fino a che non ne rimane soltanto uno. Per quanto coreograficamente impressionante, ho sempre pensato che questo piccolo tocco fosse un modo degli sviluppatori per rincuorare il giocatore dopo tanta sofferenza: “Va che figata che sei riuscito a fare!”, ma al tempo stesso gli ricorda il prezzo di quella figata in termini di fallimenti, resistenza e tenacia. Super Meat Boy, dopo ogni livello, ti mostra letteralmente i cadaveri che ti sei lasciato alle spalle. Lo fa per il tuo bene, per spingerti a non mollare mai. Tutto in Super Meat Boy sembra urlare:

Fail faster, fail better!

Ti distrugge, a tratti ti umilia e ti costringe a ricostruirti da capo. Sempre tenendoti costantemente per mano e incoraggiandoti più che può. Certo non avrebbe mai funzionato così tanto se non ci fosse stato anche un gameplay, una direzione artistica e un level design praticamente perfetti ma quella è una roba con cui sicuramente vi avranno fatto una testa così altrove.

In tutto questo non è che io abbia imparato la lezione di Super Meat Boy nella vita eh, ma è almeno uno dei pochi momenti in cui mi sono sentito spronato dal miglior mentore possibile.