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Post Mortem #39: La canzone di The Bard’s Tale

Una rubrica in cui vi raccontiamo le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, sulla loro esperienza legata alla lavorazione di questo o quel videogioco.

Quando torniamo dalla Game Developers Conference, noi di Outcast ci lasciamo sempre sulla gobba un backlog di articoli che vorremmo/dovremmo/potremmo scrivere su vari eventi a cui abbiamo partecipato ma, con la scusa che non si tratta di anteprime e sono pezzi “sempreverdi”, finiamo per trascinarceli dietro all’infinito. Talvolta in maniera letterale. E allora è utilissimo quando salta fuori un gancio, un pretesto, un motivo per dire “Oh, è un’occasione buona per recuperare quel pezzo che non ho mai scritto”. È per esempio già accaduto con la Cover Story su Jurassic Park, dovrebbe capitare nuovamente il mese prossimo (se il Bellotta non pacca) e succede oggi. Come mai? Perché oggi viene finalmente pubblicato The Bard’s Tale IV: Barrow's Deep, rilancio di una serie storica per quanto riguarda i giochi di ruolo elettronici. E allora, in attesa di potervi proporre la recensione, che affido volentieri a uno scalpitante Giongiani, eccomi qui a raccontarvi il Classic Post Mortem tenutosi alla GDC 2018 da Michael Cranford, cocreatore dei primi due episodi della serie.

Nel lontano 1981, stiamo parlando di quasi quarant’anni fa, Cranford viveva nella sua bella casetta a Berkley e giocava a un dungeon crawler su Apple II. Trascorreva le notti appiccicato allo schermo, compilando liste di magie da inserire nell’avventura vissuta con un gioco estremamente semplice, limitatissimo, ma che per lui, giovane sognatore, era vero, vivo, reale. Poi, certo, di fronte alla complessità grafica moderna, risulterebbe ridicolo, ma come qualsiasi buon videogioco dell’epoca, sapeva evocare immagini ben superiori a quelle “letterali”. E, in un certo senso, fu proprio durante quelle sessioni notturne, davanti a quel gioco così limitato, che nacque The Bard’s Tale. Il gioco era un caposaldo dell’epoca, Wizardry, capostipite di una serie che sarebbe proseguita per decenni, e pur nella sua bellezza, lasciava addosso a Cranford la sensazione che si potesse fare molto di più. A conti fatti, si poteva davvero. Si poteva creare un gioco che avrebbe toccato, magari addirittura cambiato, la vita di tantissime persone, come raccontato nelle tante lettere ricevute da Cranford negli anni, per mano dei suoi giocatori.

Ma il percorso per arrivare alla creazione di quel gioco era ancora lungo, seppur ben avviato. Prima di scoprire il mondo della programmazione, Cranford era già appassionatissimo di Dungeons & Dragons e si dilettava creando dungeon per le sue avventure. Nella scuola che frequentava, c’era un club di appassionati del gioco di ruolo cartaceo ma «Non erano abbastanza seri, per me». Cranford lasciò quindi il club e, sfogliando il classico “yearbook” all’americana, venne a conoscenza di due giocatori di football amanti di Dungeons & Dragons. Incredibile ma vero. «Normalmente, quel tipo di persone mi ignorava», ma John Parry e Brian Fargo erano due bestie rare: «Fargo sostiene che all’epoca era un nerd ma» i due erano giocatori di football, atleti, super popolari, completamente di “altra fascia” rispetto a Cranford. Però erano appassionatissimi di Dungeons & Dragons, cosa che lo proiettò in un mondo a cui altrimenti non avrebbe avuto accesso, invitato a feste clamorose da un Fargo che se ne fregava del giudizio delle persone e seguiva qualsiasi cosa lo appassionante.

Nacque quindi un’amicizia a base di giochi di ruolo, con Cranford che progettava dungeon, li disegnava e li riempiva di indizi e attività, creando delle specie di sceneggiature. Il trio era appassionatissimo anche di videogame, passava un sacco di tempo in sala giochi e quando i genitori di Brian Fargo acquistarono un Apple II, ci fu la svolta: potevano creare videogiochi! I tre studenti svilupparono un gioco intitolato Labyrinth of Martagon, fecero stampare una copertina a un amico e si misero a venderlo in giro per negozi. Erano convinti di stare facendo gli sviluppatori. Lì scattò l’amore, con Cranford che si appassionò di programmazione, iniziò a sviluppare videogiochi di ogni tipo durante le sue serate e finì per far un po’ deragliare la propria carriera scolastica. Ma ci credeva davvero ed era pure convinto di poter fare molto di meglio, anche perché fino a quel punto si limitava a programmare in assembly.

A furia di provare e sbattere la testa contro il muro, Cranford mise assieme un prototipo, con una visuale in prima persona tramite cui esplorare un dungeon, e decise di proporlo in giro. Si manteneva consegnando pizze e viveva nella Bay Area, quindi ci provò con Broderbund ed ebbe una chance di mostrare il suo lavoro al presidente dello studio, illustrando le proprie idee per dieci minuti a una persona che lo guardava «con lo sguardo spento». La risposta? Quarantacinque minuti di paternale su cosa sono i videogiochi, sui motivi per cui sono divertenti, sul suo essere solo un bambino stupido che non sapeva cosa stesse facendo. Insomma, non benissimo. Ma Cranford non mollò, rispose a un’inserzione di un’azienda, Hesware, che cercava programmatori per un nuovo ufficio proprio a Berkeley. Si portò il suo Apple II in autobus fino alla sede, mostrò la demo, venne assunto e decise che aveva trovato il suo lavoro, con tanti saluti al corso di laurea in architettura!

Lavorò su giochi di piattaforme e conversioni di vario tipo, ma aveva la fissazione per Wizardry, aveva il suo prototipo, voleva sviluppare uno dungeon crawler: gli venne data la possibilità di farlo, ma solo a patto di riuscire a stiparlo in 64K, dato che Hesware pubblicava solo giochi su cartuccia. Ebbene, così nacque Maze Master, una sorta di progenitore di The Bard’s Tale, sicuramente esile e rozzo ma, intanto, con una finestra di gioco più grande di quella di Wizardry. Successivamente, Cranford portò il gioco al CES e venne contattato da Brian Fargo, che si ricordava di lui e voleva invitarlo a unirsi al suo studio, fondato relativamente da poco: Interplay. Considerando quanto lo annoiava il suo lavoro su conversioni e poco altro, Cranford colse l’occasione e si mise al lavoro con Fargo sul suo prototipo, che nel frattempo era cresciuto, per esempio con l’aggiunta di grafica bitmap. I due presentarono il progetto a Electronic Arts e i lavori partirono ufficialmente.

Cranford aveva una visione “agnostica” dei sistemi di classi. Adorava usare le magie, si annoiava col combattimento all’arma bianca e, in generale, non capiva perché fosse necessario impedire a un mago di usare una spada. Decise quindi di creare sette classi - anche se alla fine dovette ridurle a quattro - tutte in grado di utilizzare magie e inizirò a tirar fuori una valanga di ideee che si influenzavano a vicenda, per esempio con certi incantesimi che suggerivano altri possibili elementi di gioco: nel momento in cui inserisci una magia per controllare la volontà dei nemici, per dirne una, ti servono mostri dotati di volontà propria. O ancora: per poter visualizzare a schermo la durata di una torcia, inserì un’icona che ne segnalava il tempo di consumo e così facendo si ritrovò con uno strumento utile per visualizzare anche il consumo di certe magie (a cui, lavorando di interrupt, legò pure un accompagnamento musicale in background). Ideò una stanza in cui la torcia si spegneva e si perdeva il senso dell’orientamento… a quel punto serviva una bussola, e quindi creò anche quella funzione.

Mano a mano che lo sviluppo procedeva, tutti si innamorarono della presenza di un bardo e da lì arrivò la decisione di avere della musica di sottofondo costante, che fra l’altro era una cosa normale su Commodore 64 ma non banale da implementare su Apple II. Durante quel periodo, fra l’altro, Interplay dovette lavorare anche assieme a un consulente inviato da Electronic Arts, che «aveva quasi solo idee tremende, però si inventò il titolo del gioco e anche il nome di Skara Brae per la città».

Cranford non volle inserire oggetti maledetti. «Va bene la difficoltà, va bene il realismo, servono a coinvolgerti, ma non devono giungere a farti incazzare.» Col senno di poi, possiamo dire che The Bard’s Tale, con la sua difficoltà, fece comunque incazzare un sacco di gente, anche se, come tanti sviluppatori dell’epoca, Cranford garantisce che la cosa non fu voluta: «Lo volevo difficile, non impossibile, ma da sviluppatore era complicato rendermene conto e i tester non se ne lamentavano.»

L’ordine di idee su cui si basò la creazione della mitologia per The Bard’s Tale non è, secondo Cranford, concettualmente diverso da quello su cui lavorò a suo tempo Tolkien. Il signore degli anelli, spiega il programmatore e game designer, è stato costruito su un mito noto, familiare alla popolazione inglese. E Cranford voleva fare qualcosa di simile, lavorare su materiale noto al suo pubblico. Per questo non si ispirò a mitologie lontane, poco conosciute, perché ritiene che ci debba essere una base di partenza immediatamente comprensibile, anche a livello inconscio, da cui poi muoversi per sorprendere il pubblico. I personaggi di Tolkien, spiega, sono lontanissimi dalla nostra cultura ma partono da assunti condivisi, che sono poi, alla base, quelli della cultura cristiana: fondamentalmente, i buoni sono coloro che fanno ciò che devono fare, mentre il male è ciò che va contro i dettami di partenza. Non è una narrazione esplicitamente cristiana, ma parte da concetti di base che sono quelli. Per altro, i nomi delle città di The Bard’s Tale II arrivano tutti dalle città bibliche, quindi, insomma, a tratti, questo approccio, si fa anche letterale.

Nel descrivere il suo approccio al game design, comunque, Cranford parla della tecnologia come di un mezzo per estendere i nostri sensi e le nostre capacità, essere dove vogliamo, comunicare, rimuovere limiti. Un modo per diventare più di quel che si è, andare oltre, crescere, superare i confini terreni. Ancora, «è un tema centrale cristiano ed è la base del game design», ma soprattutto è il futuro, le cui porte potrebbero e dovrebbero essere aperte dalla realtà virtuale. E The Mage’s Tale, il prologo in VR di The Bard’s Tale IV prodotto dalla inXile Entertainment di Brian Fargo, è «esattamente quello che avrei voluto fare con The Bard’s Tale: mettere davvero il giocatore nei panni del mago.»

In The Bard's Tale II: The Destiny Knight vennero introdotti degli enigmi a tempo. Se fosse andato avanti con la serie, spiega Cranford, avrebbe probabilmente finito per sviluppare giochi in tempo reale.

Nella parte finale della conferenza, Cranford ha provato a offrire il suo punto di vista su alcune vicende “polemiche” che caratterizzano la storia della serie The Bard’s Tale, menzionando i contrasti con la programmatrice Rebecca Heineman («Non è vero che non volevo una protagonista femminile perché ero convinto che le donne non giocano ai GdR!») e raccontando della lunga querelle con Brian Fargo. Il problema, spiega, è che inizialmente fecero tutto a base di strette di mano, senza mettere le cose nero su bianco, e durante i lavori su The Bard’s Tale II entrarono in gioco degli avvocati che, a quanto pare, consigliarono male entrambi. Da lì, esplose tutto.

Ci fu per esempio un grosso contenzioso sulla proprietà del codice sorgente, che Cranford aveva sempre tenuto per sé («Onestamente, nemmeno ricordo se sia vero, ma era proprio il genere di cosa a cui neanche pensavamo.») e i conflitti proseguirono a lungo, anche dopo il suo essersene andato da Interplay (The Bard’s Tale III: Thief of Fate è infatti in tutto e per tutto un gioco di Heineman). Successivamente, comunque, i contrasti con Fargo vennero appianati, soprattutto quando, cinque anni dopo, si giunse a un accordo anche perché Cranford venne a sapere che il suo avvocato era completamente fuori di testa e mentiva ai propri clienti, consigliandoli malissimo. Nel frattempo, però, il suo percorso lavorativo era completamente cambiato ed era perfino tornato all’università.

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«Mi mancano, quei tempi? Oggi sto bene, ma sì, un po’ mi mancano. Fare tutto da solo, sviluppare un videogioco attraverso la tua forza creativa, mettendo davvero un’impronta forte, era bellissimo. Era fonte di soddisfazioni enormi.»