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The Great Ace Attorney mi ha fatto riconciliare con la serie (e scoprire che nessuno legge Sherlock Holmes)

Sono molto legata alla serie di Ace Attorney. I primi tre capitoli sono in cima alla classifica delle mie visual novel preferite e c’è stato un tempo, ormai lontano, in cui mi sembrava fighissimo avere la sigla del Samurai D'acciaio come suoneria del telefono. Complice anche il fatto che all'epoca studiavo legge, vedevo in Phoenix Wright una sorta di testimonial del destino, un pensiero ovviamente frutto di quella dabbenaggine da matricola che, a posteriori, un po’ maledici e un po’ finisci per rimpiangere.

Ci rimasi molto male quando la mia passione cominciò a scricchiolare e a indebolirsi (parlo ovviamente di quella per Ace Attorney, la giurisprudenza non la rimpiango affatto). Le cose avevano cominciato a cambiare con l’entrata in scena di Apollo Justice – per quanto in quell’episodio il creatore della serie, Shu Takumi, non avesse ancora abbandonato – ma il colpo di grazia me lo diedero sicuramente l’insipido Dual Destinies e il soporifero crossover con il Professor Layton. Quando uscì Spirit of Justice, l’ultimo capitolo pubblicato su Nintendo 3DS, ricordo che lo comprai per una sorta di riflesso pavloviano, ma non ebbi nemmeno il coraggio di iniziarlo. A stuzzicare il mio interesse nei confronti di The Great Ace Attorney, quindi, è stata senza dubbio la notizia che Takumi era tornato a scrivere la storia del gioco.

Archiviate le inutili premesse autobiografiche, è invece utile ricordare che, come in tutte le visual novel, anche in TGAA ci vuole un (bel) po' di sana pazienza per entrare nel mood giusto, acclimatarsi, e aspettare che qualcosa faccia "clic", dato che si viene immediatamente travolti da un fronte torrido e potentissimo di blablabla sfiancanti. Per le prime cinque ore o giù di lì sono rimasta aggrappata al pad in attesa di quel clic, e quando alla fine c’è stato, devo dire che non ho rimpianto nemmeno un secondo di quella noia iniziale.
Per essere più precisi, il gioco prende una deliziosa piega metanarrativa con l'arrivo di Herlock Sholmes. Ovvia parodia del più famoso Sherlock, questo Sholmes non è solo l'ennesima, stramba incursione giapponese nei territori della cultura occidentale, ma un dispositivo narrativo, camuffato da omaggio, attraverso il quale Takumi si diverte a smontare i meccanismi della letteratura gialla. L'intento è così palese che certi episodi del gioco portano addirittura il nome di alcuni dei racconti di Conan Doyle ma, per qualche motivo, questa scelta sembra essere passata quasi inosservata. Nello specifico, ci sono dei momenti precisi nel gioco in cui Herlock Sholmes dà sfoggio delle sue celebri capacità deduttive, arrivando però a conclusioni al limite dell’assurdo. In queste sezioni, il compito del giocatore è proprio quello di aggiustare il tiro e trovare spiegazioni, forse meno elaborate rispetto a quelle proposte da Sholmes, ma decisamente più plausibili... Ma si tratta solo di questo?

Se si ha una certa familiarità con i racconti di Doyle, ci si accorge quasi subito che gli astrusi parti dell’intelletto di Sholmes rimandano, attraverso una fitta rete di citazioni, alle deduzioni celebri del vero Sherlock Holmes, di cui Takumi sembra essere un fine conoscitore, e che qui vengono dissezionate e contestate con amorevole pedanteria. La prima che viene presa in considerazione, non a caso, è la spiegazione del mistero ne "L'avventura della banda maculata", che non illustrerò per ragioni di spoiler, ma che al suo tempo mise in crisi anche gli esperti di erpetologia per via dei grossolani errori scientifici che conteneva.

Un riferimento interessante in questo senso è un articolo del Chicago Tribune, datato 1902, in cui l'autore A. B. Mackenzie affronta proprio il discorso sull’affidabilità delle capacità deduttive di Holmes (e non sarà né il primo né l'ultimo a farlo), arrivando alla conclusione che quasi tutti gli sforzi dialettici del nostro non "reggerebbero in tribunale" poiché partono "da premesse instabili per approdare a conclusioni fallaci".

È divertente pensare che Takumi possa essersi ispirato a questa o ad altre simili dissertazioni, quando ha deciso di trascinare Holmes nella sua serie finto-procedurale. D'altronde, basterebbe anche solo prendere in considerazione il manifesto del metodo deduttivo dell’investigatore di Baker Street ("Quando hai escluso l'impossibile ciò che resta, per quanto improbabile, è la verità") per farsi venire più di un dubbio sulla sua validità, a meno che non si reputi davvero possibile formulare tutte le ipotesi "impossibili", ovvero andare per esclusione.

Questo, chiaramente, non significa che Takumi voglia mettere in discussione l'opera del padre del giallo moderno, né che pretenda in qualche modo di fare meglio. Piuttosto, è la scusa per intavolare una riflessione semiseria su come si costruisca un mistero avvincente, e quali siano gli ingredienti per renderlo davvero gustoso. Farsi legare le mani dal rigore scientifico o dalla pretesa di mantenere una perfetta aderenza alla realtà, rischia infatti di diventare un esercizio sterile; il vero talento si manifesta piuttosto nella gestione dei tempi narrativi, nella capacità di immaginare un presupposto intrigante (la "banda maculata" ce lo ricorda bene) e nel modo in cui si procede a svelare i tasselli dell’enigma, fino ad arrivare alla rivelazione. A quel punto, poco importa quanto questa sia plausibile, l'importante è che sia interessante e che ripaghi l'investimento emotivo e di tempo del lettore (spettatore, giocatore, ecc.).

Nello stesso Ace Attorney, e qui parlo della serie nella sua totalità, non mancano incongruenze e inesattezze, se non di errori veri e propri, ma si tratta di dettagli che si perdono in una narrazione che invece funziona su tutti gli altri livelli già menzionati.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.