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Tomb Raider II: Venezia Caput Mundi

Agosto 1997, siamo più o meno verso la fine del mese. Ero appena tornato dalle vacanze al mare e sentivo il rientro a scuola alitarmi con il suo fetido fiato sul collo. Ma un motivo di gioia mi consolava: dopo tanta attesa, finalmente PlayStation, la scatola grigia dei sogni, stava per arrivare in casa mia. Ricordo ancora quel giorno in cui diedi fondo a praticamente tutti i miei risparmi, mi recai al MediaWorld più vicino e ne uscii con la console, Crash Bandicoot e, già che c’ero, Be Here Now degli Oasis (perché comunque dovevo provare il lettore CD, no?). Crash Bandicoot in realtà fu un ripiego, perché ero deciso a portarmi a casa Tomb Raider, ma non lo trovai sugli scaffali. Avevo passato i mesi precedenti a giocare a spizzichi e bocconi la prima avventura di Core Design da un amico che lo aveva per PC, sperando poi di potermelo giocare completamente per i fatti miei una volta acquistata la console Sony, ma non fu così.

Ma non c’era motivo di rammaricarsi, perché in autunno sarebbe arrivato Tomb Raider II.

Lessi per la prima volta di Tomb Raider II sul numero di luglio/agosto di Super Console (all’epoca ancora Super PlayStation Console), dove in copertina Lara Croft lanciava uno sguardo ammiccante vicino al protagonista di Fighting Force, altro titolo Core Design che si preparava ad infiammare il mercato.

Chi ha vissuto quel periodo si ricorderà sicuramente di come, nel giro di pochi mesi, l’archeologa inglese creata da Toby Gard (e palesemente ispirata a Indiana Jones) fosse diventata prepotentemente una nuova icona videoludica, con una buona quantità di articoli e servizi televisivi, finendo anche per diventare una sorta di ospite virtuale nel Pop Mart Tour degli U2. Le forme prosperose, i vestiti attillati e le pistole fumanti avevano fatto breccia nel cuore di tutti. Alcuni videro in lei l’inizio di una sorta di rivoluzione sessuale del mondo dei videogiochi, in cui la donna smetteva di essere un oggetto ma diventava soggetto attivo del gioco, non più vittima da salvare dal cattivo di turno ma eroina a tutti gli effetti.

Al di là di tutto, il fatto che Miss Croft avesse avuto tutto questo successo è dovuto anche e soprattutto al fatto che Tomb Raider era un gran bel titolo, un’avventura 3D avvincente che sembrava avere una libertà d’azione mai vista prima in un altro titolo.

Tomb Raider II prometteva di superare in tutto e per tutto il predecessore, offrendo un’avventura con un tocco più moderno: oltre a cripte e caverne questa volta Lara avrebbe agito anche in location cittadine come la nostra Venezia. E in effetti le riviste dell’epoca, nelle varie anteprime, giocarono molto sul fatto che Lara avrebbe visitato l’Italia, un po' come a riconoscere una sorta di importanza primaria del nostro paese nel mondo dei videogiochi.

Finalmente l’autunno arrivò e Tomb Raider II giunse sugli scaffali dei negozi, con un sottotitolo, Starring Lara Croft, a sottolineare che la presenza della formosa archeologa fosse quasi più importante del gioco stesso. E ricordo ancora, con una certa nostalgia, un viaggio in autobus con alcuni amici verso un negozio dell’hinterland milanese che aveva aperto da poco che regalava, fino ad esaurimento scorte, un poster di Lara a chi acquistava il gioco. Quello stesso negozio aveva allestito una vetrina proprio in omaggio al titolo Core Design, che ospitava, oltre a numerose copie del gioco, anche una serie di volantini promozionali “autografati” da Lara con un bacio e una copia della celebre Electronic Gaming Monthly dall’ambiguo titolo “Lara Croft gets Wet and Wild”, tanto per dare credito a chi considerava i fruitori di videogiochi come dei loser goffi e senza vita sociale. Ma concentriamoci sul gioco, che è meglio.

Tomb Raider II vedeva Lara impegnata nella ricerca del pugnale di Xian, artefatto cinese che, secondo una leggenda, avrebbe trasformato in drago chi avesse avuto il coraggio di conficcarselo nel cuore. Ma Lara doveva fare i conti con Marco Bartoli, capo di una famiglia criminale nonché membro di una misteriosa setta, attratto dai mistici poteri del pugnale. Affrontando il primo livello, lo spirito del primo gioco c’era tutto, ma già dal secondo scenario le cose cambiavano. Proprio lo stage veneziano faceva intravedere la piega presa dal secondo capitolo, che voleva far distaccare Lara dalla figura dell’archeologa a caccia di tesori per orientarla verso un profilo più alla James Bond in gonnella (anzi, in pantaloncini), aumentando l’azione e facendo scontrare Miss Croft con avversari umani. Proprio da Venezia in avanti, Lara lasciava sulla sua strada numerosi cadaveri umani (tutta gente cattiva, s’intende). Se Venezia tutto sommato funzionava bene, furono le ambientazioni successive a lasciarmi un po' interdetto, perché il Teatro dell’Opera, la piattaforma petrolifera e il relitto della nave mal si sposavano con la Lara Croft che avevamo imparato a conoscere. Fortunatamente la parte ambientata in Tibet e quella in Cina nel Tempio risollevavano un titolo buono ma che aveva perso la magia dell’originale, tenendo anche conto del fatto che le novità introdotte nel gioco erano di fatto più armi, più veicoli, nuovi outfit per Lara (tipo la giacca con l’imbottitura di pelliccia nella sezione in Himalaya) e qualche mossa in più. La base del gioco era rimasta invariata, con Lara che saltava, si arrampicava, muoveva blocchi e tirava leve. Com’è noto, squadra che vince non si cambia.

Il gioco godette due anni dopo di una nuova pubblicazione su PC contenente, oltre al gioco base, una sorta di precursore degli odierni DLC, denominato The Golden Mask, in cui la nostra eroina si cimentava nella ricerca dell’ennesima reliquia, una maschera appunto, capace di resuscitare chiunque la indossasse.

Per me Tomb Raider II è soprattutto un insieme di dolci ricordi, dalla ricerca sulle riviste di tutti i codici possibili (come quello per avere subito tutte le armi o per saltare da un livello all’altro, anche perché all’epoca non avevo ancora una memory card) al fatto che il lancio del gioco costituisse una sorta di evento, e poco ci mancava di vedere la gente accampata fuori dai negozi in fila come si vedeva fare all’estero. Tomb Raider II fu uno dei primissimi giochi a godere del doppiaggio in italiano, cosa che all’epoca costituiva un costo non certo indifferente per le software house, e segno che il titolo era destinato a un quasi certo successo. E poi, beh, come non ricordare quel fastidioso maggiordomo che ci seguiva dovunque e di cui potevamo liberarci solo rinchiudendolo nel frigorifero?

Cosplay di livello!

Ma soprattutto, Tomb Raider II mi riporta alla mente un periodo in cui fondamentalmente i videogiochi erano ancora circondati da un’aura di meraviglia e stupore, eravamo ancora in piena fase di cambiamento e di entusiasmo per ogni nuova uscita, non stavamo certo a guardare quanto tutto fosse “blocchettoso” e quanto fossero sgranati i muri avvicinandosi, tanto per dirne una, mentre adesso leggiamo di utenti che si lamentano per l’effetto della pioggia nel remake di Resident Evil 4.

Tomb Raider II fu l’unico episodio della serie che giocai prima della nuova saga. Da una parte, la pentalogia su PlayStation, con uscite a cadenza annuale, aveva presto spento l’entusiasmo, in quanto si riduceva tutto a mettere più roba possibile rispetto al capitolo precedente, a discapito di zero innovazioni dal punto di vista del gameplay. E i nuovi capitoli usciti negli anni successivi, Anniversary, Legends e Underworld, nonostante fossero dei titoli più che validi, non avevano più presa su di me, che avevo riservato le mie attenzioni su altri generi.

Poi, complice anche il successo di Uncharted, Lara Croft è tornata a nuova vita con il reboot del 2013 che ha dato vita a una nuova trilogia, accolta molto bene dall’utenza.

Tomb Raider II, a differenza del primo capitolo, non verrà certo ricordato come un classico, ma è vivo nei miei ricordi come un titolo che ha segnato il ciclo vitale della mia prima console Sony, e tanto basta.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Indiana Jones, che trovate riassunta a questo indirizzo.