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We - Sui giovani d'oggi ci scatarro su

Saltano fuori ciclicamente, li becchi in giro a questa o quella rassegna, escono dalle fottute pareti, li guardi con sospetto ma poi finisce spesso che non sono niente male. Di che parlo? Dei film che raccontano la "scandalosa" gioventù contemporanea, che ne mettono in mostra senza peli sulla lingua assurdità, conflitti, contraddizioni, approccio libero (?) alla sessualità, impeto violento e ribelle, difficoltà nel rapportarsi con un mondo adulto che antagonizzano, come è normale, giusto e sano che gli adolescenti facciano. Certo, magari sarebbe meglio se lo facessero senza esagerare con l'illegalità e/o la violenza, fisica tanto quanto psicologica, ma insomma, non è che si possa sempre avere tutto e in ogni caso, quando in un film vuoi schiaffarci il MESSAGGIO, è bene estremizzare, altrimenti non arriva. Tanto più che, signora mia, sono estremizzazioni solo fino a un certo punto, certe cose succedono davvero.

We segna l'esordio cinematografico di Rene Eller, uno che si è fatto le ossa con vent'anni di televisione e video musicali, costruendosi un bagaglio estetico che qui mette in mostra senza risparmiarsi colpi. Il suo primo film, ispirato all'omonimo romanzo di Elvis Peeters, è un continuo rincorrersi di splendidi quadretti estetici che raccontano una gioventù contemporanea, abituata ad esprimere il proprio disagio esistenziale fra smartphone e internet ma allo stesso tempo filtrata da uno sguardo quasi nostalgico, un look che fa tornare alla memoria la malinconia anni Ottanta di Chiamami col tuo nome. Ma quello di Eller è un racconto completamente diverso dal delicato film di Guadagnino. Qui, si parla di una gioventù anestetizzata, inconsapevole, la cui (apprezzabile) liberazione sessuale passa solo brevemente attraverso una gioiosa sperimentazione e finisce in fretta e furia nel gorgo della mercificazione, dello sfruttamento ai fini materialistici, macellando ogni lampo di umanità che provi ad emergere fra le pieghe.

Al centro delle vicende, troviamo otto adolescenti che si fanno prendere la mano, giocano coi propri corpi e li sfruttano per ottenere quello che vogliono ma, sulla distanza, perdono il controllo di emozioni, rapporti, umanità, finendo per diventare biechi e meschini tanto quanto gli adulti che disprezzano. Ambientato in una cittadina di confine fra Belgio e Olanda, We gioca sul senso di isolamento per dare spazio a sfoghi surreali e schivare con forza finali conciliatori, ma in quegli stessi luoghi, nel suo raccontare tutto all'interno di una bolla, senza dare un contesto che non sia quello dell'assenza famigliare e di rari lampi di pessima presenza, perde un po' di forza. A questo si aggiunge la scelta di raccontare le vicende attraverso una scansione temporale scombinata (quattro episodi che mostrano gli stessi eventi da altrettanti punti di vista, aggiungendo mano a mano dettagli significativi) che, come spesso accade, finisce per essere tanto punto di forza quanto limite, perché introduce un mistero che tiene sì alta l'attenzione, ma la fa sgonfiare quando finalmente lo svela a due terzi del viaggio. E alla fine resta l'impressione di un film che piazza qualche colpo duro ma, tutto sommato, risulta meno ficcante di quanto creda d'essere e la cui piccola rivelazione negli istanti conclusivi ha l'aria dell'attacco a valanga disperato allo scadere. E non la infila nel sette.