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Sotto la nostalgia niente: cosa penso di Stranger Things

Sotto la nostalgia niente: cosa penso di Stranger Things

«Il D20 per la palla di fuoco lo doveva tirare il master, mica tu!».

Il vero problema è che a me Stranger Things è anche piaciuto.

Mi rendo conto che non è un inizio scoppiettante per quella che dovrebbe essere la colonna infame del NO, quella dove l’ospite di turno spiega le sue posizioni anti-qualcosa, nello specifico una mediocre serie TV creata da Netflix in collaborazione segreta con Steven Spielberg per veicolare la vendita di un surplus di Blu-ray di E.T. rimasti nel magazzino privato del regista americano.

Però è vero: Stranger Things non è una cosa brutta, le cose brutte sono altre, Big Bang Theory è brutta, Iron Fist è brutta, Stranger Things è una robetta a tratti carina che è riuscita a ritagliarsi uno spazio sproporzionatamente vasto nel cuore di milioni di persone con trucchetti furbi e un piano a tavolino di conquista del mondo, e nella quale galleggiano, in mezzo al brodo di mediocrità, due o tre gemme luminosissime che tutto sommato, anche a voler essere estremamente crudeli, salvano la baracca.

Sopra: una gemma luminosissima.

Perché, allora, sono nella colonna del NO?

(Sto immaginando che questo pezzo venga impaginato su due colonne, a sinistra quella rosa e con i fiorellini dove Andrea parla bene di Stranger Things, a destra quella color fine della speranza e decorata di scintillanti diarree dove io parlo male di Stranger Things. Se non dovesse essere così perdonatemi, o ancora meglio immaginate che sia così)

Perché Stranger Things mi ha fatto infuriare, e più passano i mesi più mi manda ai pazzi e mi fa venir voglia di prendere a schiaffi i Duffer Brothers e tutta la pletora di esperti di marketing che intorno a due idee in croce sviluppate non particolarmente bene hanno costruito un edificio meta-testuale fatto di app sul web per CREARTI IN CASA IL TUO LOGO DI STRANGER THINGS e di siti che ti fanno giocare con le lucine stronze di Winona Ryder e di una promozione tutta a uso nostalgia che

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Ecco! Visto! Ci siamo arrivati!

Vorrei anzi un applauso per aver evitato di utilizzare la parola con la N per quasi 2.000 battute.

Però non se ne sfugge, bisogna affrontare la questione, e non è neanche colpa mia, è colpa di Netflix e dei Duffer che dietro alla parola con la N ci hanno messo poco, pochissimo, quasi nulla. Colpa mia semmai è prendermela a prescindere con Stranger Things, perché è una serie nata per titillare i ricordi d’infanziadolescenza di quello che (suppongo, supponiamo, Netflix queste cose non ce le dice) è il segmento maggioritario dell’utenza del sito; sarebbe come prendersela con Starz perché Spartacus è una serie che punta tutto su sangue e tette, voglio dire, sì, certo che lo fa, e se per me non è abbastanza non posso certo arrabbiarmi con loro. Stranger Things in questo è sempre stato un prodotto estremamente sincero: questo vogliamo darti e questo abbiamo fatto (dove “questo” = “Stephen [King/Spielberg]”).

È anche poco onesto intellettualmente, ancora una volta da parte mia, irritarmi con un Prodotto Nostalgico: mi sono emozionato anch’io quando è uscito Mad Max: Fury Road, il più grande film del millennio in corso, e il mio cuore si è riempito di stelline pixellose quando ho giocato a Thimbleweed Park. Voglio dire che la roba con cui sono cresciuto negli anni Ottanta/Novanta è ancora nel mio cuore, come in quello di chiunque altro sia cresciuto negli anni Ottanta/Novanta, non ho nulla in contrario a rivisitazioni e ammicchi, e tra le altre cose è difficile, se non impossibile, bazzicare gli ambiti della cultura pop che mi piacciono (certi film, certi romanzi, i videogiochi) e non inciampare in buche o crateri di nostalgia ogni dieci passi. È forse anche una cosa sana, si scrivono ancora oggi libri sull’Iliade o sulla Divina commedia o sul Paradise Lost e si fanno ancora documentari su Shining o Apocalypse Now, quindi, con una certa fantasia, si potrebbe anche leggere questa fissa per l’archeologia pop come un tentativo di rielaborazione critica e contestualizzazione e presa di distanza e ricalibrazione del giudizio.

«Non è che continuiamo a citare Star Trek o Incontri ravvicinati o La casa perché siamo senza idee, è un naturale processo di assimilazione e riscrittura che serve a delineare con maggiore oggettività contenuti e messaggi nei quali eravamo troppo immersi al tempo per riuscire ad abbracciarli con uno sguardo sereno e obiettivo», una roba così.

Sopra: uno sguardo sereno e obiettivo.

Il punto è che Mad Max: Fury Road e Thimbleweed Park, ma anche (non so, elenco roba più o meno a caso) il remake di IT, o Super Meat Boy, Rogue One, The Void, il DOOM dell’anno scorso, Pillars of Eternity, la nuova serie su Duck Tales… è tutta roba costruita sulla nostalgia e su un linguaggio ormai antico (trent’anni fa!), di facile comprensione a gente sopra i trenta proprio perché sfrutta gli stessi mattoncini con cui erano costruiti i classici di QEG (Quando Eravamo Giovani). Ma è anche tutta roba la cui qualità va oltre, è la vecchia storia dello stare in piedi sulle spalle dei giganti, nonché quella di costruire un’opera che abbia una personalità, una coerenza interna, un sistema di valori e riferimenti che sia autoconsistente e autosufficiente, che possa funzionare anche se il fruitore non era ancora nato (oppure era già morto) nell’anno in cui si svolge, che sia in grado di spiegare il proprio linguaggio anche a chi non è aggiornato, anche a chi non c’era. 

In Stranger Things tutto questo manca. Quasi tutto, ed è forse qui la lama sottile che divide quelli che l’hanno amato da quelli che vorrebbero prendere a schiaffi Matthew Modine. 

Provo a spiegarmi. 

Avete presente Dark Souls? Deduco di sì. È una serie nata (anche) grazie alla nostalgia, di certi vecchi giochi – Metroid, Castlevania, soprattutto roba tipo Faxanadu –, di certi altri giochi un po’ meno vecchi (Crusaders of Might & Magic, Severance: Blade of Darkness) e di un certo modo di approcciare level design, world design, livello di sfida, pure storytelling. Piaceva, soprattutto all’inizio con Demon’s Souls, in particolare a una certa fascia di età, che si ritrovò davanti un prodotto talmente vecchio da risultare nuovo. Era in un certo senso un’operazione nostalgia, che grazie a una serie di accorgimenti tecnici moderni (provate a giocare oggi al già citato Severance, poi a Dark Souls, poi tornate qui e parliamo di hitbox, input lag e animazioni) e a qualche idea oggettivamente originale è riuscita ad elevarsi e a ritagliarsi uno spazio tutto suo nella storia del mezzo. Da allora, Dark Souls si è sempre nutrito di nostalgia, tra citazioni costanti ai vecchi capitoli, NPC e boss che ritornano ad ogni capitolo in una versione riveduta e corretta, vecchie armi e armature piazzate in luoghi strategici per far felici i fan più pazienti, persino intere aree riciclate e riadattate al capitolo di turno. Ora, provate a giocare a Dark Souls (o al 2, o al 3, persino a Bloodborne) e a eliminare tutti i rimandi nostalgici, tutte le citazioni, tutti gli sguardi a un passato glorioso: cosa vi rimane in mano? Un sistema di gioco che funziona a orologeria, un mondo gigantesco e pieno di segreti (passaggi e non solo), un livello di sfida più alto della media, qualche idea narrativa molto potente… quello che voglio dire è che si può anche entrare in Dark Souls dal terzo capitolo senza per questo sentirsi tagliati fuori o culturalmente menomati.

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Cosa c’entra questo con Stranger Things? C’entra che Stranger Things è l’equivalente televisivo dei vecchi boss di Dark Souls che ritornano nei giochi successivi, solo che senza la menta intorno. Quello che voglio dire è che Stranger Things è Ornstein in Dark Souls 2, che una volta stornati dalla serie i poster di vecchi film horror e le biciclette dei ragazzini come in E.T., quello che rimane di è un mucchietto d’ossa, neanche particolarmente interessanti, tipo che sono tutte tibie e tutte uguali tra loro. Certo, ci sono i ragazzini simpaticissimi come in E.T. e come in Stand By Me: uno ha un difetto di pronuncia (come Bill in IT), uno è nero (come Mike in IT), uno è coinvolto perché suo fratello è la vittima di turno (ancora come Bill in IT), tutti quanti hanno una faccia adorabile e stanno benissimo nelle foto dietro le quinte o nei post su Instagram dove si fanno i selfie mentre sono al bar a bere tutti felici. 

E poi? 

E poi nulla, perché Stranger Things non sembra essersi mai interessata a costruire personaggi o storie o mitologie, piuttosto a inscenare momenti iconici e infinitamente ripetibili studiati a bella posta per fare un figurone su Instagram e Tumblr. 

Certo, ci sono gli adulti la cui isteria e i cui segreti inconfessabili servono a fare da contrasto all’innocenza dei tre protagonisti, e il cui status di adulti è utile come deus ex machina per far avanzare la trama quando serve (si veda “la scena del ritrovamento del cadavere di Bill”, immancabile occhiolino a Twin Peaks e occasione per spiegare due cose in croce su Hopper), ma sono adulti generici, figure di cartone che ricoprono ruoli archetipici (lo sceriffo, la madre della vittima) e che sono privi di qualsiasi profondità di scrittura, caratterizzazione, interesse. Ci sono perché devono esserci e perché servono come collegamento con la sottotrama del governo cattivo che fa gli esperimenti, ulteriore dimostrazione, peraltro, della confusione creativa dei Duffer Brothers, che nella loro ansia di citare TUTTO QUELLO CHE È SUCCESSO DAGLI ANNI OTTANTA A OGGI infilano nel pastrocchio qualsiasi cosa da questo lato di X-Files.

E certo, c’è, ci sarebbe, tutto il lato “horror” della faccenda: un universo oscuro e parallelo, che si caratterizza per il suo essere identico a come Michel Faber prima e Jonathan Glazer poi l’hanno immaginato in Under the Skin, abitato da una creatura cattivissima che mangia i bambini e che è finita sotto la lente del sempre attento Governo Americano.

Sopra, a sinistra, Stranger Things. A destra, Stranger Things.

Forse il problema è mio che arrivo da quel lato della barricata e da un prodotto che fa dell’aspetto orrorifico uno dei suoi punti di forza mi aspetto non dico una rivoluzione, ma quantomeno mezza intuizione esteticamente interessante o, in assenza di budget, un’idea forte, in grado di causare aritmia cardiaca anche solo per principio e concetto. Forse, però, il problema è dei Duffer, che questo lato horror l’hanno sviluppato con l’attenzione che Guy Ritchie riserva alla fotografia d’interni: il sospetto, ogni volta che entra in scena La Creatura, è che la sua presenza sia un contentino per i fan hardcore di King, e che la regia non veda l’ora di chiudere la scena e passare a fare altro, qualcosa di più spendibile su Internet, che ne so, una scena con Millie Bobby Brown che prova una nuova parrucca o un’altra citazione di D&D. 

O magari l’ennesima tra le infinite “sequenze” “horror” con Winona Ryder, quelle sì vendibili a chiunque perché intrinsecamente memetiche, con tutte quelle lucine stronze che illuminano l’alfabeto e i telefoni che squillano ovunque, e la fu bella Winona che spinge sul pedale dell’overacting e grida, strepita, si straccia le vesti, piange come se volesse chiedere scusa per una carriera mediocre nella quale il talento ha sempre latitato. Avessimo visto le scene con le lucine stronze in un qualsiasi, boh, Lights Out o Paranormal Activity o Insidious o sa il cazzo cos’altro, avremmo riso in faccia agli autori, impietositi dalla pochezza delle loro intuizioni. Se lo fa Winona Ryder vagando per una casa con i poster di Evil Dead e Dark Crystal alle pareti, invece, capolavoro, perché vi ricordate quando eravamo giovani e avevamo anche noi quei poster alle pareti.

Nella foto, Millie Bobby Brown si sottopone a una seduta di nostalgiometro. Alla fine del trattamento si ricorderà a memoria la trama del 74% degli episodi di Happy Days.

Sapete cosa mi fa davvero infuriare? Che pur nella sua anemia, nella sua pochezza contenutistica, tematica, visiva e di scrittura, la prima stagione di Stranger Things aveva abbastanza cose buone da non farmela bocciare in toto – «Guarderò anche la seconda per curiosità» è, nel 2017, l’equivalente del vecchio «Quando esce il sequel vado al cinema», o anche del «Devo ricordarmi di mettere a registrare la puntata di stasera perché siamo fuori a cena». Era, è, comunque una serie horror, che nel giro di poche puntate accenna una mitologia e una mostrologia potenzialmente esplosive, seppur strozzate tra tentazioni adolescenziali e quel cane di Matthew Modine che fa finta di recitare. Undici è un personaggio di una banalità sconcertante (la bambina vittima degli esperimenti governativi perché ha i superpoteri WHOA), certo, ma con margini narrativi di crescita immensi e interpretata da quella che, a tredici anni appena compiuti, è già un animale da cinema, un talento sconfinato e magnetico che ha già un universo in fondo agli occhi e che va coccolata, adorata e fatta lavorare in tutti i film possibili.

Dei tre regazzini, di Nancy e Barb che è sparita, di Winona e quell’altro non ce ne frega molto, non ce ne dovrebbe fregare molto in un mondo più giusto, ma Stranger Things ha tutti i titoli per ambire a diventare qualcosa di più, per staccarsi dai modelli e sviluppare finalmente una personalità che sia viva e vitale anche durante le puntate, non solo nelle gif che il giorno dopo invadono le bacheche Facebook di tutto il mondo. Ero dispostissimo a perdonare ai Duffer tutta la codardia e a derubricare le scorciatoie nostalgiche della prima stagione ad atti di insicurezza, salvagenti per garantirsi un secondo tentativo, più compiuto e maturo e personale.

Poi ha cominciato a uscire questa roba e ho deciso di ritornare al vaffanculo.

Perché quello che mi dicono (pregiudizialmente, lo so) è che Stranger Things resterà per sempre un’opera incompiuta e furbastra, un veicolo per solleticare la nostalgia di altre opere simili, migliori e arrivate su questo pianeta quando i Gemelli Duffer erano ancora uno spermatozoo nei coglioni del signor Padre dei Gemelli Duffer. Un trabiccolo che si regge sul lavoro altrui e che non ha ancora avuto il coraggio di calciare lontano le stampelle della nostalgia per reggersi sulle proprie idee.

E sia chiaro: felicissimo di venire smentito dalla seconda stagione, che comunque guarderò con gusto il weekend che diventerà disponibile su Netflix.

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PS: l’obiezione che mi viene fatta più spesso quando esprimo queste posizioni su Stranger Things è «Ma perché tu sei vecchio, pensa a come viene vissuta da un giovane che non era giovane quando è uscito E.T. e magari non l’ha manco mai visto». La mia risposta dovrebbe essere già chiara, ma a scanso di equivoci: un giovane che vede oggi Stranger Things si ritrova di fronte a una versione sciacquata e all’acqua di rose dei prodotti che cita, uno zuppone di tutto con poche vere idee, narrative e cinematografiche, gettate in un calderone di macro per meme e lasciate lì ad agonizzare. Poco importa se poi la mancanza di prospettiva fa sembrare la serie più bella di quello che sia: Stranger Things nasce per creare un fandom prima che per raccontare una storia o per fare grande cinema.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

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