Outcazzari

Giochi (e racconti) random dalla GDC 2017

Giochi (e racconti) random dalla GDC 2017

Quello che stupisce di più di San Francisco, e della GDC in particolare, è l’umanità. Sono stato abituato a vivere conferenze, fiere e incontri di vario genere, dalla fisica all’elettronica, passando dalla fotografia fino ai classici “Comicon”, in maniera molto diversa, con una secca e imprescindibile distinzione fra “noi” e “loro”. “Noi” visitatori stiamo dalla nostra parte, guardiamo ma non tocchiamo, possiamo fare domande ma sempre con un rigido e insormontabile muro di fronte al palco. Ed è bello anche così, per carità, restare spettatori paganti (metaforicamente e non) di uno spettacolo al quale possiamo assistere ma senza interagire e senza avvicinarsi troppo ai commedianti.

La GDC è diversa, è il momento in cui l’intero mondo dell’intrattenimento videoludico collassa in una singolarità spazio-temporale, abbassando al minimo l’A.T. Field di marketing e spocchia fino a formare un blob o, per mantenere il lessico di Evangelion, un LCL di varia umanità interagente ai livelli più amichevoli e informali possibili, e con tassi alcolici mediamente elevati. Capita così di rimbalzare di evento in evento, trascinati da questa o quella conoscenza, e di ritrovarsi a parlare con gente a caso, dallo slovacco che sviluppa dalla stanzetta a casa dei suoi, al tizio che ha fatto quel gioco bellissimo che ti sei filato solo tu e puoi finalmente ringraziarlo e abbracciarlo anche se è un po’ sudaticcio, fino a Lucas Pope (quello di Papers, Please) che spuntava random da ogni angolo, sempre un po’ triste e col capello unticcio. Da tutte queste chiacchierate ed eventi random ho raccattato un po’ di codici per giochi che ho avuto modo di provare. A volte il gioco è interessante, a volte è interessante la storia che ci ruota attorno, a volte nessuna delle due ma sticazzi, ve lo racconto lo stesso. Cominciamo.

Il primo sabato a San Francisco era stato una bella smazzata. Bella ma comunque una smazzata. Avevamo deciso di visitare la costa a nord della città con quella specie di carro funebre Mercedes che l’AVIS ci aveva affibbiato, passando dalle maestose sequoie di Muir Woods fino a scoprire, osservando le verdi vallate di Mount Tamalpais, che in fondo il paesaggio dell’alto Molise era più vicino di quanto credessimo. Abbiamo però giocato a fare gli Icaro della situazione e ci siamo spinti, col tempo avverso, fino allo spettrale e affascinante faro di Point Reyes, con le sue rupi rosse a picco sul mare, scalinate strette da trecento e passa gradini e un vento gelido che soffiava sui nostri inermi e mal coperti corpicini da nerd già provati dal jet-lag. Questo ha probabilmente causato malanni a (quasi) tutti nel gruppo e anche il forzato stop di giopep per un paio di giorni (calma: ho realmente ceduto solo per un pomeriggio e relativa sera. ndgiopep).

Ad aggiungere pietre sulla nostra metaforica tomba virale e batterica ci ha pensato Alex Camilleri, che l’indomani ha pensato bene di invitarci a un brunch di sviluppatori indipendenti. E che fai, non vai? Fila chilometrica all’ingresso di un bar dalle dimensioni di un monolocale medio parigino, gente che si scambia già biglietti da visita e pacche sulle spalle, tizia appariscente che scende da un taxi, attacca misteriosamente bottone con me e forse, a ben pensarci, era solo per saltare una parte della fila. Ora, in questo posto, per un piccolo sovrapprezzo (non ricordo sinceramente se era piccolo e il perché lo capirete fra un momento), potevi avere accesso a mimose illimitate. No, non era l’8 marzo. In questo caso la mimosa di cui parlo è un diabolico miscuglio di champagne e succo di arancia, dall’aspetto tanto innocente quanto devastante è la forza dei suoi effetti dopo il settimo bicchiere. E che fai, non li prendi? Ci siamo accomodati nell’angusto e spartano cortile interno già strapieno di gente varia, su delle eleganti panchine di legno che sembravano venire dritte dritte dalla sagra del peperone imbottito che fanno nel mio quartiere. Il cibo tardava ad arrivare ma la tizia che distribuiva mimosa era sempre lì pronta a riempirti il bicchiere non appena era mezzo pieno e tu eri un attimo distratto. Giuro che in un paio di occasioni non me ne ero minimamente accorto, mi sono girato, mi sono rigirato e il bicchiere era pieno. Questo vuol dire che alle undici e mezza di mattina, a stomaco vuoto e con un quantitativo non meglio identificato di mimosa in corpo eravamo… beh… allegri, ecco! Di fronte a noi sedevano i tizi di Clustertruck. Convenevoli, che bello il vostro gioco, grazie ma voi chi cazzo siete? Networking, lo chiamano. Poi scena mancante nel mio cervello e un corpulento ragazzo polacco mi passa il suo biglietto da visita. ”Dietro c’è un codice per provare il mio gioco.”, dice. “Grazie!” dico io, non avendo la più pallida idea di cosa stesse parlando. Quel gioco era...

Deep Blue - Kula World ma brutto

Il sottotitolo dovrebbe dire già tutto ma infieriamo pure. Deep Blue è uno strambo puzzle platformer chiaramente ispirato a Kula World, titolo che quasi una ventina di anni fa mi causò un grave caso di ossessione e dipendenza. In sostanza, bisogna guidare una palla attraverso strette piattaforme sospese nel vuoto, facendo muovere e saltare la palla e potendo modificare la gravità del livello in modo da farla aderire a superfici diverse. Kula World, all’epoca, era stato geniale, col suo game design nuovo ed essenziale in un’epoca di cafonate senza un domani. Deep Blue ci prova ma non ci riesce: i controlli sono scivolosi e imprecisi e, in un gioco così, significa che tutto sfocia dopo dieci minuti in un assolo di bestemmie. I livelli e le meccaniche non sono particolarmente ispirati e ci si stufa dopo mezz’ora di ripetitività. Inoltre, ha lo stesso look del 90% dei giochi odierni: tutto nero, blu e viola. Maledetti voi, per quanto ancora continuerete? Poi ha del fantastico ed ilare “Engrish” nelle spiegazioni e negli intermezzi che, dai, siamo nel 2017 ed esiste Google. Quindi no, corpulento ragazzo polacco, ti voglio bene ma Deep Blue, anche se ancora incompleto, è bruttino.

Dunque, avevamo lasciato me, Nabu e giopep seduti sulle panche della sagra del peperone imbottito a cercare di razionalizzare una sbronza alle undici e mezza. Finalmente arriva il cibo (delle uova benedict della morte), ma ormai il danno epatico era fatto. Altra scena mancante, almeno per me, e un altro tizio compare di fronte a noi al tavolo e ci invita a provare il suo gioco, il cui slogan è una roba da film di Lina Wertmuller: "A non-linear first person courtroom drama set in the streets of 19th century steampunk Paris". Non mi assumo responsabilità se provate e pronunciare il nome tutto d’un fiato e morite di asfissia. Comunque quel gioco era…

Bohemian Killing - Living a lie

Ma sapete che invece questo è veramente carino e originale? Al di là dell’assurdo sottotitolo, in Bohemian Killing si impersona un assassino impegnato a spiegare alla corte che lo sta processando gli avvenimenti della notte in cui ha commesso il misfatto. Per fare ciò, si prende il controllo diretto del personaggio, effettuando azioni in prima persona e ricostruendo passo per passo cosa è successo quella notte. Il giocatore è libero di esplorare e raccontare la verità (non c’è dubbio che il protagonista sia colpevole), oppure cercare di farsi assolvere o incastrare qualcun altro, compatibilmente con quello che però i testimoni hanno detto. Ogni azione che facciamo viene raccontata e a volte il giudice fermerà le nostre azioni per chiedere spiegazioni o evidenziare incongruenze. Il tutto, inoltre, è scandito dallo scorrere naturale del tempo, quindi dovremo tenere d’occhio gli orologi per cercare di raccontare la nostra versione dei fatti, in modo che coincida anche temporalmente con quello che hanno detto i testimoni. È una svolta molto interessante, in questo genere, con nove diversi finali possibili e la consapevolezza che non potremo mai cambiare i fatti, ma solo cercare di raccontare una storia quanto più coesa possibile per salvarci la pelle. Certo, dal punto di vista tecnico non brilla particolarmente: il doppiaggio non è dei migliori, ci sono caricamenti ovunque e la scrittura a volte lascia a desiderare, ma se vi piacciono i gialli o le puntate di Perry Mason, dovreste assolutamente provarlo. Bravo il mio misterioso amico, se solo mi ricordassi chi sei o almeno come sei fatto.

Cambio scena, è lunedì e siamo al The MIX, gigantesco evento stampa per giochi indie, in modalità professionale nonostante la carica batterica elevata. Fra una demo e l’altra, alterno frasi del tipo “Oh, ma quella è Naomi Kyle?” e “Oh, guagliù, al buffet ci stanno gli spiedini!”. Dei molti giochi provati lì, ne abbiamo parlato profusamente nel gargantuesco podcast dedicato alla GDC, ma uno di questi ho avuto modo di provarlo con calma a casa in queste settimane. Passeggiando per i vari banchetti del The MIX, mi cade l’occhio su uno schermo con dei biplani che si rincorrono fra nuvole colorate sparando in maniera buffa. La postazione è occupata e non posso provarlo, ma il rubicondo sviluppatore comincia a chiacchierare. Mi spiega più o meno il gioco, domande, risposte e professionalità. Gli chiedo di dove sono. “Svizzeri”, mi risponde. Gli racconto che vivo anch'io in Svizzera da più di qualche anno. Il viso serio e professionale si trasforma in una smorfia di stupore e gioia, o qualsiasi cosa provino gli svizzeri di fronte al fatto di aver incontrato un quasi “paisà” dall’altra parte del mondo. “Fantastico!”, mi dice “Non se ne vedono tanti, qui. Sai cosa? Ecco un codice, prova il gioco con calma a casa!”. Quel gioco è…

AIRHEART - Amelia è ancora viva e pesca nella stratosfera

Twin-stick shooter in early access ma già molto godibile e pieno di contenuti, AIRHEART è ambientato in un mondo steampunk dalle tinte pastello, in cui si impersona Amelia, una ragazza che, a bordo del suo piccolo biplano, deve farsi strada nell’impietoso mondo della pesca fra le nuvole. In questo mondo, la principale fonte di reddito sembra essere l’olio che si estrae da creature volanti che si librano a chilometri di distanza dal suolo. Amelia, col suo biplano, deve raccoglierli o infilzarli al volo con l’arpione, stando ovviamente attenta ai suoi concorrenti, che spesso sono innocui, ma altrettanto spesso vedono di cattivo d’occhio l’intrusione della novellina. Con l’olio raccolto, è possibile ovviamente comprare nuove parti e nuove armi per l’aereo, in un meccanismo che abbiamo imparato a odiare (o amare) già altrove. Molto particolare il twist alla fisica del twin-stick shooter, con un sistema di rinculo delle armi che spinge a calcolare per bene il momento giusto in cui sparare, oppure a sfruttare il rinculo per accelerare in una determinata direzione o effettuare manovre altrimenti impossibili. In più, il mondo sembra molto aperto, con la possibilità di accedere da subito agli strati alti dell’atmosfera, dove ci sono ricompense e rischi maggiori. Mi ha divertito e ci ritorno di tanto in tanto per una sessione veloce. Grazie, amici svizzeri.

Altro cambio di scena. Stavolta è l’ultimo, giuro. È mercoledì e siamo stati invitati all’European Game Showcase, un altro evento stampa, stavolta incentrato esclusivamente sugli sviluppatori europei, che si tiene nella lobby di un albergo poco distante dal Moscone Center. Io e Nabu ci rechiamo all’appuntamento nella speranza di poter provare qualcosa di nuovo… ma anche e soprattutto per il cibo gratis. È nel corso di questo evento che proverò Planet Alpha, che forse è una delle cose più belle che ho visto in questa GDC e di cui mi piacerebbe potervi raccontare qualcosa in più, non appena dovesse palesarsi in una forma più completa. Entriamo nella elegante lobby, le cui vetrate si affacciano direttamente sulla sede di LinkedIn dall’altro lato della strada. Una decina di tavolini ospitano altrettanti computer e postazioni di gioco già affollate, la ragazza al bancone ci urla “Benvenuti! Volete un milkshake?” “Perché no!”, rispondiamo noi, con la stessa grazia e disinvoltura di un Duccio Patané al quale hanno appena offerto cocaina. Due sorsi dell’iperglicemica bevanda e uno standista lì vicino mi ha piazzato addosso un Oculus e messo un joypad in mano. Fortuna che avevo mangiato poco, perché quel gioco era…

Detached - Nello spazio nessuno può sentirvi vomitare

Pare che nel magico mondo della VR il filone dei simulatore di astronauta sia un must. Sarà perché sanno essere molto spettacolari con poco, sarà perché rendono bene con un sistema di controllo esterno che simula i movimenti del jetpack in dotazione, sarà perché ti amo, ma in questo periodo i titoli del genere si sprecano: Adr1ft, Downward Spiral e via dicendo. Deo gratias, avevo bevuto ben poco del mio milkshake o lo avrei tranquillamente restituito al mondo dopo dieci minuti. Non fraintendetemi, il gioco è ben fatto e divertente visto l’approccio meno adrenalinico e più puzzle, senza quei momenti un po’ forzati in cui la stazione spaziale viene giù dall’orbita come deve obbligatoriamente fare ogni prodotto del genere dopo Gravity. Il problema è che Detached lascia veramente tutti i movimenti liberi al giocatore, su tutti gli assi di rotazione e traslazione, il che si traduce nel fatto che, specie quando non si padroneggiano ancora bene i comandi, si gira come trottole impazzite per la stazione spaziale, sperando e pregando di non sporcare il casco con i propri succhi gastrici. Insomma, dopo un approccio (e un lungo strascico) emetico, il gioco si rivela godibile, con una buona atmosfera, puzzle carini (almeno per il mondo VR) e un approccio grafico che riesce ad essere abbastanza realistico, senza ingombrare troppo il visore. Se volete giocarci, un bel Plasil e un secchio al vostro fianco faranno la differenza.

Quando tolgo il casco, ho la faccia bianca e l’occhio stralunato del bambino vomitino dei Simpson. “Eh, è un’esperienza VR abbastanza hardcore!” dice ridendo il tizio. “Eh, comm a fess e mammeta!”, vorrei rispondere, ma la professionalità prende il sopravvento e accenno una risata, mentre tengo faticosamente a bada i succhi gastrici. “In effetti è abbastanza tosto!” mi limito a dire. Lui ride e mi porge una chiave del gioco “Provalo con calma a casa!”. Peccato non abbia offerto anche del Plasil omaggio. Comunque, parte delle impressioni che ho scritto sopra è anche frutto di una prova più intima del gioco, che comunque riesce a scombussolarti lo stomaco anche comodamente a casa tua.

Lasciata la postazione dei gioco vomitino, io e Nabu ci dividiamo per coprire più giochi possibile: lui adocchia una specie di Rocket League in acido ambientato in flipper, io mi avvicino ad un banchetto con un ragazzo e una ragazza con su le orecchie da gatto che smanettano davanti a una griglia di animaletti puccettosi. Due giorni dopo, la stessa coppia me la troverò sul palco al Marioke, geniale karaoke reinterpretato in chiave videoludica, mentre cantano a squarciagola un brano hard rock, ma questa è un’altra storia. Comunque, mi spiegano che stanno lavorando a un gioco che è un simulatore di ecosistema e genetica. Arriva poi la fatidica domanda “Da dove venite?” “Svizzera, ovviamente!”. Faccio sfoggio della mia seconda vita (h)el(l)vetica sperando nella stessa reazione del tizio al The MIX, che infatti arriva. “Paisà paisà, quanto ci mancano le montagne svizzere, la fonduta, la raclette e gli alloggi a prezzi da rapina!” fanno loro, con rinnovata luce negli occhi. “Il gioco è un po’ complesso da spiegare qui ma eccoti una chiave per provarlo a casa!”. Ringrazio, saluto e li assecondo nella celebrazione della madre patria. Quel gioco era…

Niche - Spore ma a turni e fatto bene

Se il sottotitolo non dovesse bastare a darvi un’idea del gioco, vi dico che è un simulativo-gestionale in cui bisogna aiutare una tribù di animali dai tratti felini a sopravvivere, mentre si spostano attraverso una serie di isolette realizzate a base esagonale. Si parte con due felini, maschio e femmina, da far accoppiare per generare una prole in grado di aiutare i propri genitori a raccogliere cibo, difendersi dai predatori e in generale sopravvivere in un ecosistema brutale e impietoso. Il tutto funziona a turni, con ogni animale in grado di effettuare da una fino a quattro azioni per turno a seconda delle proprie caratteristiche. Ogni animale, in più, ha un complesso sistema di statistiche e tratti genetici dominanti e recessivi, che potranno passare alle generazioni successive. È importante, ai fini dell’accoppiamento, scegliere sempre gli esemplari con le caratteristiche migliori per far avanzare la nostra stirpe, anche perché ognuno dei felini ha un numero di turni preciso che può effettuare prima di soccombere a una morte naturale. Il gioco tiene anche conto di altri fattori quali mutazioni genetiche casuali, che causano la comparsa di tratti genetici del tutto nuovi, o anche la maggiore possibilità che si presentino deformazioni nei cuccioli nel caso facessimo accoppiare animali imparentati. Insomma, è un ottimo simulatore di eugenetica, che presenta anche ovvie ricadute di tipo edutainment. Niche è ancora in Accesso Anticipato e ha certamente bisogno di un po’ più di contenuti e varietà, oltre che di un certo perfezionamento di grafica e interfaccia, a volte non chiarissima, ma sembra essere sulla strada giusta.

L’evento volge al termine, io e Nabu chiamiamo un Lyft per portarci all’evento Nvidia, la più pacchiana, eccessiva e pantagruelica presentazione che abbia visto in vita mia. “Ma se prendessimo un passaggio in condivisione per risparmiare qualcosa?”, propone Nabu, con la sua oculatezza genovese. “Potremmo finire in macchina con due ragazze bellissime, o più probabilmente con due rapinatori”, faccio io, con la mia classica diffidenza da provinciale. “Due rapinatori BELLISSIMI, però", rilancia l’amico ligure. “Vabé, ho capito, pigliamoci una macchina per fatti nostri.”

E via, verso nuove mirabolanti avventure nel mondo surreale della GDC.

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